venerdì 20 gennaio 2012

Fermenti vivi per un epoca nuova

Sono circa trent'anni che la dittatura politico-culturale del capitale multinazionale ("viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro", K. Marx, "Il capitale", I, sez. VII, cap. 24) governa l'economia-mondo e le moltitudini in rivolta apprezzano sulla propria pelle quel fumus democratico avvolgente ogni tentativo di cambiamento radicale ed ogni dialettica rivendicativa instauratile con i poteri costituiti. S'attende ancora che la “sollevazione” generi un'altra organizzazione sociale, nuove istituzionalità popolari, nuove forme relazionali di vita e che comprenda un semplice assunto: la preistoria del capitale, la premessa, la condizione di possibilità dell’accumulazione capitalistica, cioè l’accumulazione originaria, è la separazione del produttore dai mezzi di produzione. L’accumulazione del capitale presuppone infatti il plusvalore, che a sua volta esige l’esistenza della produzione capitalistica, le cui ineliminabili premesse sono la presenza, da un lato di ingenti masse di capitali, e dall’altro di considerevoli quantità di forza lavoro a disposizione dei produttori di merci. Questo è il processo di produzione capitalistico che si presenta, descritto alla fine del libro I del Capitale di Marx, come un meccanismo che si autoriproduce, capace di autoalimentarsi all'infinito. Vale la pena qui ricordare che l’accumulazione originaria negli U.S.A. s'affermò anche con la prima generazione capitalistica dei “robber baron” letteralmente “grandi rapinatori”; questa storia ha origine a partire dagli anni ’30 dell’Ottocento, nella creazione delle prime banche di investimenti, cioè le prime Banche d’affari private che potevano utilizzare il proprio capitale per le operazioni finanziarie senza alcuna autorizzazione statale; il principio su cui tali banche si svilupparono rapidamente e crebbero fino ai giorni nostri è in fondo semplice oltre che banale, vecchio come il mondo: la truffa. In pratica si vendevano titoli senza la copertura finanziaria dell’acquisto, si vendevano titoli non acquistati. Tutta la storia economica americana è fatta di queste truffe che dettero comunque grande impulso alla nascente economia, con grandi risorse finanziarie messe a disposizioni per nuovi investimenti da cui ebbero origine le attuali Banche d’affari che determinano le sorti economiche del mondo. Inoltre, non dimentichiamo che il termine democrazia deriva dal greco δῆμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere. Non c'è “sollevazione” antagonistico-sociale che annunci un'epoca nuova senza che si apra la prospettiva di un “potere altro” rispetto al dominio globale del capitale multinazionale. "… Al tempo stesso, proprio la grande sconfitta è per i partiti rivoluzionari e per la classe rivoluzionaria una lezione effettiva e molto utile, una lezione di dialettica storica, una lezione che fa loro capire ed apprendere l’arte di condurre la lotta politica”. Ad oltre tre decenni dal dilagare del “liberismo”, dalla deregulation delle democrazie occidentali e dallo smantellamento del Welfare residuale, si dà non più solo come necessario ma anche possibile un bilancio autocritico dell'esperienza dell'insubordinazione sociale, anche alla luce delle contraddizioni insite nelle stesse lotte di liberazione dei popoli nordafricani e del variegato “movimento NO debito” occidentale, al fine di rilanciare una teoria-prassi rivoluzionaria che, nel vivo dello scontro, matura grazie anche alla consapevolezza degli errori commessi. Una spietata riflessione su questi errori è richiesta non solo dalla portata della sconfitta ma dalla consapevolezza che una seconda prova d’appello è preclusa, perché non sarebbe altro che la riproposizione farsesca di quelle esperienze che non sanno alludere alla questione del “potere”. Per questo, nel definire i termini dell’autocritica, vanno evitati due errori: 1) riproporre sotto altre forme la sostanza di un impianto già verificatosi fallimentare; 2) ricercare un impianto corretto sotto forma di esercizio di purismo teorico astratto, non vincolato all’adeguatezza di una verifica storica. In questo senso, stanare gli errori e i vizi di ragionamenti antidialettici, antimaterialisti, quindi idealisti, va perseguito col massimo rigore a partire dai principi del marxismo leninismo e dall’esperienza storica teorico-pratica fin qui acquisita dal marxismo applicato alla rivoluzione dei rapporti sociali.
