sabato 31 dicembre 2011

"Eternità", via di fuga dalla giustizia terrena ...

Don Luigi Maria Verze, fondatore del San Raffaele, è deceduto questa mattina, 31 dicembre, alle ore 7,30 circa presso l'Unita Coronarica dell'Ospedale. Don Luigi era stato ricoverato durante la notte alle ore 2.30 per l'aggravarsi della sua situazione cardiaca. Lo precisa una nota del S.Raffaele. Dal San Raffaele fanno sapere che don Verzè, 91 anni, era tenuto sempre sotto stretto controllo dopo l'operazione al cuore subita l'anno scorso, ma probabilmente anche a causa della tensione dell'ultimo periodo causata dalle indagini per bancarotta le sue condizioni sono peggiorate negli ultimi giorni. Verzé era finito in bancarotta con debiti da un miliardo e mezzo di euro.proprio oggi si dovevano aprire le buste dell'asta per l'acquisto della struttura ospedaliera fondata nel 1958. La scomparsa di Don Luigi Verzè cade come un macigno sull'inchiesta in corso alla procura di Milano per il crac da 1,5 miliardi dell'ospedale San Raffaele e segue di qualche mese il suicidio del secondo grande protagonista della vicenda, il vicepresidente con le deleghe operative Mario Cal. Il procedimento giudiziario però, che conta una decina di indagati, non dovrebbe subire rallentamenti. Queste le tappe dell'inchiesta.
Giovane violinista talentuosa di r_montalcini - 30 giugno: la Procura di Milano accende un 'farò sulla crisi del San Raffaele. Non ancora una vera e propria indagine ma il Pm Luigi Orsi avvia un 'protocollo civile' sulla ristrutturazione del debito dell'ospedale.
- 18 luglio: Si suicida Mario Cal, storico braccio destro di don Verzè nella gestione del San Raffaele, qualche giorno prima era stato sentito come teste dal pm Orsi.
- 19 luglio: Al vaglio della procura l'ipotesi di avanzare un'istanza di fallimento.
- 21 luglio: Il nuovo Cda del San Raffaele, appena insediatosi, chiede alla procura tre mesi per presentare un concordato preventivo. Il Pm da come 'ultimatum' la scadenza del 15 settembre.
- 22 luglio: Il fascicolo d'inchiesta sul suicidio di Cal passa ai Pm Luigi Orsi e Laura Pedio. Gli stessi che hanno acceso 'il farò sulla crisi finanziaria dell'ospedale.
- 20 settembre: La procura di Milano «prende atto» delle richieste dei rappresentantri del Cda che hanno promesso di presentare la richiesta di concordato preventivo il 10 ottobre.
- 29 settembre: Il Pm avanza la richiesta di fallimento per «arrestare ulteriori dissipazioni patrimoniali» e «perseguire - scrive il procuratore Edmondo Bruti Liberati - l'interesse pubblico nella sfera del quale rientra la posizione dei soggetti a vario titolo coinvolti in questo grave default, quali i creditori, i dipendenti, i collaboratori e gli stessi utenti del servizio sanitario gestito dalla fondazione». I Pm scrivono anche che dalle carte di Cal sono emersi «fatti di reato» e che vi sono degli indagati fra i quali, l'unico in quel momento certo, il direttore finanziario Mario Valsecchi per il quale si ipotizza il falso in bilancio e false scritture.
- 30 settembre: È ufficiale: i Pm Orsi e Pedio hanno avviato l'indagine per bancarotta, ostacolo agli organi di vigilanza e fatture false.
- 12 ottobre: Inizia l'udienza davanti al giudice fallimentare
- 28 ottobre: Il Tribunale fallimentare dichiara «ammissibile» il concordato preventivo presentato dai legali. I creditori vengono convocati per il 23 gennaio 2012.
- 16 novembre: parallelamente alla causa civile va avanti l'inchiesta penale e i Pm dispongono una ventina di perquisizioni; una decina gli indagati fra i quali Don Verzè, Valsecchi, Gianluca Zammarchi e Andrea Bezzicheri, esponenti della società 'Metodo srl'. Arrestato per concorso in bancarotta il 'faccendierè Piero Daccò.
- 17 novembre: Daccò è accusato di aver 'distrattò dalla Fondazione circa 3,3 milioni di euro.
- 18 novembre: nuovi particolari sull'inchiesta: Stefania Galli, segretaria di Cal parla di buste con denaro che passavano dall'ufficio del vicepresidente dal 2005.
- 19 novembre: Il Gip Vincenzo Tuchinelli convalida il fermo di Daccò.
- 13 dicembre: Viene arrestato l'ex direttore amministrativo Valsecchi. A lui e ad altre 9 persone viene contestata anche l'associazione a delinquere. Decisive sarebbero state le dichiarazioni di tre imprenditori, uno dei queli, Pierino Zammarchi, parla di sovraffatturazione di costi a carico dell'ospedale e retrocessione dei soldi al San Raffaele tramite buste di contanti e bonifici per 4 milioni. Fondi neri che sarebbero stati costituiti a partire dal 1983.
- 16 dicembre: Daccò interrogato dal Gip respinge le accuse.
- 31 dicembre: muore don Verzè. Nel Duemila, quando il cattolicesimo trionfava sull’orbe mediatico, negli uffici del Pontificio consiglio per la pastorale della salute tutti erano tristi. L’allora presidente, il messicano Lozano Barragán (diventato cardinale nel 2003), non faceva fatica a spiegare che nei laboratori scientifici del mondo la dottrina cattolica nel campo della bioetica era del tutto irrilevante. Anzi, il sospetto che facesse da corollario a quanto il buon presule aveva constatato nei numerosi viaggi presso le più grandi agenzie scientifiche, induceva a credere che non solo la teoria, ma ai ricercatori cattolici fosse precluso persino l’accesso nei laboratori dove la vita si scrutava e si manipolava. Per comprendere Don Verzè, forse bisogna partire da qui: egli è riuscito a creare un laboratorio diventato un punto di incontro fra ricercatori laici (comunque aperti ai riferimenti etici), e cattolici adulti, capaci cioè di porre seri interrogativi alla Chiesa e alla sua dottrina. Ma il San Raffaele non è solo un centro di ricerche biomediche e di risultati importanti. Dal 1972 è stato riconosciuto come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, divenendo quindi polo universitario a tutti gli effetti. Ed è l’unico luogo in Italia dove scienziati come Edoardo Boncinelli, Giulio Cossu, Luca Cavalli-Sforza, Roberta de Monticelli, Massimo Cacciari insegnano con colleghi cattolici senza temere le solite cacce alle streghe ciclicamente scatenate in altre istituzioni accademiche italiane, sia confessionali sia laiche .Eppure anche per i suoi non pochi nemici (specie nel mondo cattolico: memorabile, e di fuoco, la sua “querelle” contro la cattolica Rosy Bindi, allora ministro della Sanità, rea confessa di aver sbarrato l’espansione dell’opera di Don Verzè a Roma), il fondatore del San Raffaele di Milano ha sempre avuto grandi meriti. Il primo, quello di aver assunto “l’eccellenza” come ideale e dogma del suo agire: «Non voglio curare la gente nei lazzaretti», ha sempre affermato. Di conseguenza, è stato coraggioso ed illuminato nella scelta di collaboratori e medici, nell’aggiornamento dei macchinari e nelle opzioni di ricerca. Nel 2009, Maurizio Crippa e Nicoletta Tiliacos hanno pubblicato un’ampia inchiesta (3 puntate) sulla vita e le opere del prete-imprenditore veronese. Una delle loro annotazioni più interessanti, quella relativa alla «ricaduta» del modello sanraffaeliano sul sistema sanitario italiano. Contrariamente agli «imprenditori cattolici» che a Roma si sono arricchiti con le cliniche dismesse dalle suore e ricomprate (grazie ai “buoni uffici” delle solite tonache venali) per quattro soldi, Don Verzè è stato assai caparbio nell’evitare la trappola dell’equazione «cattolico» uguale «privato», cioè costoso e per pochi. Aprendo così una strada che «oggi è un dato acquisito in molte regioni italiane, a partire dalla formigoniana Lombardia che l’ha a sua volta desunta dal pensiero sociale dei discepoli di don Giussani, a loro volta debitori, sul fronte sanitario, di più di un’idea di don Verzé». Forse proprio per salvare la libertà di ricerca e di cura che il Vaticano (che ha un bilancio annuale inferiore agli incassi di Oprah Winfrey) sta scendendo in campo assumendosi un peso finanziario certamente superiore alle sue forze.

