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martedì 9 luglio 2019

Articolo censurato - «Da dentro il marxismo – Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo»

Esaminato, da parte dello staff redazionale di una rivista on line con la quale ho collaborato e che “si pone come obiettivo primario la promozione, il sostegno, l’organizzazione e la gestione di iniziative, eventi e manifestazioni culturali e sociali nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto a pari opportunità senza distinzioni di razza, sesso, cultura, religione e salvaguardando l’ambiente” e ritiene di “esserci anche quando il pubblico è una minoranza”, l'articolo che pubblico è stato censurato.

Agendo come una sorta d'ibrida “autorità pubblica” (sul versante della censura politica) e come una “autorità ecclesiastica” (sul versante della censura ideologica), lo scritto non ha trovato spazio nel palinsesto, precludendo il prosieguo della collaborazione, poiché ritenuto eversivo. In questa sede, non intendo replicare; mi limito, per ora, a presentare il testo, al quale ho dato un titolo, minimamente modificato in alcuni passaggi per rendere la lettura più chiara ed arricchito da alcune utili citazioni, ovviamente, senza alterarne i significati teorico-politici, lasciando ad altri il "lavoro sporco" dei sofismi propri dei benpensanti che del capitalismo e dei suoi involucri politici sanno parlarne, ma non osano immaginare come poterlo adeguatamente "criticare" e superare. Sarò grato per ogni eventuale parere. G D