Le forze dirompenti dell'antagonismo sociale rinascono in Italia dopo 30 anni di relativa pace sociale caratterizzati dal ciclo espansivo del capitale dopo il secondo conflitto mondiale e dalla gestione legalista dell’antagonismo proletario da parte delle organizzazioni politico-sindacali “collaborazioniste”, tesa a perpetuare una condizione di conciliabilità tra interessi di classe che permettesse la legittimazione democraticista del “conflitto” e, conseguentemente, della stessa collocazione quali forze politiche “democratiche” - espressione “neutra” del mondo del lavoro - progressivamente inseribili nell’arco delle forze di governo. Al di là di pure enunciazioni propagandistiche, la “via nazionale al socialismo” costituisce l’elaborazione teorica del tentativo storico del revisionismo di smantellare una volta per tutte ogni “velleità” di trasformazione rivoluzionaria della società. La rivoluzione proletaria per i partiti revisionisti che avevano rotto col marxismo rivoluzionario e portato a degenerazione reazionaria le contraddizioni della politica dei “due tempi” della Terza Internazionale, non solo non era più possibile, ma neanche necessaria. Le “acute” riflessioni di Berlinguer all’indomani del colpo di stato in Cile e l’accelerazione della politica di alleanza con la DC, sono degne figlie della rottura operata dal PCI sotto la guida di Togliatti, in cui inizia un processo di sostanziale sproletarizzazione di questo partito che costituisce la base materiale di tutta la successiva maturazione e collocazione in termini filoccidentali e socialdemocratici anche di tutte le successive diaspore e riorganizzazioni legalitario-parlamentari sotto le effigi del “comunismo” variamente declinato e rappresentato. Alla fine degli anni ’60 si vive una situazione politico-sociale di grande trasformazione, una composizione di classe drasticamente mutata, un relativo benessere materiale, una inusitata mobilità socio-culturale ed una ristrutturazione effettiva della tradizionale stratificazione di classe. S'assiste, nel contempo, al coagularsi di diverse contraddizioni: uno scenario internazionale violentemente scosso da conflitti locali che assumevano il carattere di liberazione nazionale antimperialista; il consolidamento della dittatura del proletariato in Cina che assumeva, con l'avvio della “rivoluzione culturale”, una sua peculiare, storicamente inedita, manifestazione; la ricerca conflittuale di un nuovo equilibrio nella spartizione del mondo tra i due blocchi imperialisti principali e l'entrata in crisi della “coesistenza pacifica”; termine ed involuzione dell’ondata espansiva del ciclo capitalistico; il congiungersi di un’ondata di antagonismo operaio e proletario nelle metropoli occidentali con i preesistenti conflitti che caratterizzavano il difficile rapporto centro imperialista – periferia. Nei paesi capitalisti un “modello di sviluppo” evidenzia la correlata, fisiologica “tendenza naturale” ad entrare in “crisi” aprendosi ad una congiuntura favorevole alla lotta di classe alle cui caratteristiche anticapitalistiche si aggiunge un profondo “sentimento” antistatunitense, suscitato soprattutto dall’eroica guerra di liberazione del Vietnam. Nella metropoli italiana, l’estensione, la maturità, la durata e il carattere fortemente proletario espressi in quel ciclo di lotte, costituiscono la condizione per il costituirsi di un movimento autenticamente rivoluzionario. La sostanza politica della mobilitazione del fronte proletario in quegli anni, affermava la profonda consapevolezza della critica al modo di produzione capitalistico e al revisionismo, dando prova concreta di una riaffermata capacità di espressione di autentica autonomia di classe. Tra le avanguardie più coscienti, il dibattito verte intorno alla questione dell’organizzazione rivoluzionaria e di una teoria-prassi della rivoluzione proletaria nei paesi imperialisti. L’antiparlamentarismo ne costituisce il comune denominatore; il marxismo leninismo rivoluzionario la discriminante di fondo. In questa situazione le esperienze dell'antagonismo sociale muovono a configurare oggettivamente prassi organizzate in grado di compiere (emancipandosi definitivamente dal velleitarismo soggettivistico e dall'ambiguità pacifismo “equidistante”) l’effettiva