sabato 24 dicembre 2011

PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO


*(Bozza di manifesto del MPL) *Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due
fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza
di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a
causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto
e la superficie il mercato mondiale.
*Il gioco vale la candela?
La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune
ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può
accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di
investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea
disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se
non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate
“crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione.
Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono
la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di
lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere
devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta
di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono
l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri
interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è
il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è
quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti
congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema,
e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via
d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.
*Il boomerang
Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli
anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno,
l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del
“blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle
vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle
aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti
industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori,
lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per
sorreggere il consumismo di massa. All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale
degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per
soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili.
L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra
fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha
prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati,
dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della
competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree
economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali
hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è
rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola
si è trasformata in un terreno minato. *Il fallimento - *La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici. Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina *in primis*, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel
disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere
in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di
paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di
persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno
portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I
capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei
nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi
neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di
vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato
enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del
capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una
speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano
offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi
in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati
per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche
privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le
banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati
finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta
moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo
sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per
quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre
tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui
sgorga la ricchezza di una società.
*Mutamenti epocali
La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per
sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di
liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi
lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a
somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi
ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre
decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito
una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione;
scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona
parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo
stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che
si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il
sopravvento su quello industriale; e in esso il vero *dominus *è diventato
il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe
capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di
rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità
politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono
diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati
d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è
che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello
improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di
deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un
vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi
poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie
aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i
lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia
classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori
impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari
ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte
rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state
devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima
dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti
aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva,
refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.
*La crisi italiana
Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi
dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si
presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le
istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della
classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa
da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare
un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che
le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per
porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece
un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica
e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana
ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il
Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare
tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno. In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un
singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un
vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà
presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria
generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine
lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una
borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza
nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione.
Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze
contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo
sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste
forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare
radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere.
Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva.
Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale
possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare
di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di
conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una
resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito
nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta
le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo
centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e
politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria
responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose
esistenti.
*Fronte ampio e governo popolare**
Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il *MPL*, noi
ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e
che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le
classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il
paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che
sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare
di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali
necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.
*- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.
*L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali
dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività
fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati
comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è
aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita.
Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi,
presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si
sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più
povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri
in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse
dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non
hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che
la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una
leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene
distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità
monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria
globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre
ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo
pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al
benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta
finanza. *-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.
*Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio
ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i
risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del
capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle
banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi,
gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni
sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza
nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza,
invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il
bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di
rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e
borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come
l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.
*- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello estero
*Il debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come
la *Spada di Damocle* per tagliare le spese sociali, giustificare le misure
d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è
diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i
governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei
mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi
speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito
pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un
drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche
italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del
paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia
richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni
della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali
verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è
altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non
rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una
necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente
irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht
che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica
ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della
depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo
spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default
programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del
debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio.
Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane,
dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà *de facto* cancellato. Il
solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze
compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese,
sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.
*- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoro
*La natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la
ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini
un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che
esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica”
misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla
politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci
siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si
deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il
necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per
affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.
*- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.
*Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre
a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica
estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e
chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è
necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una
posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione
europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di
Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio
autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti
geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area
Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina,
l’Africa e l’Asia.
*- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità
popolare
*La cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami
della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale
proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la
trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso
corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di
banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese
e la politica ai *diktat* e agli interessi della finanza globale. La
Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita
ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi
democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.
*Sovranità nazionale e socialismo Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti
disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare
l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla
dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo
lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo
lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti
delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare
a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto
politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare
classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i
lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema
capace di portare l’Italia fuori dal marasma. E' da questo contesto che
discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di
Liberazione.
Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono
dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il
contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono
processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si
illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe
che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di
Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di
tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria.
Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà
questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo
finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici.
Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo
inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi
sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la
rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità
nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella
popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità
politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi,
sgangiandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali
per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa
dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di
Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una
recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di
produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare
un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare
grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a
crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere
collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai
conflitti sociali.
Il *MPL* scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per
uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo
un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla
dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla
dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la
distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle
nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista
che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti
i beni comuni. Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle
capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite.
Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e
il vecchio a perire.
L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la
liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione.

martedì 29 novembre 2011

MURALE di MILWAUKEE HARING a Chieti - Museo archeologico nazionale

«... le immagini create dall'uomo sono sempre state elementi importanti e necessari di questo rituale che noi chiamiamo vita ... L'immaginazione non può essere programmata da un computer. L'immaginazione è la nostra più grande speranza di sopravvivenza». Keith Haring, Diari, 31 maggio 1983 - Uno dei maggiori esponenti della corrente neo-pop, è stato tra gli artisti più rappresentativi della sua generazione. Figlio di Joan e Allen Haring e maggiore di quattro fratelli, nasce il 4 maggio 1958 a Kutztown, in Pennsylvania. Rivela il suo talento artistico già molto giovane e, dopo aver regolarmente frequentato le scuole superiori, entra alla Ivy School of Professional Art di Pittsburgh. Nel 1976, sull'onda della nuova contestazione giovanile e della cultura hippie, gira gli Stati Uniti in autostop, facendo tappa nelle varie città del paese allo scopo di osservare più da vicino i lavori degli artisti della scena americana. Tornato a Pittsburgh lo stesso anno, entra all'Università e tiene la sua prima importante esposizione al Pittsburgh Arts and Crafts Center. Figlio della cultura di strada, parto felice della cosiddetta street art newyorkese, prima della sua consacrazione all'interno del mondo "ufficiale" dell'arte è stato inizialmente un emarginato. Nel 1978 entra alla School of Visual Arts di New York, diventando noto nei primi anni '80 con i murales realizzati nelle metropolitane e, più tardi, con i lavori esposti qua e là, fra Club di vario genere e "vernissage" più o meno improvvisati. Le novità proposte dall'artista americano sono esplosive e non mancano di attirare l'attenzione degli intenditori più smaliziati. Keith Haring trasmette e inventa un nuovo linguaggio urbano, costituito da sagome quasi infantili o primitive, caratterizzate da un continuo segno nero che si rifà palesemente al fumetto. La sua prima vera mostra personale si tiene a Shafrazi nel 1982; gli anni successivi sono densi di successi con mostre in tutto il mondo. Nell'aprile del 1986 Keith Haring apre il Pop Shop, a New York. Ormai è un artista affermato, acclamato in tutto il mondo. Nel 1988 gli viene diagnosticato l'Aids. Con un colpo a sorpresa annuncia lui stesso la sua triste condizione in un'intervista a "Rolling Stone", incrementando così la sua già grande popolarità. Prima della sua morte fonda la Keith Haring Foundation, che si propone tutt'oggi di continuare la sua opera di supporto alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta all'AIDS. Keith Haring è morto il 16 febbraio 1990, all'età di 32 anni.

domenica 13 novembre 2011

Fine anno con il botto ...

