Visualizzazione post con etichetta Conflitto capitale-lavoro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Conflitto capitale-lavoro. Mostra tutti i post

martedì 9 luglio 2019

Articolo censurato - «Da dentro il marxismo – Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo»

Esaminato, da parte dello staff redazionale di una rivista on line con la quale ho collaborato e che “si pone come obiettivo primario la promozione, il sostegno, l’organizzazione e la gestione di iniziative, eventi e manifestazioni culturali e sociali nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto a pari opportunità senza distinzioni di razza, sesso, cultura, religione e salvaguardando l’ambiente” e ritiene di “esserci anche quando il pubblico è una minoranza”, l'articolo che pubblico è stato censurato.

Agendo come una sorta d'ibrida “autorità pubblica” (sul versante della censura politica) e come una “autorità ecclesiastica” (sul versante della censura ideologica), lo scritto non ha trovato spazio nel palinsesto, precludendo il prosieguo della collaborazione, poiché ritenuto eversivo. In questa sede, non intendo replicare; mi limito, per ora, a presentare il testo, al quale ho dato un titolo, minimamente modificato in alcuni passaggi per rendere la lettura più chiara ed arricchito da alcune utili citazioni, ovviamente, senza alterarne i significati teorico-politici, lasciando ad altri il "lavoro sporco" dei sofismi propri dei benpensanti che del capitalismo e dei suoi involucri politici sanno parlarne, ma non osano immaginare come poterlo adeguatamente "criticare" e superare. Sarò grato per ogni eventuale parere. G D