Da dentro il marxismo - Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo

Premesso che l'alleanza sovranista è un ossimoro – non si può dare una solidarietà politica internazionale tra competitor statuali pur in una evidente configurazione globale (empiricamente, non si possono negare affinità “operative” tra Putin, Trump, Erdogan, Orban, Xi Jinping e, via degradando, Bolsonaro e Salvini) e, nel contempo, interpretare in modo esaltato i programmi dei diversi interessi nazionali che rappresentano -, non si può, tuttavia, misconoscere che l'onda nera liberista post-novecentesca, caratterizzata dal sistema post-fordista multinazionale di produzione (organizzato nella forma della serializzazione digitale) e da un'economia biopolitica in grado di manipolare tutte le dimensioni d'espressione dei rapporti sociali (rif. M. Hardt, A. Negri, “Impero – Il nuovo ordine mondiale”, BUR, 2003, con particolare riguardo al Capitolo VI, “La sovranità imperiale”, pagine 175-193), procede indisturbata nel suo consolidamento del potere mondiale e nella sistematica depauperizzazione umana delle classi subalterne.
La “democrazia reale”, svigorita e irreversibilmente logorata, cede la guida della storia a figure marginali, ritenute a torto estinte, altrimenti concrete ed efficaci che scandiscono il passo dell'oca intorno al capezzale del cigno democratico (rif. al balletto di M. Fokine su una composizione di C. Saint-Saens, 1901-1905), agli autoritarismi post-fascisti in grado di vincere gli antichi nemici valorizzando la povertà materialistica e post-materialistica e la massa critica dell'ignoranza, ingredienti indispensabili per le forme legali ed elettorali quanto per le forme illiberali politico-militari d'affermazione e di conquista del potere istituzionale e/o governativo. Il mix delle “forme”, non del tutto storicamente originale, è sotto gli occhi dei popoli assuefatti ad esse e quindi docilmente inclini al “consenso” elettorale ed inesorabilmente piegati alla complicità mistificatoria e violenta: unica alternativa, sul terreno democraticista, si configura l'estraneità e/o ostilità verso il sistema dei partiti. Niente di più.
Considerando la “storia”, frutto di un “disegno razionale”, gli uomini, dopo millenni di adattamento alle forme di vita del capitalismo (ancor prima dell'affermarsi del sistema di produzione industriale del XVIII secolo, prodromi sono le attività dei centri finanziari del Medioevo e del Rinascimento europeo, che lo portarono all’emergere come sistema dominante a partire dal XVI secolo) sono diventati, per dirla con le parole di Umberto Galimberti (rif. a “Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica”, Feltrinelli, 1999; “Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007), funzionari di apparati tecnici o burocratici, i cui valori sono la funzionalità e l'efficienza con cui si devono compiere le azioni descritte e prescritte dall'apparato di appartenenza nella tempistica prevista, in altri termini, dal sistema di produzione e riproduzione della vita.
Un compito immenso, né regionale né continentale, bensì planetario, considerate le vicende storiche alle spalle, irto di difficoltà, di pericoli, di ostacoli e di incognite, eppure portato al successo, quasi senza colpo ferire. Alla “democrazia reale” il sacrifico umano resistenziale ed emancipatorio ha consegnato un'occasione unica, per plasmare la “storia” e servire le popolazioni, che è stata data a poche generazioni di uomini, dopo un itinerario di millenni, eppure ha fallito.
Lo scarno realismo dell'argomentazione porta a concludere che ciascuna generazione ha il suo problema particolare, concludere una guerra, estirpare le discriminazioni, migliorare progressivamente ed irreversibilmente le condizioni di vita, consolidare la dignità umana, esigendo limiti “dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive” pretese senza innescare cambiamenti radicali, considerate oggettive, liberarsi dalle forme di vita dominanti similmente gestite come se fossero ipermercati.
Esigere un sistema politico che conservi il senso della comunità tra gli uomini è oggi fuori dalla portata dal discorso democratico pronunciato dopo i due massacri bellici, fisici e culturali, del Novecento, subito smentito in latitudini non europee. Quel discorso non ha più pregnanza, è un anacronistico, inutile lamento profetico per la generazione attuale che non sa più ascoltare. Lo storytelling della democrazia, non incanta più. La retorica democraticista e la narratologia che ne scaturisce appaiono come obsolescenza dell'organizzazione civile ed istituzionale dei popoli.
Chi ha costruito la caducità della democrazia in Occidente – un albero con radici ammalate - venuta a patti con il capitalismo indefessamente selvaggio, praticato nonostante la legislazione sociale, i diritti civili ed il benessere dinamicizzato (e, proprio per la sua natura negoziabile, cristallizzato in sostanziali diseguaglianze) dalle effimere conquiste salariali, rinculando rispetto all'apertura necessaria di prospettive altre che la storia ha fatto germogliare dal 1917 al 1924 senza repliche universalmente significative, si è assunto la responsabilità di cedere il passo, di deflettere, di cancellare memorie.
È necessario essere capaci di uno sguardo in grado di catturare la vulnerabilità dell'animo umano, in balia di sovrastrutture alienanti, piuttosto che stringerci a coorte, pronti alla morte, è inevitabile considerare l'esperienza democratica un fatto politico “minimo”, “procedurale” (rif. a Norberto Bobbio, “Il Futuro della Democrazia”, Einaudi, 2005 p.4, il quale ammette che “l’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole, primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure”).
Pertanto, si tratta d'assumere (potremmo dire: costruire), abbracciare totalmente il marxismo, potremmo dire da dentro il marxismo, un'autentica prospettiva totalizzante d'adesione sincera ed incondizionata all'obiettivo del comunismo contro un mondo le cui rivoluzioni industriali ed il saggio di profitto hanno fatto intenzionalmente smarrire per sempre la sua essenza umanistica.
Per comprendere la realtà contemporanea ci si deve dotare di un metodo conoscitivo, certo, ma soprattutto di un'articolazione di pensiero risolutivo della crisi di civiltà maturata agli inizi del XXI secolo, di una prassi che sa svincolarsi dai rivoli di sofismi che impediscono ai comportamenti di avere la meglio sulla declamazione di principi morali.

giovedì 23 giugno 2011

La storia . . . di chi “non ha tempo per gli altri”