Il coordinamento nazionale del Comitato “No debito” si è riunito nel momento in cui si va definendo nettamente l'ipotesi denunciata chiaramente con l'assemblea del 1° ottobre. L'investitura di Mario Monti come nuovo presidente del consiglio realizza quel “governo unico delle banche” che rappresenta una minaccia dichiarata ai diritti sociali e dei lavoratori e delle condizioni di vita dei settori popolari. E' un governo che godrà in una prima fase di “consenso” sia a livello politico bipartizan (per esplicita responsabilità di Napolitano) sia in vasti ambiti della società che lo interpreterà come il governo che “ha mandato via Berlusconi”. Ciò significa che l'iniziativa della campagna No Debito e sui cinque punti dell'assemblea del 1° ottobre dovrà fare i conti, in una prima fase, con un senso comune divergente e con ostilità crescenti sul piano politico. Si rimane convinti che la posizione indicata in questi mesi – no al debito e no al vincolo europeo – mantenga intatta la sua credibilità e troverà conferma nello sviluppo dei fatti. In tal senso, assume enorme rilievo politico l'assemblea nazionale a Roma del prossimo 17 dicembre convocata dal comitato No Debito, una occasione che rappresenta il primo grande appuntamento di massa dell'opposizione politica e sociale al “governo della Bce” rappresentato da Mario Monti. Tutti coloro che sono contrari a questo governo e alla Bce sono invitati a partecipare a questo appuntamento e tutti coloro che hanno condiviso l'appello “Dobbiamo fermarli” sono invitati a preparare e a far crescere questo appuntamento sia a livello locale che nazionale. Nell'assemblea nazionale del 17 dicembre verrà avanzata la proposta di convocazione di una grande manifestazione nazionale dell'opposizione sociale e politica alle misure del governo Monti per l'inizio del prossimo anno.
La tabella di marcia del Comitato No Debito prevede il lancio dell'obiettivo “Noi vogliamo decidere. Referendum!”. A tale scopo verrà lanciato un appello che chiederà la convocazione di un referendum contro le misure della Bce e – di fronte al prevedibile rifiuto da parte delle istituzioni preposte – avvierà i preparativi di un referendum autogestito inteso come consultazione popolare e democratica di massa contro i diktat dell'Unione Europea. La proposta del referendum è una proposta che il comitato No Debito avanza come terreno di iniziativa unitaria a tutte le forze e i soggetti che ritengono di poter e voler condividere questa battaglia di democrazia.
In secondo luogo assumono un carattere decisivo le assemblee locali e la costituzione dei comitati locali “No debito” possibilmente entro la data dell'assemblea del 17 dicembre. La commissione organizzazione comunica che in calendario sono state già fissate alcune iniziative locali (vedi il calendario pubblicato in homepage). Sono in via di definizione altre assemblee (Bologna, Bari, Trieste, Gorizia, Veneto). E' importante che le assemblee siano pubbliche, rappresentative e inclusive anche dei soggetti sociali e politici che fino ad ora non hanno firmato l'appello “Dobbiamo fermarli”. Il Comitato No Debito porterà il proprio contributo al convegno del Forum Diritti Lavoro che si terrà a Roma il 18 novembre e agli incontri previsti per discutere il referendum contro l'art.8 e la legge 30. Per il 10 dicembre è confermato il primo seminario con gli economisti a Roma mentre un secondo seminario si terrà a gennaio a Milano.
Il Comitato No Debito aderisce e partecipa con un proprio striscione e spezzone unitario alla manifestazione del 26 novembre convocata dal Forum dei comitati per l'acqua pubblica. La commissione comunicazione ha resocontato la propria attività (consapevole ancora dei limiti esistenti e che sono stati sottolineati). In primo luogo indica che l'identità assunta sarà quella di “Comitato No Debito” pur consaspevoli che i cinque punti di programma avanzano obiettivi non legati solo a questa dimensione. E' stato approntato un logo che indica il nesso tra il “Noi” come forma di partecipazione collettiva in prima persona e gli obiettivi che verranno declinati nei vari momenti (NOI No debito, NOI vogliamo decidere, NOI no alla guerra, NOI per i beni comuni, NOI per i diritti dei lavoratori, vedi qui a fianco). 
E' stato aperto un primo gruppo su facebook e adesso verrà attivata anche una pagina Facebook ufficiale del Comitato No Debito. Si stanno centralizzando gli indirizzi dei giornalisti e delle redazioni per favorire una maggiore comunicazione. A breve si risistemerà il sito per renderlo più dinamico e accattivante”.
Da martedi 15 novembre comincerà un appuntamento di comunicazione integrata quindicinale del comitato No Debito che aggiornerà le informazioni, indicazioni e campagne. La trasmissione si terrà negli studi di Radio Città Aperta alle 14.30, verrà trasmessa in diretta in streaming video da Libera Tv e potrà essere embeddada da tutte le pagine web, radio o televisioni che vorranno collegarsi a questa iniziativa. La cosa potrebbe raggiungere migliaia e migliaia di persone.
Roma, 10 novembre

mercoledì 26 ottobre 2011

99%: La rivolta non ha bisogno di guru

Si è manifestato in 82 Paesi, marciando contro i luoghi fisici del potere. Sono state occupate strade e sedi, si è avviata l'impresa dell'insurrezione popolare mondiale. La logica e le manifestazioni del conflitto archiviano definitivamente, dopo il 15 Ottobre, le prassi economiciste delle rivendicazioni materiali e normative e portano ad organizzare in modo neoistituzionale (il contropotere comunitario che conquista spazi e tempi sociali) il potenziale politico eversivo antisistema delle stesse soggettività antagoniste. Le mediazioni politico-sindacali “tradizionali” sopravvissute fino ad oggi nella loro versione degenerata del trade-unionismo "storico" vengono definitivamente meno con il protagonismo sociale del 99% delle classi subalterne - mobilitatesi fin dal 1999 quando a Seattle si pronunciarono contro il WTO - che consolidano successivamente, nelle lotte contro il precariato e la flessibilità globali, la coscienza rivoluzionaria. Un problema di fondo che ha ora il movimento antagonista nel reinterpretare la “global revolution” con lotte unitarie antisistema è la repressione. Il capitale globale ha deciso che l'insurrezione deve essere stroncata sul nascere e paventa punizioni esemplari per i “criminali” che si oppongono alla “modernizzazione del sistema dello sfruttamento”. Perquisizioni, denunce, arresti, licenziamenti, cariche della polizia, attentati di “squadracce” paramilitari sono tutti momenti del piano repressivo degli Stati sotto l'egida del capitalismo multinazionale. La “soluzione cilena” degli aguzzini è giustificata dai milioni d'euro di danni subiti da banche, amministrazioni pubbliche, privati proprietari di beni che ne condividono la responsabilità essendo mandanti privilegiati della repressione. Il potere economico e politico si è dato il compito di schedare chiunque svolga attività politica antisistema di massa perché qualcuno dovrà pagare. Il sistema dei media, compreso il circuito radio-televisivo pubblico, collabora entusiasticamente alla “caccia alle streghe”, prepara l'opinione pubblica con allusioni all'uso delle pallottole, da parte di chi detiene per conto dello Stato il monopolio della forza armata, negli scontri di piazza contro i “violenti”. La partita tra le moltitudini che ritrovano dignità nella radicalità del conflitto sociale e la repressione militare a difesa degli interessi dei pochi potentati non va affatto chiusa e non si chiuderà. La sfida è accettata. La formazione di un'organizzazione politica che incorpori il conflitto nella sua elaborazione programmatica è all'ordine del giorno ed in grado, quindi, di superare l'orizzonte d'una guerriglia metropolitana che sembra “necessitata” ed autoreferenziale. Separare l'elaborazione politica dalla mobilitazione organizzata conflittuale – che alcuni (la cosiddetta “sinistra”) arrivano a demonizzare considerandola qualcosa di “schifoso” - è un errore grave. Certo è che ogni forma di antagonismo duale va ispirato al principio in base al quale deve essere l'elaborazione politica delle contraddizioni sociali a guidare il conflitto; questa sana dialettica va intesa e praticata in un senso preciso e cioè sollecitando in ogni antagonista ed in ogni nucleo organizzato un approfondito chiarimento politico a guida, fondamento e scelta del proprio comportamento rivoluzionario, all'occorrenza anche mobilitativo di potenziale contundente, come è accaduto a Roma. Le modalità di lotta rivoluzionaria non si scelgono arbitrariamente o teoricamente, ma assumono spesso la forma dell'azione diretta organizzata conflittualmente poiché lo scontro sociale - nei suoi esiti - è un fatto che non dipende tanto solo dall'azione soggettiva degli antagonisti, quanto dall'organizzazione repressiva dello Stato delle multinazionali che, in qualche modo, impone ed introduce nel conflitto “logiche militari” all'interno dello stesso scontro sociale.

Che l'offensiva antagonista si esprima anche sul piano dell'azione diretta organizzata conflittualmente è una necessità dell'attuale livello dello scontro di classe che non può essere diluito o negato. È legittimo pensare - questo sì - che l'offensiva antagonista - nella sua irreversibile autonomia contro il massacro sociale e la “crisi” - sia oggi estremamente ricca di opzioni praticabili e che tra le molte forme della sua radicale espressione vi sia anche quella dell'azione diretta organizzata sul piano politico e veicolata dal conflitto. Ciò comporta il ripudio programmatico di ogni mediazione. Senza bandiere, che non sia quella rossa del comunismo, nella convinzione di perdere solo le catene e di non avere bisogno di guru. Vanno legate insieme tutte le iniziative che mirano a formare, innovare e potenziare le attività di rinnovamento dei rapporti sociali attraverso percorsi di autonoma ed inventiva ricerca di ulteriori fronti del conflitto, attraverso confronto internazionale e condivisione di esperienze di rivolta, saldando l'analisi teorica e financo le suggestioni dell'immaginazione e della progettazione esistenziale ad una inevitabile comune prassi di contropotere nella quale, solo in essa, incarnare il futuro.