Da dentro il marxismo - Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo

Premesso che l'alleanza sovranista è un ossimoro – non si può dare una solidarietà politica internazionale tra competitor statuali pur in una evidente configurazione globale (empiricamente, non si possono negare affinità “operative” tra Putin, Trump, Erdogan, Orban, Xi Jinping e, via degradando, Bolsonaro e Salvini) e, nel contempo, interpretare in modo esaltato i programmi dei diversi interessi nazionali che rappresentano -, non si può, tuttavia, misconoscere che l'onda nera liberista post-novecentesca, caratterizzata dal sistema post-fordista multinazionale di produzione (organizzato nella forma della serializzazione digitale) e da un'economia biopolitica in grado di manipolare tutte le dimensioni d'espressione dei rapporti sociali (rif. M. Hardt, A. Negri, “Impero – Il nuovo ordine mondiale”, BUR, 2003, con particolare riguardo al Capitolo VI, “La sovranità imperiale”, pagine 175-193), procede indisturbata nel suo consolidamento del potere mondiale e nella sistematica depauperizzazione umana delle classi subalterne.
La “democrazia reale”, svigorita e irreversibilmente logorata, cede la guida della storia a figure marginali, ritenute a torto estinte, altrimenti concrete ed efficaci che scandiscono il passo dell'oca intorno al capezzale del cigno democratico (rif. al balletto di M. Fokine su una composizione di C. Saint-Saens, 1901-1905), agli autoritarismi post-fascisti in grado di vincere gli antichi nemici valorizzando la povertà materialistica e post-materialistica e la massa critica dell'ignoranza, ingredienti indispensabili per le forme legali ed elettorali quanto per le forme illiberali politico-militari d'affermazione e di conquista del potere istituzionale e/o governativo. Il mix delle “forme”, non del tutto storicamente originale, è sotto gli occhi dei popoli assuefatti ad esse e quindi docilmente inclini al “consenso” elettorale ed inesorabilmente piegati alla complicità mistificatoria e violenta: unica alternativa, sul terreno democraticista, si configura l'estraneità e/o ostilità verso il sistema dei partiti. Niente di più.
Considerando la “storia”, frutto di un “disegno razionale”, gli uomini, dopo millenni di adattamento alle forme di vita del capitalismo (ancor prima dell'affermarsi del sistema di produzione industriale del XVIII secolo, prodromi sono le attività dei centri finanziari del Medioevo e del Rinascimento europeo, che lo portarono all’emergere come sistema dominante a partire dal XVI secolo) sono diventati, per dirla con le parole di Umberto Galimberti (rif. a “Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica”, Feltrinelli, 1999; “Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007), funzionari di apparati tecnici o burocratici, i cui valori sono la funzionalità e l'efficienza con cui si devono compiere le azioni descritte e prescritte dall'apparato di appartenenza nella tempistica prevista, in altri termini, dal sistema di produzione e riproduzione della vita.
Un compito immenso, né regionale né continentale, bensì planetario, considerate le vicende storiche alle spalle, irto di difficoltà, di pericoli, di ostacoli e di incognite, eppure portato al successo, quasi senza colpo ferire. Alla “democrazia reale” il sacrifico umano resistenziale ed emancipatorio ha consegnato un'occasione unica, per plasmare la “storia” e servire le popolazioni, che è stata data a poche generazioni di uomini, dopo un itinerario di millenni, eppure ha fallito.
Lo scarno realismo dell'argomentazione porta a concludere che ciascuna generazione ha il suo problema particolare, concludere una guerra, estirpare le discriminazioni, migliorare progressivamente ed irreversibilmente le condizioni di vita, consolidare la dignità umana, esigendo limiti “dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive” pretese senza innescare cambiamenti radicali, considerate oggettive, liberarsi dalle forme di vita dominanti similmente gestite come se fossero ipermercati.
Esigere un sistema politico che conservi il senso della comunità tra gli uomini è oggi fuori dalla portata dal discorso democratico pronunciato dopo i due massacri bellici, fisici e culturali, del Novecento, subito smentito in latitudini non europee. Quel discorso non ha più pregnanza, è un anacronistico, inutile lamento profetico per la generazione attuale che non sa più ascoltare. Lo storytelling della democrazia, non incanta più. La retorica democraticista e la narratologia che ne scaturisce appaiono come obsolescenza dell'organizzazione civile ed istituzionale dei popoli.
Chi ha costruito la caducità della democrazia in Occidente – un albero con radici ammalate - venuta a patti con il capitalismo indefessamente selvaggio, praticato nonostante la legislazione sociale, i diritti civili ed il benessere dinamicizzato (e, proprio per la sua natura negoziabile, cristallizzato in sostanziali diseguaglianze) dalle effimere conquiste salariali, rinculando rispetto all'apertura necessaria di prospettive altre che la storia ha fatto germogliare dal 1917 al 1924 senza repliche universalmente significative, si è assunto la responsabilità di cedere il passo, di deflettere, di cancellare memorie.
È necessario essere capaci di uno sguardo in grado di catturare la vulnerabilità dell'animo umano, in balia di sovrastrutture alienanti, piuttosto che stringerci a coorte, pronti alla morte, è inevitabile considerare l'esperienza democratica un fatto politico “minimo”, “procedurale” (rif. a Norberto Bobbio, “Il Futuro della Democrazia”, Einaudi, 2005 p.4, il quale ammette che “l’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole, primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure”).
Pertanto, si tratta d'assumere (potremmo dire: costruire), abbracciare totalmente il marxismo, potremmo dire da dentro il marxismo, un'autentica prospettiva totalizzante d'adesione sincera ed incondizionata all'obiettivo del comunismo contro un mondo le cui rivoluzioni industriali ed il saggio di profitto hanno fatto intenzionalmente smarrire per sempre la sua essenza umanistica.
Per comprendere la realtà contemporanea ci si deve dotare di un metodo conoscitivo, certo, ma soprattutto di un'articolazione di pensiero risolutivo della crisi di civiltà maturata agli inizi del XXI secolo, di una prassi che sa svincolarsi dai rivoli di sofismi che impediscono ai comportamenti di avere la meglio sulla declamazione di principi morali.