rottura storica del quadro politico strutturale, mettendo in pratica la sostanza dell’alternativa proletaria rivoluzionaria al sistema politico borghese dei partiti sul piano del marxismo leninismo, pur negli evidenti limiti di un’esperienza originale. La proposta non può che essere di natura strategica - la lotta per il comunismo - come unica condizione per fare politica rivoluzionaria in quest’epoca storica e dare prospettiva e sbocco alla lotta delle masse. Le organizzazioni che si muovono su questo terreno propongono quindi uno sviluppo del processo rivoluzionario proletario, necessariamente originale, dato che ritengono possibile e necessario, in una situazione non rivoluzionaria, dare inizio a un processo di “guerra di lunga durata” caratterizzata dal conflitto sociale in tutte le forme che l'ostilità classista nelle metropoli del capitale richiede. Non solo avviene la rottura con la concezione insurrezionale terzointernazionalista, ma è posto all'ordine del giorno l'impossibilità in ogni caso della riproposizione di un lavoro di accumulo di coscienza e di organizzazione rivoluzionaria prima, per impiegarla poi anche in termini dirompenti in un ristretto arco di tempo. L'organizzazione del conflitto sociale per la conquista del potere viene concepita come una strategia rivoluzionaria perché la sola che mette in grado di muoversi sul terreno rivoluzionario, di potere, sfruttando le contraddizioni che apre nei confronti dello Stato, costringendolo a liberarsi di ogni velo di neutralità e a materializzare la sua natura di classe; a rompere il gioco paralizzante (per il proletariato) dell’altalena repressione-riforme, funzionale al rafforzamento del potere della borghesia.
L’agire politico antagonistico-sociale organizzato dei comunisti apre la fase rivoluzionaria a partire da una progettualità rivolta, inizialmente, alle avanguardie in stretta dialettica con i contenuti di potere espressi dalle lotte oggettivamente e dai settori più avanzati della classe anche soggettivamente, per rappresentarne gli interessi generali e dare prospettiva concreta all’interesse storico di alternativa rivoluzionaria di potere. In questo senso, è applicato uno dei presupposti fondamentali del marxismo rivoluzionario, consapevoli che “il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate ma al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione potente, serrata, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.
Il problema centrale per dei marxisti non è dunque la propaganda del carattere borghese e di classe dello Stato, bensì l’attrezzarsi teoricamente-organizzativamente e strategicamente a dirigere lo scontro col nemico di classe, in condizioni favorevoli affinché questo scontro possa essere iniziato e sostenuto. Ossia che si dia un livello tale della lotta di classe che generi avanguardie comuniste rivoluzionarie organizzate che si rendano disponibili ad agire come rivoluzionari di professione, come reparti d’avanguardia del proletariato. Per quanto ci è dato constatare dalla stessa esperienza dei decenni trascorsi, l’estensione e il radicamento della lotta antagonistico-sociale per il comunismo sono dati dal livello di coscienza complessiva espressa dal proletariato metropolitano che rende possibile e sostiene una forza organizzata rivoluzionaria, che si contrappone in modo riconoscibile allo Stato. Questo, sia in presenza che in assenza di forti movimenti di massa, perché una strategia rivoluzionaria trova legittimità, non come prolungamento naturale della lotta spontanea, ma come risoluzione teorico-pratica della questione del potere, come sedimentazione organizzativa del livello di coscienza di classe che punta alla trasformazione rivoluzionaria dello stato di cose presenti. Ovvio è che questo processo richiede uno svolgimento secondo tappe precise, che determinano i compiti congiunturali dei comunisti nel perseguimento del primo obiettivo del processo rivoluzionario: la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato. In questo senso il grado d’incidenza dell’agire dell'organizzazione nella dinamica dello scontro di classe vive dentro condizioni oggettive e soggettive molto precise da cui è impossibile sfuggire, pena il cadere nel pantano del soggettivismo e quindi nella sconfitta.