http://th-rough.eu/writers/dursi-ita/beni-fisici-collettivi-e-cultura-globale
http://th-rough.eu/writers/dursi-ita/emergenza-e-guerra-scelta-politica-della-babele-post-moderna

martedì 6 settembre 2011

Sull'emancipazione sociale

Prospettive dell'emancipazione sociale a partire dal sollevazioni e mobilitazioni di massa nell'area euro-meditterranea - "Quelli che in vengono denominati "movimenti sociali", sono anzitutto azioni collettive improvvise e intermittenti di insubordinazione sociale contro il capitale e le specifiche modalità neoliberiste di dominazione. Volendo distinguere i tratti emancipativi, i limiti e le difficoltà della mobilitazione e delle sollevazioni indigene e popolari nell'area euro-meditteranea nell'ultimo decennio, vanno indagate le potenzialità e difficoltà di fronte alle quali le attuali modalità collettive di intervento e partecipazione antagonistica e/o autogestita nei temi politici e, in generale, nella vita pubblica dei diversi paesi, si trovano di fronte. L'obiettivo è presentare in maniera ordinata una serie di categorie e distinzioni basilari, al fine di rendere intelligibile il conflitto sociale contemporaneo, e affrontare la questione della emancipazione sociale. Questa tematica, sotto la prospettiva dei molteplici movimenti sociali di disobbedienza all'ordine capitalistico nel nostro continente, si caratterizza per due difficoltà principali: 1. il problema della relazione tra la costruzione dell'autonomia locale e l'autogestione di certi ambiti della vita sociale, e il confronto con lo sfruttamento e il dominio del capitale a livello generale -- in ogni singolo paese e nel mondo globalizzato. Cioè, la questione di trovare una soluzione al problema dell'articolazione delle lotte a partire dalla loro autonomia. 2. Il problema del potere, cioè, la questione dei modi più pertinenti di costruire nuove forme di autoregolazione della vita sociale che non si cristallizzino in nuove modalità di dominazione. È possibile presentarecc sette tesi sulla resistenza e la emancipazione possibile e una ipotesi per pensare il cambiamento.

Tesi 1

Quelli che vengono denominati "movimenti sociali", sono anzitutto azioni collettive improvvise e intermittenti di insubordinazione sociale contro il capitale e le specifiche modalità neoliberiste di dominazione consolidatesi in

■modificazioni nell'uso della forza lavoro che apre la porta a nuove e più acute forme di sfruttamento

■il saccheggio e l'espoliazione di beni comuni (acqua, gas, biodiversità, etc.), e lo smantellamento generale di ciò che fu ricchezza e spazio pubblico

■la privatizzazione istituzionalizzata che regolamenta e sanziona i modi di partecipazione alla vita pubblica, criminalizzando qualunque altra forma di intervento sui temi comuni.

Tesi 2

Una determinata forma di insubordinazione sociale sorge quando un eterogeneo conglomerato di persone, collettivi e gruppi si dota di un obiettivo negativo che attacchi aspetti precisi di qualcuna delle tre fondamenta dell'offensiva neoliberista menzionate, e produce una vasta lotta di resistenza che, in genere, straripa oltre l'intreccio istituzionale e normativo dominante e accettato come legittimo in ognuno dei paesi dove ha luogo (il caso delle lotte per l'acqua in Bolivia è paradigmatco di questo tipo di movimenti). Un altro tipo di movimenti ha tratti più stabili, il grado di coesione interna tra i suoi membri è più denso e si propone obiettivi non meramente definiti dalla negatività e l'antagonismo, e può stabilire "idee forza" positive per riconfigurare ambiti più ampi dello spazio sociale (la ribellione delle frammentate comunità metropolitane, è un esempio paradigmatico di questo tipo di movimenti).

Questo tipo di tipologia dei movimenti contemporanei di insubordinazione può costruirsi precisando alcuni tratti che li differenziano, come per esempio la loro "volatilità", cioè, il loro grado di coesione e condensazione interna; se privilegiano o no azioni di confronto con l'ordine del capitale, o la costruzione di autonome relazioni sociali distinte su un determinato territorio, i loro modi di confluenza e interconnessione con altri movimenti, cioè se privilegiano una sintonia temporanea delle proprie azioni collettive o se piuttosto si concentrano sullo stabilire-inventare certe forme di occupazione territoriale definita, etc. Il compito di costruire una tipologia non è una mera oziosità accademica se contribuisce alla comprensione delle diverse meccaniche -- non lineari, in alcun caso -- della resistenza e dell'insubordinazione. Il primo tipo di movimenti, dunque, sono le azioni collettive a più alto grado di volatilità: dense aggregazioni di uomini e donne che dispiegano sullo spazio pubblico -- la strada, i media, le strutture e istituzioni pubbliche -- la loro azione penetrante, simultanea nel tempo sebbene scarsamente coordinata, esibendo una specifica e stridente "capacità di veto" contro determinati aspetti puntuali, locali, nazionali o globali dei progetti capitalistici.

Questo tipo di movimenti consiste anzitutto nel dispiegarsi collettivo di una enorme carica di energia sociale che destruttura le decisioni e le istituzioni dell'ordine neoliberista: Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua nel 2000 e El Alto nel 2003-2005, l'Argentina nel 2001 contro le misure finanziarie di espoliazione massiccia della popolazione, tra le altre; la rivolta civile di Arequipa contro la privatizzazione dell'energia elettrica nel 2001; e inoltre l'opposizione degli abitanti e vicini di Atenco, ai bordi di Città del Messico, per la privatizzazione delle loro terre da destinare alla costruzione di un aeroporto, la lotta degli studenti nel CGH della UNAM contro lo smantellamento dell'educazione pubblica in Messico, la resistenza contro l'esproprio di terre in Tepoztlán, Morelos, Messico, attuata da comuneros e abitanti delle vicinanze, etc., sono esempi di movimenti di insubordinazione di questo tipo.

Tutti essi sono movimenti di insubordinazione improvvisi e, solo a volte, cumulativi, quasi sempre intermittenti e parziali, che contribuiscono soprattutto a modificare la correlazione di forze esistente in ogni paese dove hanno luogo, arrivando occasionalmente a mettere sotto scacco l'andamento normativo e istituzionale del capitale, e quindi il suo ordine.

In certa misura, è in questo tipo di movimenti che affiora in maniera lacerante la contraddizione dell'epoca: quella tra i popoli poveri, sfruttati, disprezzati e derubati delle proprie risorse, presenti nelle diverse nazioni, e il potere delle imprese multinazionali organizzate intorno ai protetti da parte dello stato nordamericano, i cui interessi e visioni del mondo sono veicolati dai distinti governi dei paesi. Questi movimenti delineano una nuova grammatica, cioè nuove regole per i linguaggi della lotta sociale, che non sono facilmente compresi per il loro carattere fondamentalmente destrutturante dell'ordine dominante, oltre che produttori di socialità positiva. In queso senso, sono movimenti di insubordinazione che modificano profondamente e sostanzialmente la correlazione delle forze in un luogo o in una nazione, sebbene lo facciano in genere durante corti intervalli di tempo. D'altro lato, per il modo come tali movimenti privilegiano l'unione orizzontale delle molteplicità sociali, aprendo la via alla cooperazione per la lotta, e in tanto che rendono più complessa la vita politica di ogni paese creando spazi per la partecipazione politica di strutture sociali prima limitate all'ambito della vita privata -- le famiglie, i vicinati, i gruppi sociali, e una gran diversità di collettivi e comunità --, sono movimenti anche gravidi di possibilità emancipative in germe che, a lunga scadenza, possono modificare in maniera decisiva la correlazione delle forze.

Il secondo tipo di movimento di insubordinazione è meno volatile, cioè, più denso, coeso, e stabile; privilegia la lotta di resistenza e la costruzione di autonomia locale, scava in maniera lenta e persistente nelle relazioni di dominio e solo occasionalmente irrompe in maniera dirompente nello spazio pubblico, presentandosi come soggetto critico che sfida i principali supporti dell'ordine del capitale: la struttura della proprietà, le forme liberali -- privatizzate -- della politica, le stratificazioni razziali della società che sostiene il "colonialismo interno". Esempi di questo tipo di movimento sono i MST brasiliani, l'EZLN messicano e, in certa misura, il movimento rurale aymara in Bolivia, il tessuto sindacale-comunitario dei produttori di coca nel Chapare, e l'organizzazione di resistenza, principalmente quechua, in Ecuador. Tutti questi sono movimenti di più lunga data, con una tradizione di lotta e resistenza sedimentata atraverso le loro precedenti azioni di confronto ed autoconfigurazione, con un grado minore di eterogeneità interna e situati, chiaramente, dentro un canone nazionale di azione politica, senza per questo negare le sue possibilità e capacità -- soprattutto nel caso zapatista -- di aprirsi ad altre problematiche, e di relazionarsi con una molteplicità di lotte di resistenza in altri paesi, con un contenuto molto meno "nazionale".