Vi racconto la storia . . . di chi “non ha tempo per gli altri”.
Il modo d'essere d'una persona rispetto ad un'altra caratterizza le relazioni, interpersonali e/o sociali. Il “mio” modo d'essere ed il “tuo” creano legami, rapporti tra due menti e due corpi. Ci si avventura nella reciproca cognizione che non è affatto solo concettuale. Tutt'altro. Si tratta d'una sorta di permanente riferimento reciproco, un evento sociale che, nella sua espressione più elevata, genera “vita”. Il “modo d'essere” concorre a causare, dunque, legami, vincoli affettivi, amicali, conflittualità, ma anche relazioni economico-sociali, politico-culturali … Anche, più specificamente, legami – per così dire – d'affari, quintessenza della coatta socialità capitalistico-borghese. L'insieme dei rapporti sociali, dei rapporti che instauriamo con altre persone, è contaminato da questa “forma” fondativa – strutturale - dei “modi d'essere” individuali e collettivi nell'attuale formazione capitalistico-globale. Le “pubbliche relazioni” agiscono come una matrice di tutte le altre “forme” di convivenza, inglobate, risucchiate nel contesto di attività tendenti a creare una buona opinione intorno ad una persona, un'istituzione, un'impresa, un'opera di ingegno . . . Tendenzialmente, la commistione che risulta tra diverse modalità relazionali, fa si che le persone coinvolte siano – in ultima istanza – considerate alla stessa stregua di soggetti economici in competizione, accomunati da transazioni economiche profittevoli. In sostanza, il “modo d'essere” si trasforma in un “modo d'avere”, merce o carne umana poco importa. L' "altro", in questa dinamica estraniante, diviene utile o meno, piuttosto che interessante o indifferente … Pur lavorando, pur gestendo l'esistenza nelle sue responsabilità più impegnative (penso alla paternità o maternità), pur partecipando alle lotte sociali, pur rivendicando insieme ad altri il rispetto dei diritti, a me capita di avere del tempo per gli altri, perché intenzionalmente faccio spazio nella mia vita quotidiana agli altri. Il mio ombelico può attendere, come il mio conto in banca.
Mi capita – ciò mi dona gioia – di aprire gli occhi solo quando “guardo” gli altri che mi chiedono “tempo”. Avere tempo per gli altri è essere autenticamente liberi dagli impacci del business. Non avere “tempo” per gli altri, viceversa, denuncia con clamore l'essere remissivi, sottomessi addirittura alla logica del potere che esalta il self made man (o woman), per negare la socialità non avvezza a genuflettersi alla suprema omologante volontà di lucro.
La morale della storia risiede in ciò: non c'è alcun tormento in chi anela al benessere comunitario, alla giustizia sociale che non sono davvero tali se trattasi di benessere solo “mio”, di giustizia "al singolare". Non propugno un neo-francescanesimo che andrebbe perseguito, bensì una reale promozione civile ed un saldo contrasto alle drammaticamente anacronistiche derive di costume di quei tanti, troppi che “non hanno tempo per gli altri”.
Questo mutamento nell'approccio sociale, questa indistinzione tra le originariamente variegate relazioni umane, determinano una diuturna strumentalizzazione, uno sfruttamento continuo, vera e proprio tentativo d'alienazione degli “altri”, distinti e distanti come esseri umani, ma presi in considerazione unicamente come meri “interessi”.
Il linguaggio che usiamo svela l'arcano, quando arriviamo – spesso fagocitati dal “sistema” vigente, in altre circostanze, consapevolmente – ad affermare all'altro “non ho tempo per te”. Non avere tempo è una menzogna e, trincerandosi dietro di essa, si palesa la propria identità. Non avere tempo per gli altri, vuol dire ammettere che si ha “interesse” solo agli affari, al denaro, sancisce il trionfo dell'egolatria materialistica. Non puoi non avere tempo per gli altri senza contestualmente dimostrare l'infimo spessore etico che ti riguarda, l'azzeramento dell'umano in te. “Non ho tempo” per te, dichiarazione inequivocabile di presunto “possesso” personale del tempo rilascita da propagandisti del tempo “proprietario”, “privato”, “solo mio”, come la “roba” che mi circonda, che acquisto, come il lavoro che svolgo eseguendo compiti, come la casa che abito chiudendo la porta blindata, come l'arte che produco e che vendo. “Non ho proprio tempo” è l'epifania di quella “liquidità” della quale qualcuno ha scritto.