È necessario chiarire che l'impostazione politica adottata non concepisce la lotta antagonistico-sociale come mero “uso delle armi” in termini propagandistici come strumento politico dell’educazione delle masse circa la necessità della rivoluzione violenta, come strumento più efficace di alcuni perché è impossibile che lo si ignori, sia da parte dello Stato che da parte del proletariato. E questo perché se si pensa ad uno scontro cruento ristretto nel tempo in condizioni eccezionali, non ha nessuna legittimità e senso politico iniziare a combattere quando queste condizioni non ci sono. Sia chiaro che qui non si sta parlando dello scontro, ma della strategia politica che può permettere di conquistare rapporti di forza generali favorevoli, tali da mettere il proletariato rivoluzionario in posizione dominante rispetto alla borghesia e allo Stato. L’offensiva finale, presumibilmente, è necessariamente ristretta nel tempo, perché questa può essere sferrata solo in condizioni di particolare debolezza e di crisi economica, politica e militare dello Stato molto acuta, nonché di una congiuntura internazionale favorevole. E tutto questo non si presenta certo tutti i giorni. Ma se la lotta antagonistico-sociale organizzata acquista valore di strumento propagandistico o dobbiamo dire che essa deve essere praticata esclusivamente a “legittima difesa” in particolarissime condizioni o bisogna pensare possibile attaccare lo Stato, facendo finta di non attaccarlo, evitando “furbescamente” ogni rispetto delle leggi che una guerra ha, per quanto “particolare” essa sia. Perché se si ritiene che la conquista del potere politico possa avvenire in una versione, se pur aggiornata, dell’insurrezione, non si tiene conto di condizioni mutate che la rendono oggi improponibile. E questo per una serie di motivi: a) Il sistema democratico borghese giunto a livello maturo di consolidamento (forma istituzionale adeguata alla estensione e penetrazione raggiunta dal modo di produzione capitalistico a livello sociale e mondiale) è in grado di assorbire le spinte più antagoniste della lotta di classe in un ambito complesso e sofisticato di mediazioni politiche-economiche e militari da cui risulta la capacità della classe al potere di “istituzionalizzare” il conflitto di classe, pur tra lacerazioni e sussulti di un equilibrio sempre precario. b) La controrivoluzione preventiva come politica costante, come dato strutturale tesa a impedire ogni convergenza tra interessi proletari e progetto rivoluzionario. Questa non è materializzabile semplicemente nell’agire della magistratura o nella repressione poliziesca, ma è capacità da parte dello Stato di dosare mediazione e annientamento, distruggendo sul nascere, in forma politica-ideologica-militare, la legittimità stessa della rivoluzione proletaria. c) L’integrazione a tutti i livelli, pur nelle reciproche autonomie e interessi che la rendono sempre contraddittoria e sempre alla ricerca di nuovi equilibri, della catena imperialista in cui il nostro paese è collocato ed il carattere stesso dell’imperialismo che considera vitale per la sua sopravvivenza ogni angolo del mondo. Questa integrazione, per le caratteristiche strutturali dello stadio raggiunto dal capitale monopolistico multinazionale, fa sì che ogni Stato-membro ne interiorizza gli interessi comuni, o meglio colloca i suoi all’interno del rafforzamento di tutta la catena; e non ultimi sono quelli della difesa comune contro il proletariato e contro i popoli dei paesi dipendenti.