La virtù di questi movimenti, che in certa misura operano per stabilizzare fluttuazioni e rotture sociali precedenti, è che costruiscono ambiti di resistenza collettiva suscettibili di dispiegarsi, anche ad intermittenza, in azioni più dirompenti che tendono a modificare le correlazioni di forze non in forma convulsa e spasmodica, ma a più lunga scadenza. Intanto occupano territori demarcati con nitidezza, e in essi dispiegano energie che strutturano nuove relazioni sociali che, in maniera completa, trasformano, superano e annullano tendenzialmente certe relazioni di dominio e sfruttamento, o le fanno rivivere sotto nuove funzioni.

Tesi 3

Nei movimenti di insubordinazione del primo tipo, i più volatili e incendiari, non è il successo di una finalità prestabilita che permette di valutarli obiettivamente. Piuttosto, se l'intento è intravedere i tratti emancipativi nel dispiegarsi medesimo dell'azione sociale di insubordinazione, è importante comprendere come i molteplici mosaici mobili del conflitto sociale sfuggano ai diagrammi del potere che li hanno costituiti -- o cercato di costituire -- in frammenti controllabili. Come cooperano tra sé per risovere i problemi comuni. Come i collettivi e i gruppi umani disobbedienti inventano linee di fuga e flussi di forza che destabilizzano e pongono in dubbio l'andamento statale vigente nei suoi aspetti nomativi e istituzionali. Come si appropriano di e ricostituiscono spazi pubblici. Questa prospettiva ci permette di leggere nuovi insegnamenti in un'infinità di esperienze particolari di conflitto contro il capitale per scrutare nella grammatica della emancipazione. Cioè, ci permette di apprendere dalla lotta sociale e non assumere una sterile posizione di "valutazione dogmatica" degli evidenti limiti di cui questo tipo di movimenti soffre.

Tesi 4

In alcuni paesi -- a partire dalla espansione e generalizzazione di un conflitto su risorse naturali decisive -- si produce uno sviluppo di contenuti e significati degli obiettivi iniziali della insubordinazione sociale. Il caso del gas boliviano è paradigmatico: da "NO alla vendita del gas" come idea mobilizzatrice da prima del 2003, si è passati all'idea di "riappropriazione sociale delle risorse naturali" e all'impostazione della "nazionalizzazione del gas" e dell'"Assemblea Costituente -- originaria e sovrana". Inoltre, l'esperienza boliviana recente ci colloca nella problematica del transito dall'esistenza di capacità di mobilitazione e intervento collettivo nelle tematiche comuni, sufficienti per bloccare i piani dei governi, uno dopo l'altro, alla questione di come questa "moltitudine in atto" si erige sovrana oltre i limiti del conflitto. Cioè, la questione del potere.

In generale, lo sviluppo degli obiettivi del movimento nella Bolivia di oggi, gira intorno ai vari modi in cui si soddisfano le necessità, aprendo spazi a nuovi conflitti e dando luogo a paradossi. Il caso del gas e dell'acqua in Bolivia è il più chiaro su questa questione. Il paradosso, qui, riguarda il soggetto dell'azione sovrana di recupero di ciò che è stato dato via, cioè, chi è tenuto a nazionalizzare, a riappropriarsi della riccheza comune: è alle popolazioni, alle comuntà locali, ai comuneros, ai lavoratori, ai cittadini politicizzati in senso antiliberista, che corrisponde la prerogativa di far valere la proprietà della ricchezza comune, includendo la potestà di decidere su tutto lo spettro dell' attività produttiva, della sua gestione, destino e usufrutto... o è lo Stato, cioè la rappresentazione illusoria della totalità sociale, che deve esercitare la decisione sovrana sul patrimonio comune lasciando al movimento sociale la pressione perché lo faccia? Qui c'è un limite per il primo tipo di movimenti che, nella Bolivia del 2005, rimane pericolosamente aperto come un vortice che minaccia di aspirare la forza sociale destrutturante sgorgata negli utlimi cinque anni.

Tesi 5

Nei movimenti di insubordinazione del secondo tipo, i più stabili e duraturi, è decisivo il consolidarsi di spazi di autonomia, nella progressiva costruzione, lenta e difficile, di nuove relazioni sociali di "resistenza" che non riproducano nè le gerarchie nè le segmentazioni e divisioni sociali precedentemente esperite, nei molteplici sforzi di sottrarsi ai paradigmi e dispositivi della dominazione e dello sfruttamento.

Tesi 6

Il problema più difficile per questo secondo tipo di movimenti è in primo luogo nel riuscire ad evitare una possibile autarchia che possa condurli all'isolamento e alla minaccia di scomposizione. Cioè: come possono questo tipo di movimenti di insubordinazione, una volta ricomposta una certa stabilità sociale dopo la loro irruzione, dedicarsi a tendere i propri vincoli interni e dotarsi di nuovi obiettivi di confronto con l'ordine del capitale? In secondo luogo, all'interno delle proprie costruzioni autonome c'è anche un possibile paradosso: la riconfigurazione di ordini statali -- cristallizzati -- di dominazione dentro le sue politiche e pratiche quotidiane.

Per questo tipo di movimenti, stabilizzati nel tempo come corpo di relazioni sociali territorialmente localizzato si presenta, inoltre, la questione della difficoltà di trovare alleanze, per stabilire rapporti con altri movimenti e altre lotte: come riesce un gruppo sociale di resistenza già consolidato -- e impegnato nel suo proprio auto-consolidamento -- a stabilire vincoli orizzontali di cooperazione per la lotta con altri conglomerati sociali distinti, come riesce a stabilire relazioni di reciprocità?

Tesi 7

La capacità emancipativa dei movimenti di insubordinazione che tendono a soddisfare le necessità quotidiane in altra maniera, si può misurare a partire dalle loro possibilità di passare con maggiore o minore fluidità dalla autogestione della vita quotidiana all'antagonismo e viceversa.

In generale si è qui presentata una classificazione tra i movimenti di insubordinazione sociale dei due tipi qui distinti: il consolidamento dei progressi in termini di modificazione della relazione generale di forze mediante la costruzione esplicita di relazioni sociali e della gestione degli ambiti di vita a partire dall'autonomia; oppure, privilegio delle azioni e compiti di confronto e di dispiegamento dell'antagonismo, nel mezzo del quale si abilitano forme di coordinamento temporale con altri gruppi, collettivi e settori di lotta e resistenza. In certa misura, questa classificazione fissa il paradigma di una strategia ciclica in due tempi, che si possono chiamare "accerchiare e costruire". La difficoltà consiste nel fatto che, in generale, e nella misura in cui ogni tempo suole presentarsi come opzione escludente e/o complessa e difficilmente concordante con l'altro tempo che configura la coppia "accerchiamento e costruzione"; si è presentata finora una relativa carenza di coordinazione configurante -- nazionale e globale -- dell'insieme dei movimenti di insubordinazione.

I movimenti di insubordinazione che privilegiano il consolidamento autonomo e territoriale di relazioni sociali distinte hanno frequentemente incontrato difficoltà a funzionare come organismi di conflitto e ad unirsi con altri movimenti sociali di insubordinazione, in maniera tale da "cedere" terreno e tempo -- per esprimerci in qualche modo -- a favore di governi, stati e imprese multinazionali che stabilizzeranno le linee della dominazione e dello sfruttamento.

Da parte loro, i movimenti che privilegiano il conflitto, il momento antagonistico ma che nn sono riusciti a consolidare spazi e territori di costruzione e difesa esplicita delle proprie pratiche autonome, quotidiane e politiche, sebbene tracciano le linee e gli spazi delle trasformazioni in una società data, non riescono tuttavia a sedimentare nè dare forma all'energia che generano con le proprie azioni e, in genere, sono riusciti solo ad essere forza destrutturante che la forza dello Stato e del capitale assorbe, introducendola nelle proprie finalità -- in certa misura è ciò che è successo in Ecuador e può ancora succedere in Bolivia.

In base alle idee precedenti, deboli per il loro livello di generalizzazione dei ricchissimi dettagli di ogni singolo evento, forti perché tendono a ridurre la complessità rendendo intellegibili e comparabili fatti diversi, avanzo le seguenti ipotesi:

L'idea di una strategia del "poter fare" dei movimenti sociali passa per l'articolazione e comprensione e il dispiegamento della molteplicità di azioni collettive per l'emancipazione, nei suoi aspetti costruttivi ed antagonistici.