sabato 7 ottobre 2017

Una prospettiva interpretativa dell’indipendenza della Catalogna


Il capitalismo globale pone da tempo [1] la questione della relazione causale tra finanziarizzazione ed interdipendenza subalterna delle economie nazionali ed annientamento delle ultime parvenze della democrazia parlamentare, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati fino all’affermazione del neoliberismo).
Con l’esperienza referendaria catalana (la partecipazione alla consultazione si è attesta sul 42%, su 5,3 milioni di persone aventi diritto: massiccia l’adesione all’opzione indipendentista, a favore della quale si sono pronunciati oltre 2 milioni di elettori, per una percentuale leggermente superiore al 90%; per il ‘no’ si sono invece espressi 176.565 elettori -7,8%-, per quanto ovviamente il fronte anti-indipendentista sia numericamente ben più nutrito e – secondo un sondaggio realizzato a luglio – conti circa il 49% della popolazione; 45.586 sono state le schede bianche e 20.129 i voti nulli) si è giunti ad una fase storica di svolta: quella che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia che fin qui si sono affermate.

Bisogna, conseguentemente, ricordare che il processo d’autodeterminazione di un popolo può avere per fine la modifica della composizione della società internazionale, per costruire un nuovo ente o rafforzare un ente già esistente, ma non ancora dotato di una posizione sufficientemente indipendente. Questa è la chiave di lettura di quanto sta accadendo in Catalogna: non si tratta né di «una messinscena, un ulteriore episodio di una strategia contro la convivenza democratica e la legalità» (M. Rajoy), né solo del protagonismo dei cittadini catalani che «hanno conquistato il diritto ad avere uno Stato indipendente che si costituisca sotto forma di Repubblica» (Presidente della Generalitat C. Puigdemont); trattasi, bensì, di una consultazione referendaria che – anche al di là delle intenzioni dei promotori – può veicolare una chiara, irreversibile rottura con quanto previsto dall’ordinamento e dalla Costituzione spagnoli dello Stato monarchico plurisecolare, e prefigurare elementi di progresso economico, sociale e politico-istituzionale. Se così non fosse – un laboratorio di sperimentazione di nuove istituzionalità popolari e di riorganizzazione solidaristica ed antimercantile della produzione -, se il pronunciamento referendario catalano non alludesse ad una contestuale battaglia contro la ristretta visione nazionale e nazionalistica, la tendenza all’isolamento autarchico avrebbe il sopravvento.

Nell’affermare l’esigenza della Catalogna all’autodeterminazione, il movimento propulsore, per essere internazionalmente efficace, deve rendere evidente che i vincoli caratterizzanti il gruppo sociale indipendentista si esprimano in relazione ad un’autonomia regionale rispetto allo Stato spagnolo che parli lo schietto linguaggio di fuoriuscita dalla logica rivendicazionista identitaria sociopoliticamente compatibile con il capitalismo globale e di sfruttamento territoriale in proprio di benefit economici. Da questo punto di vista, la brutale repressione del gendarme monarchico spagnolo – paradossalmente – è un segnale d’allarme significativo.

Infine, il balbettio formale dell’UE. serve solo a sottolineare come, ai sensi della Costituzione, il referendum non possa considerarsi legale, ribadendo che lo scontro tra Madrid e Barcellona è questione interna alla Spagna e va risolta in linea con l’ordine costituzionale spagnolo; da Bruxelles, la Commissione europea non manca retoricamente ed ambiguamente di evidenziare come oggi più che mai siano necessarie unità e stabilità: serve dialogo, senza ricorrere alla violenza, ma è evidente come l’enfatizzazione conservatrice europea dello status quo spagnolo si configuri come un’ingerenza, interferenza esterna in modo talmente sfacciato da precludere ai catalani l’effettiva partecipazione alla vita politica dei propri territori foriera di decisioni correlate alla volontà popolare.
[1] Cfr. Alfonso Gianni, “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale“, MicroMega, 18 Novembre 2013

domenica 22 gennaio 2017

Conferenza di Roma sul comunismo - 18 / 22 Gennaio 2017

Ognuno degli assi tematici che articolano le 5 giornate di discussione sarà introdotto e informato da una serie di domande. Le domande scandiranno il ritmo tanto delle conferenze quanto dei workshop.

