domenica 28 aprile 2013

Dare altre risposte alla "morte sociale"

Abbiamo assistito a tanti episodi simili, causati dal massacro sociale in corso indotto dalla “crisi” del sistema capitalistico di produzione: persone che si suicidano. Lavoratori disoccupati, piccoli imprenditori senza “mercato”, pensionati logorati dalla povertà, studenti senza presente né futuro, in modo autolesionistico, mettono fine alla dolente esistenza, afferrati dal letale vortice dell'ingiustizia sociale, in preda al depauperamento materiale e relazionale. Si precipita nella condizione d'anomia nella società occidentale ove l'opulenza dei pochi è a discapito dei molti sfruttati, resi indigenti ed isolati nella vicenda tragica che piace definire “privato” e che, in realtà, rappresenta l'altra faccia della coatta socialità capitalistico-borghese. Quando anche oggi si compie il previsto rito autodistruttivo, impattando con i custodi in divisa del potere costituito, lambendolo, la ristrutturazione capitalistica arma la mano individuale del designato kamikaze, dando modo alla sovrastruttura politico-istituzionale di riprendere forza organizzativa nel rideterminare forme di dominio a difesa. Il dominio assume le sembianze del “nuovo Governo” pronto a recepire gli ordini provenienti da istanza superiore. Infatti, negli stessi istanti dei colpi di pistola esplosi ad altezza d'uomo per andare oltre, per colpire altri, i “politici”, e saldare il conto immolandosi, l'attore salito alla ribalta d'una narrazione cronachistica distorcente, è sovrastato dal diktat del gran regista dello spettacolo, il potente coacervo di imprese e finanza multinazionali che detta il copione agli Stati nazionali: migliorare il PIL e la “crescita” della produzione e del consumo garantendo la sostenibilità del debito pubblico. Come se nulla fosse accaduto nel secolo intercorso dal 1929.

martedì 2 aprile 2013

Per una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza parlamento

Il concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος (démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di “democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche) possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di uno Stato sedicente democratico. Il concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene – l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre, approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia” contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere – specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti. Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della “volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi, essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato. Nei paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo delle istituzioni statuali moderneche la “democrazia” contiene, è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento, quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale, dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della “democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione” (scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi, come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di schiavi. L'deale democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia “progressista” borghese e, nella sua apparizione negli ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento, unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e dell'eserzio del poetere, forzosamente traslando dalla “partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica dell'industrializzazione maturapropone, di fronte alle minacce rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il costituzionalismo borgehse gioca la carta della retorica democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di rappresentanza istitutzionale. È ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia" in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire "libere", "eguali", "democratiche", "universali" le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.» (brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23 dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919). Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia (l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque “soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e continua a procurare al proletariato. È nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza europea del “movimento dei Consigli”, identificabile sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della costruzione della base materiale del comunismo consentendo un corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato” è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi sistemiche della sconfitta storica del capitalismo. Per Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo. 2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti di "democrazia in generale" e di "dittatura in generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta. Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi, come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la "dittatura in generale", ma la dittatura della classe oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto, quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla "democrazia in generale", quando oggi si grida e si strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria» (brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol. 28, pagg. 461-462). Aprile 2013