In questo senso, l'emacipazione deve essere vista come una trasformazione di relazioni sociali che si produce a partire dalla disarticolazione dell'ordine del capitale e della sua dominazione. A questo scopo sono ugualmente decisivi sia i movimenti di antagonismo che di consolidamento-costruzione delle relazioni sociali basate sulla reciprocità e il riconoscimento dell'autonomia. Finora, quello che fanno i movimenti di insubordinazione è introdurre energia destabilizzatrice nel sistema dominante, sia costruendo nicchie di autonomia, sia dispiegando azioni di conflitto. A partire da qui, la questione della emancipazione dipende dal nostro dotarci di strumentazione teorica per pensare alle possibilità di un "cambio di stato", per servire simultaneamente al problema di introdurre fluttuazioni e deconfigurare l'ordine dominante, così come il problema di stabilizzare sotto diversi lineamenti e forme sociali l'energia sociale così dispiegata.

Enunciarlo è relativamente semplice, contribuire alla sua realizzazione pratica è una sfida gigantesca."

Link: http://proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=619

martedì 26 luglio 2011

Presentazione pamphlet e pubblico dibattito - 10 Settembre 2011

http://www.tabulaedizioni.com/home.html "Lanciano città libera ? Lavori in corso fino al 2016", Edizioni Tabula, Lanciano (Chieti), Maggio 2011, pagine 48, ISBN 978 88 95639 444, 10€ Abstract Nel pamphlet che affronta la quaestio con approccio storico e socio-antropologico (ovviamente nei limiti del genere letterario privilegiato), si può trovare descritta quella tendenza delle subculture politiche, territorialmente egemoni, ad assomigliarsi. Questa tendenza è in grado di trasformare lo “spirito di servizio” degli amministratori in arroganza del potere ed in “conformismo” operativo. Tali subculture, prive di vision oltreché di competenze, s’affermano grazie alla deculturazione e all’incultura diffuse fra i partiti in lizza e gli stessi “soggetti neocivici”, grazie alla progressiva commistione di interessi privati dei “rappresentanti” politici con l’interesse generale dei cittadini, grazie all’ “ignoranza” televisivamente diretta, diffusa anche tra i giovani ormai prioritaria preda del “mercato”, che si impone nelle menti distorcendone la coscienza etica. Gli autori ritengono che non si possa più tacere ed auspicano un’apertura del dibattito pubblico, con coraggio e speranza, per ora “mettendoci la faccia” ed usando al meglio le loro armi critiche, auspicando d’essere supportati, nel prosieguo della battaglia delle idee, anche da una lungimirante politica ed illuminata, indipendente imprenditoria culturale.
Notizie sugli autori
Graziano D’Angelo, 56enne, è giornalista pubblicista da oltre trent’anni. Ha collaborato con testate quotidiane tra le quali Il Tempo e con numerosi periodici locali tra i quali Il Nuovo. Nel 2002 ha fondato il quindicinale Il Meridiano, periodico quindicinale di politica, cultura e sport che si è distinto per autonomia e per la sua forte presenza critica. Ma l’esperienza de Il Meridiano si è conclusa dopo soli due anni, lasciando una scia di delusione e di rammarico che ha segnato i successivi anni di impegno giornalistico, divenuto sempre più sporadico, ma mai privo di impegno e passione per la comunità locale. E’ autore di alcune specifiche ricerche sulle tradizioni e sul folklore abruzzese con particolare riguardo al contesto sub-provinciale frentano. Coltiva interessi culturali che spaziano dall’antropologia alla storia delle religioni. Vive e Lavora a Lanciano.
Giovanni Dursi, 54enne, è docente M.I.U.R. di Filosofia e Scienze sociali a Bologna. Si occupa di management della formazione nella knowledge society e di “comunicazione pubblica”. Già professore a contratto del corso integrativo di Filosofia dell’educazione presso la Cattedra di Pedagogia dell’Università degli Studi di Urbino, per conto di alcuni Enti pubblici italiani (Regione Emilia Romagna, Centri di formazione professionale, Enti locali) ha realizzato diverse attività tecnico-consulenziali: project work, copywriter, pubbliche relazioni, ricerca e sviluppo, organizzativo-amministrative. Di formazione marxista, partecipa dalla fine degli anni ‘70, al movimento anticapitalista ed alla battaglia delle idee pubblicando saggi ed articoli vari per riviste, periodici e quotidiani, testate locali e nazionali anche on line. È coeditore del periodico bolognese - ora on line http://www.zic.it/ - “Zero in condotta”. Scrive su http://th-rough.eu/. Ha partecipato all’esperienza politica neocivica di “Bologna Città Libera” [http://www.bolognacittalibera.org/profile/GiovanniDursi]. Uno dei suoi blog per comunicare è: http://giovannidursi.blogspot.com/ La Casa editrice TABULA Srl e l'Associazione culturale “Oriente immagnario” organizzano Venerdì 29 Luglio 2011 – Ore 10:45, presso TABULA Srl, Via Villa Martelli n° 221 - una conferenza / stampa (presenti il Sindaco di Lanciano, Dott. Mario PUPILLO e il Prof. Giovanni DURSI, docente MIUR di Scienze sociali) di presentazione del pubblico dibattito.
« LA CITTÀ COME ECOSISTEMA SOCIALE CHE CAMBIA - CITTADINI E ISTITUZIONI: LAVORI IN CORSO » Sabato 10 Settembre 2011 – Ore 18:45 - Sala conferenze del “Palazzo degli studi” Corso Trento e Trieste, Lanciano
in occasione della presentazione alla cittadinanza del pamphlet
“LANCIANO CITTÀ LIBERA ? Lavori in corso fino al 2016” - Casa editrice TABULA Srl, Maggio 2011, pagine 48, € 10 - Saranno presenti gli autori, Dott. Graziano D'ANGELO e Prof. Giovanni DURSI che discuteranno dei contenuti del pamphlet con il Sindaco di Lanciano, Dott. Mario PUPILLO. Invitati a partecipare: l'Assessore Cultura Turismo Commercio di Lanciano, Dott. Giuseppe VALENTE, il Presidente del Consiglio comunale di Lanciano, Dott. Donato DI FONZO, il candidato alla carica di Sindaco per il PdL, Dott. Ermando BOZZA

Abstract pamphlet: "Nel solco tracciato a suo tempo da Pier Paolo Pasolini con Scritti corsari, il pamphlet che viene presentato è un convinto e sofferto compendio sulla “strategia dell'omologazione politico-culturale” che agli autori pare di cogliere in azione nel “presente” lancianese. L'onere della prova, come ha affermato Pasolini, non è di competenza dell'intellettuale, ma la riflessione disinteressata ed appassionata è un dovere per chi crede nella legalità, all'autentica “libertà democratica” ed all'utilità della conoscenza. La comunità dei lancianesi, agli occhi autorali anche oggi, appare ancora subordinata ad un'antica volontà egemonica - prodotto della cultura politica democristiana, prima, e della nuova destra, attualmente – che si esprime nell’ottusità di poteri reali reazionari, ma anche perché incatenata ad una retorica progressista di certo personale politico (o aspirante tale) figlio degli stessi “vertici” della gerarchia sociale che dominano la città. Nello scritto, che affronta la “quaestio” con approccio storico e socio-antropologico (ovviamente nei limiti del genere letterario privilegiato), si può trovare descritta quella tendenza delle subculture politiche ad assomigliarsi ed alla trasformazione dello “spirito di servizio” degli amministratori in arroganza. Inoltre, si può trovare descritta quella tendenza del conformismo operativo, di chi si trova ad amministrare privo di vision oltreché di competenze, ad affermarsi; quella tendenza alla deculturazione e all’incultura diffuse fra gli esponenti dei partiti in lizza e degli stessi “neocivici”; quella tendenza alla progressiva commistione di interessi privati con l'interesse generale dei cittadini; quella tendenza, infine, all’ “ignoranza” televisivamente diretta e diffusa soprattutto tra i giovani che, pur accostandosi alla “politica”, sono ormai preda del “mercato” lasciandosi imporre nelle menti il linguaggio d'una miope competizione egolatrica. Gli autori ritengono che non si possa più tacere ed auspicano un'apertura del dibattito pubblico nel capoluogo frentano – anche in presenza di una “inversione di tendenza” (piuttosto che un vero e proprio “cambiamento”) che si è avverata in termini elettorali e narrata dai media in modo improprio - che faccia emergere il ruolo della “società civile” nel progettare la città, nel ridisegnare autentica partecipazione civica e, perchè no, nuove istituzioni democratiche. Con coraggio e speranza, per ora “mettendoci la faccia” e le armi della critica, gli autori auspicano di poter contribuire alla “liberazione irreversibile di Lanciano” anche supportati da un determinata politica culturale e da lungimirante strategia editoriale".