Queste caratteristiche fanno sì che il problema principale non sia tanto quello di propagandare nelle masse il carattere classista della società ed educarle alla necessità della rivoluzione violenta quanto quello di dimostrare la validità e la praticabilità di un progetto rivoluzionario che punta ad una alternativa di potere, mettendo al centro gli interessi del proletariato metropolitano e di quello internazionale. E questo principalmente perché, nonostante l’uso della mediazione politica, del relativo benessere, e della democraticità delle libertà costituzionali, i contrattacchi dello Stato sono comunque indirizzati all’annientamento di ogni tentativo proletario di trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario per il potere. Pensare che queste condizioni si possano creare di un colpo, senza uno scontro prolungato nel tempo con lo Stato, contraddistinto da una dinamica “a salti” rispetto al mutare delle condizioni soggettive ed oggettive, significa credere possibile che la borghesia possa convivere con una pratica d’avanguardia sul terreno della politica d’avanguardia che incida sempre più profondamente nella dinamica dello scontro tra le classi, senza che le lacerazioni prodotte da questo stato di cose non la costringa ad attaccare direttamente tutte quelle lotte e quegli organismi organizzati della classe che, volenti o nolenti, coscienti o meno, per essere autenticamente fondati sugli interessi proletari, trovano nella politica rivoluzionaria dei comunisti la sola ed unica direzione e prospettiva. E allora se la lotta antagonistico-sociale dei comunisti non assume la funzione di strategia politica per il processo rivoluzionario del proletariato, le lotte e le mobilitazioni spontanee non possono che arretrare e subire l’inevitabile contrattacco nemico, private della direzione e degli obiettivi necessari. Questo, la classe l’ha già sperimentato tutte le volte che ha conosciuto la faccia vera della dittatura democratica della borghesia, sotto forma di carcere, bombe terroristiche di Stato, repressione violenta di manifestazioni di piazza, licenziamenti politici di massa, smantellamento di intere strutture organizzate “d’opposizione”. Tutte queste cose sono servite a sancire nella pratica le regole del gioco per cui gli interessi dello Stato democratico e le conquiste e i “valori” della civiltà occidentale sono la base di un patto sociale che non può essere messo in discussione e con esso nemmeno la legittimità del potere della borghesia. E questo non è stato determinato da una sorta di imposizione ideologica dello Stato e dei revisionisti che hanno reso il proletariato indisponibile alla comprensione e alla accettazione di un livello di scontro “che vada fino in fondo”, per cui basta propagandare la necessità per liberare forze proletarie dal contenimento coatto che ne fanno la borghesia e il revisionismo. Occorre dimostrare che, nell’aggravarsi della crisi economica e politica della borghesia, esiste un’alternativa rivoluzionaria e proletaria alla crisi dell’imperialismo che può trasformare i progetti antiproletari e guerrafondai del nemico di classe in processi rivoluzionari per la distruzione dello Stato e la conquista del potere politico. Lo stato di pacificazione che la borghesia s’è assicurata nei paesi più forti della catena è la dimostrazione più chiara di come la risoluzione delle ondate antagoniste e cicli di lotte, anche violenti, sul terreno economico sia possibile dentro un quadro di compatibilità con le esigenze capitalistiche e gli interessi borghesi. E questo nonostante fatti concreti che dimostrano quale futuro l’imperialismo offra al proletariato internazionale: una nuova guerra mondiale. In questo quadro la lotta autenticamente orientata far generare il comunismo non è lo strumento propagandistico per poi poterla fare, non è l’ultima forma di lotta propria della fase conclusiva dello scontro, ma la strategia che guida dall’inizio alla fine lo scontro necessariamente prolungato con l’apparato statale borghese. Tale tipologia di lotta si colloca all’interno dell’esperienza del proletariato internazionale e soprattutto del marxismo rivoluzionario che, coll’evolvere delle forme di dominio dello Stato e dell’imperialismo ha trovato e trova all’interno dello scontro di classe le ipotesi rivoluzionarie più adeguate per il raggiungimento dei propri obiettivi. Fermenti vivi per un'epoca nuova.

[Per consultazione: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_24.htm]