http://libri.dvd.it/altri-generi/lanciano-citta-libera-lavori-in-corso-fino-al-2016/dettaglio/id-3387081/

http://www.unilibro.it/find_buy/findresult/libreria/prodotto-libro/autore-dursi_giovanni_.htm

http://www.libreriauniversitaria.it/lanciano-citta-libera-lavori-corso/libro/9788895639444

lunedì 18 luglio 2011

« LA CITTÀ COME ECOSISTEMA SOCIALE CHE CAMBIA - CITTADINI E ISTITUZIONI: LAVORI IN CORSO » - Presentazione pamphlet e pubblico dibattito

Presentazione pamphlet e pubblico dibattito - « LA CITTÀ COME ECOSISTEMA SOCIALE CHE CAMBIA - CITTADINI E ISTITUZIONI: LAVORI IN CORSO » Sabato 10 Settembre 2011 – Ore 18:45 - Sala conferenze del “Palazzo degli studi” Corso Trento e Trieste, Lanciano - Pubblico dibattito in occasione della presentazione del pamphlet “LANCIANO CITTÀ LIBERA ? Lavori in corso fino al 2016” - Casa editrice TABULA Srl, Maggio 2011, pagine 48, € 10 - Saranno presenti gli autori, Dott. Graziano D'ANGELO e prof. Giovanni DURSI che discuteranno dei contenuti del pamphlet con il Sindaco di Lanciano, Dott. Mario PUPILLO, l'Assessore Cultura Turismo Commercio di Lanciano, Dott. Giuseppe VALENTE, il Presidente del Consiglio comunale di Lanciano, Dott. Donato DI FONZO
Abstract: "Nel solco tracciato a suo tempo da Pier Paolo Pasolini con Scritti corsari, il pamphlet che viene presentato è un convinto e sofferto compendio sulla “strategia dell'omologazione politico-culturale” che agli autori pare di cogliere in azione nel “presente” lancianese. L'onere della prova, come ha affermato Pasolini, non è di competenza dell'intellettuale, ma la riflessione disinteressata ed appassionata è un dovere per chi crede nella legalità, all'autentica “libertà democratica” ed all'utilità della conoscenza. La comunità dei lancianesi, agli occhi autorali anche oggi, appare ancora subordinata ad un'antica volontà egemonica - prodotto della cultura politica democristiana, prima, e della nuova destra, attualmente – che si esprime nell’ottusità di poteri reali reazionari, ma anche perché incatenata ad una retorica progressista di certo personale politico (o aspirante tale) figlio degli stessi “vertici” della gerarchia sociale che dominano la città. Nello scritto, che affronta la “quaestio” con approccio storico e socio-antropologico (ovviamente nei limiti del genere letterario privilegiato), si può trovare descritta quella tendenza delle subculture politiche ad assomigliarsi ed alla trasformazione dello “spirito di servizio” degli amministratori in arroganza. Inoltre, si può trovare descritta quella tendenza del conformismo operativo, di chi si trova ad amministrare privo di vision oltreché di competenze, ad affermarsi; quella tendenza alla deculturazione e all’incultura diffuse fra gli esponenti dei partiti in lizza e degli stessi “neocivici”; quella tendenza alla progressiva commistione di interessi privati con l'interesse generale dei cittadini; quella tendenza, infine, all’ “ignoranza” televisivamente diretta e diffusa soprattutto tra i giovani che, pur accostandosi alla “politica”, sono ormai preda del “mercato” lasciandosi imporre nelle menti il linguaggio d'una miope competizione egolatrica. Gli autori ritengono che non si possa più tacere ed auspicano un'apertura del dibattito pubblico nel capoluogo frentano – anche in presenza di una “inversione di tendenza” (piuttosto che un vero e proprio “cambiamento”) che si è avverata in termini elettorali e narrata dai media in modo improprio - che faccia emergere il ruolo della “società civile” nel progettare la città, nel ridisegnare autentica partecipazione civica e, perchè no, nuove istituzioni democratiche. Con coraggio e speranza, per ora “mettendoci la faccia” e le armi della critica, gli autori auspicano di poter contribuire alla “liberazione irreversibile di Lanciano” anche supportati da un determinata politica culturale e da lungimirante strategia editoriale.”

http://www.tabulaedizioni.​com/home.html

http://www.ibs.it/code/978​8895639444/dangelo-grazian​o/lanciano-citta-libera.ht​ml

http://giovannidursi.blogs​pot.com/2011/07/attacco-al​-cuore-vdel-welfare.html

lunedì 4 luglio 2011

Attacco al cuore del Welfare

L'annunciata cosiddetta “manovra” di 47 mld è spalmata su quattro anni, quando la responsabilità governativa della “macelleria sociale” sarà, nel 2012 o 2013, d'incerta attribuzione all'attuale centro-destra inventato e danarosamente tenuto in vita da Berlusconi. Nel frattempo, l'esito dell'accordo contrattuale raggiunto tra ConfIndustria ed i Sindacati confederali ripropone la strada del “conflitto” quale unico orizzonte di resistenza all'omologazione neo-mercantile delle cosiddette “relazioni industriali”. I “mantra”, megafoni servili del degenerato potere berlusconiano, diffondono la suggestione d'una assicurazione da stipulare individualmente contro ogni evenienza previdenziale, sociale e di accesso ai “servizi” alla persona ed alla comunità erogati dal vigente Welfare, come se fosse possibile permettersela, unitamente ad una costellazione di nuovi “sacrifici” da sostenere necessariamente, in esclusiva riservati ai lavoratori dipendenti, che vanno dall'inaudito aumento dei biglietti per il trasporto (bus, treni) alle polizze auto fuori controllo, dai costi impazziti dei carburanti ai prezzi dei prodotti alimentari, dall'esponenziale indebitamento dei nuclei familiari con le banche alle insostenibili tariffe del gas, elettricità, telefono. Contestualmente – con i bavagli ai giudici e ad alcuni media – l'apparato governativo cerca di non far conoscere le trame reali che riguardano l'affossamento definitivo del residuale assetto “democratico” del sistema politico-istituzionale italiano contaminato, da decenni ed oggi aggiornato, dal progetto eversivo piduista attualizzato con nuovo “personale” dedicato.

Il Presidente Napolitano, assorto e titubante come sempre, incoraggia la “manovra” condividendone la “strategia tremontiana”d'attendere l'effetto che farà sul PIL, nonostante il peso oggettivamente devastante che eserciterà sul corpo sociale, laddove le tasse sul reddito restano e, nel contempo, si smantella il sistema di protezione sociale aumentando ulteriormente a dismisura prestazioni socio-sanitarie (tickets di 46 euro), come si strumentalizza l'incremento di “speranza di vita” condannando donne ed uomini ad un più lungo periodo di lavoro. La “manutenzione” dell'esistenza è ridotta ad una variabile affatto significativa da parte dei farabutti che occupano il loro tempo ad elaborare piani di tagli indiscriminati della spesa sociale mentre cercano di irretire l'opinione pubblica con la paventata tassa sui SUV, certamente sostenibile da chi i SUV gli acquista. È lo stesso inganno della presunta abolizione degli stipendi dei Ministri che – in ogni caso – conservano l'eccessivo introito di 15 mila euro in qualità di parlamentari. I cittadini massacrati da tale “manovra” - ricordiamolo – sono già stati truffati al tempo dell'adozione della moneta unica europea quando, conservando i livelli di tassazione in “lire”, hanno ottenuto un potere d'acquisto dimezzato. Con le banche europee ed internazionali che, di fatto, decidono la stessa sopravvivenza degli Stati europei (Grecia), l'anestesia indotta dall'impero televisivo e mediale alle menti, da oggi, anche nella metropoli italiana, avrà un minor effetto allucinogeno e le piazze vedranno il popolo infiammarsi lacerando ogni conformismo democraticista di massa promosso dal “sistema dei partiti” in declino.

Diversamente antagonisti (rispetto alle forme di maniera del passato), come “nuovi barbari” che invadono e distruggono le “consuetudini del potere” con un'unica meta da perseguire: fuoriuscire dal capitalismo, realizzare il comunismo.

giovedì 23 giugno 2011

La storia . . . di chi “non ha tempo per gli altri”

Vi racconto la storia . . . di chi “non ha tempo per gli altri”.
Il modo d'essere d'una persona rispetto ad un'altra caratterizza le relazioni, interpersonali e/o sociali. Il “mio” modo d'essere ed il “tuo” creano legami, rapporti tra due menti e due corpi. Ci si avventura nella reciproca cognizione che non è affatto solo concettuale. Tutt'altro. Si tratta d'una sorta di permanente riferimento reciproco, un evento sociale che, nella sua espressione più elevata, genera “vita”. Il “modo d'essere” concorre a causare, dunque, legami, vincoli affettivi, amicali, conflittualità, ma anche relazioni economico-sociali, politico-culturali … Anche, più specificamente, legami – per così dire – d'affari, quintessenza della coatta socialità capitalistico-borghese. L'insieme dei rapporti sociali, dei rapporti che instauriamo con altre persone, è contaminato da questa “forma” fondativa – strutturale - dei “modi d'essere” individuali e collettivi nell'attuale formazione capitalistico-globale. Le “pubbliche relazioni” agiscono come una matrice di tutte le altre “forme” di convivenza, inglobate, risucchiate nel contesto di attività tendenti a creare una buona opinione intorno ad una persona, un'istituzione, un'impresa, un'opera di ingegno . . . Tendenzialmente, la commistione che risulta tra diverse modalità relazionali, fa si che le persone coinvolte siano – in ultima istanza – considerate alla stessa stregua di soggetti economici in competizione, accomunati da transazioni economiche profittevoli. In sostanza, il “modo d'essere” si trasforma in un “modo d'avere”, merce o carne umana poco importa. L' "altro", in questa dinamica estraniante, diviene utile o meno, piuttosto che interessante o indifferente … Pur lavorando, pur gestendo l'esistenza nelle sue responsabilità più impegnative (penso alla paternità o maternità), pur partecipando alle lotte sociali, pur rivendicando insieme ad altri il rispetto dei diritti, a me capita di avere del tempo per gli altri, perché intenzionalmente faccio spazio nella mia vita quotidiana agli altri. Il mio ombelico può attendere, come il mio conto in banca.
Mi capita – ciò mi dona gioia – di aprire gli occhi solo quando “guardo” gli altri che mi chiedono “tempo”. Avere tempo per gli altri è essere autenticamente liberi dagli impacci del business. Non avere “tempo” per gli altri, viceversa, denuncia con clamore l'essere remissivi, sottomessi addirittura alla logica del potere che esalta il self made man (o woman), per negare la socialità non avvezza a genuflettersi alla suprema omologante volontà di lucro.
La morale della storia risiede in ciò: non c'è alcun tormento in chi anela al benessere comunitario, alla giustizia sociale che non sono davvero tali se trattasi di benessere solo “mio”, di giustizia "al singolare". Non propugno un neo-francescanesimo che andrebbe perseguito, bensì una reale promozione civile ed un saldo contrasto alle drammaticamente anacronistiche derive di costume di quei tanti, troppi che “non hanno tempo per gli altri”.
Questo mutamento nell'approccio sociale, questa indistinzione tra le originariamente variegate relazioni umane, determinano una diuturna strumentalizzazione, uno sfruttamento continuo, vera e proprio tentativo d'alienazione degli “altri”, distinti e distanti come esseri umani, ma presi in considerazione unicamente come meri “interessi”.
Il linguaggio che usiamo svela l'arcano, quando arriviamo – spesso fagocitati dal “sistema” vigente, in altre circostanze, consapevolmente – ad affermare all'altro “non ho tempo per te”. Non avere tempo è una menzogna e, trincerandosi dietro di essa, si palesa la propria identità. Non avere tempo per gli altri, vuol dire ammettere che si ha “interesse” solo agli affari, al denaro, sancisce il trionfo dell'egolatria materialistica. Non puoi non avere tempo per gli altri senza contestualmente dimostrare l'infimo spessore etico che ti riguarda, l'azzeramento dell'umano in te. “Non ho tempo” per te, dichiarazione inequivocabile di presunto “possesso” personale del tempo rilascita da propagandisti del tempo “proprietario”, “privato”, “solo mio”, come la “roba” che mi circonda, che acquisto, come il lavoro che svolgo eseguendo compiti, come la casa che abito chiudendo la porta blindata, come l'arte che produco e che vendo. “Non ho proprio tempo” è l'epifania di quella “liquidità” della quale qualcuno ha scritto.

giovedì 16 giugno 2011

Commento sull'esito referendario

Provo a ragionare sull’esito referendario. A seggi chiusi, il quorum è superato con un’affluenza alle urne che, negli istant poll, già oscillava addirittura tra il 54,5 e il 59,5% consentendo ai SI di traguardare una percentuale oscillante tra il 93 ed il 97% della scelta espressa dagli elettori. Ora i risultati si sono stabilizzati [http://referendum.interno.it/], ma l’esito politico si conferma come altamente positivo. Comportamenti elettorali, certo, ma adottati in un’allarmante situazione di “crisi a più dimensioni” che continua a devastare la coesione sociale, avvelenata da una incontrollata deriva politico-culturale del “ventennio berlusconiano”. Il successo referendario è l’onda lunga e carsica d’una parte del “corpo sociale” che non si arreso alla ristrutturazione autoritaria del dominio capitalista nella metropoli italiana. La resistenza (operaia, studentesca, dei soggetti antagonisti presenti nella società civile) e la clandestinità comportamentale (incardinata nella palese estraneità ed ostilità verso il “sistema dei partiti” ed i “santuari” del potere), ha reso ai cittadini tutti la consapevolezza della praticabilità di “politiche generative” del “nuovo” di cui una prima manifestazione – dal 2008-2009 al 2011 - sono stati (per quanto variegati e non tutti autentici) i “coriandoli” del “neocivismo”. La marcia nel deserto non è però finita e non si esaurisce nella contraddittoria esperienza del neocivismio. In buona sostanza, c’è altro accanto all’idea di recidere i cordoni ombelicali con le rantolanti “organizzazioni del consenso”, vecchie e nuove, anche della “sinistra” che annovera tra le sue fila tanto Pietro Ichino quanto la FIOM-CGIL. Il dato importante da considerare è questo: nel corpo sociale si è diffuso un coinvolgente ripensamento in atto del “governo dei beni comuni” materiali ed immateriali. Certo, l’acqua, il sole, l’aria pulita e la potenza del vento, ma anche l’istruzione e la salute pubbliche, i diritti al reddito, alle “protezioni sociali” (che ritorni universalistico il Welfare !)ed alla conflittualità, la condivisione delle conoscenze e delle sue veicolazioni tecniche. Il largo fronte delle vertenze sociali ha aperto una stagione politica costituente: c’è chi pensa che il “movimento antagonista” non debba rifluire nella miope e strumentale ricerca di nuovi equilibri sociali ed in nuovi “accordi” interclassisti a garanzia di stabili profitti e status quo; c’è chi propugna, fatta propria la logica antisistema, l’attuazione del progetto d’edificazione di istituzionalità popolari sulla base di nuove forme di cittadinanza attiva che superino le antinomiche espressioni dell’attuale “democrazia reale”. La distanza irreversibile non è tra il Governo in carica ed il Paese, bensì sussiste tra una “moltitudine” (masse popolari senza più gli ancoraggi delle appartenenze politico-sindacali e/ dell’ordinamento sociale e classista tradizionale) e lo Stato. S’assiste al concreto riaffermarsi dell’autonomia politico-organizzativa dell’autentico (a-ideologico) antagonismo che riprende la sua marcia amalgamando, poco a poco, chi lotta, sedimentando “comunità” nei territori. Siamo di fronte alla crisi radicale della “politica alienata ed estraniante della rappresentanza e della delega”. In altri termini, la fenomenologia sociale innescata dalla “crisi” è inequivocabile pronunciamento di soggetti dispersi fuoriusciti dal post-fordismo di maniera, tipico della “piccola trasformazione italiana” (Bonomi), inabissatisi quando si è affermato il “capitalismo molecolare”, successivamente, quello “delle reti e dei flussi” (che ha in Marchionne la migliore tra le truffaldine figure), per riemergere ora come unico, attrezzato argine alla contaminazione e lacerazione dei “populismi armati” (quello di territorio come Lega Nord ed affini; quello dell’individualismo proprietario, tecnocratico, giustizialista; quello “dolce” di un “potere” che ricerca “connessioni” con il popolo …). Dentro una lacerante scomposizione sociale ormai in metastasi, si realizza un’aggregazione di luoghi sociali e territori che reagisce alla subalterna omologazione politico-telecratica, che rifiuta la morte cognitiva, che resetta il blocco implosivo delle rappresentanze (verso il basso, ripensando il “consenso”, verso l’alto, progettando “contropotere”). Le infrastrutture normative, sofisticato risultato del sistematico picconamento al quale è stato sottoposto da decenni lo “Stato di diritto”, messe in opera dall’egolatria insita dal “berlusconismo”, oggi devono fare i conti con autonomi movimenti sociali e di pensiero. Con forza, nuove istituzionalità irrompono sulla scena del conflitto sociale perseguendo la soddisfazione dei “bisogni”, esprimendo responsabilizzazione nella “progettualità sociale”, organizzando la gestione comunitaria delle “conoscenze” e delle I.C.T.. Non si sogna più la “comunità”, la si conquista, valorizzando il “conflitto” piuttosto che accettare la “mediazione” ed unificandosi, superandole la frammentazione originaria, le esperienze di contropotere.