Comunismi

C’è una storia del comunismo, anzi dei comunismi. Comunismi realizzati, partiti comunisti scomparsi o ancora vivi, processi rivoluzionari sconfitti, interrotti. Modificazioni genetiche dei comunismi che hanno contribuito alla temperie del ‘900. Con questa storia, e non solo con l’idea del comunismo, è necessario fare i conti. Per conquistare al comunismo una nuova possibilità.

Critica dell’economia politica 

Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e […]

Chi sono i comunisti?

Chi sono i comunisti oggi? Quale il vettore organizzativo che, per dirla con Marx ed Engels, può favorire la «formazione del proletariato come classe»? Ancora: quale il rapporto tra lotte economiche e lotte politiche? E quali le pretese di una nuova politica economica che metta al centro il Comune? Un’indagine a tutto campo sui processi […] 

Comunismo del sensibile 

Ciò che è in primo luogo Comune è l’«Essere del sensibile». Sensibile nel quale siamo immersi; sensibile della nostra prassi; sensibile delle relazioni, nelle quali siamo sempre gettati. Riflettere sul sensibile significherà anche e soprattutto mettere in tensione il Comune del comunismo con l’estetica, con la costruzione del sensibile, dei suoi orientamenti. Ancora: sarà un […]

Poteri comunisti

Si chiedeva Foucault alla fine degli anni ’70: è possibile una «governamentalità socialista»? Oggi che la governance globale definisce una nuova articolazione dello Stato e delle sue funzioni, la domanda di Foucault si fa non solo attuale ma urgente. Altrettanto: è possibile immaginare o costruire istituzioni che non convergono nella macchina statale? L’ipotesi federalista, il […]

Mostra




 

giovedì 29 dicembre 2016

Il regime del salario


Prefazione Il regime del salario 
Pubblicato Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
***
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
http://www.asterios.it/
 La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO



sabato 9 aprile 2016

Generazione carcere: la gioventù egiziana dalle proteste alla prigione ... ed altro

È il titolo forte, quasi lancinante, di un rapporto pubblicato nel giugno 2015 da Amnesty International, per denunciare la repressione del dissenso nel nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi . Sono le storie di 14 giovani, attivisti per i diritti umani, studenti, blogger, arrestati assieme ad altre migliaia di persone per la loro partecipazione alle proteste, mentre le autorità giustificavano il giro di vite sottolineando la necessità di garantire sicurezza e stabilità al paese. 
Era il 25 gennaio 2011 quando, per la prima volta, l’avanguardia di Tahrir occupava la piazza fino a farla straripare di gente, sognando un Egitto finalmente libero dai trentennali giochi di potere della cricca mubarakiana. Tutto era cominciato nel centro tunisino di Sidi Bouzid, nel dicembre precedente, quando con un gesto estremo di protesta il venditore di frutta Mohamed Bouazizi aveva risposto alle angherie subite dalle autorità dandosi fuoco. Lì avevano iniziato a germogliare i gelsomini della rivoluzione, che avrebbero portato in meno di un mese alla caduta del presidente Ben Ali. I venti delle primavere arabe superarono rapidamente i confini tunisini, prendendo a soffiare impetuosi sulla cruciale regione geopolitica del Grande Medio Oriente. Quella di Mubarak fu la seconda dittatura a capitolare, aprendo la strada a un futuro ricco di incognite ma altrettanto denso delle speranze di tanti egiziani. Nel giugno del 2012, dopo oltre un anno di reggenza del feldmaresciallo Tantawi, la vittoria alle elezioni presidenziali di Mohammed Mursi, esponente del partito Giustizia e libertà, emanazione diretta della Fratellanza musulmana. È una parentesi che dura solo un anno: la piazza si ribella ai decreti dal sapore neofaraonico emanati dal capo dello Stato e la protesta monta, fino all’ultimatum dell’esercito. Il 3 luglio Mursi viene deposto: non un golpe, dicono i militari, ma una risposta alle rivendicazioni popolari. La transizione è affidata al presidente della Corte costituzionale Adly Mansour e nel frattempo comincia a imporsi la figura del generale al-Sisi, che smette la divisa e - come prevedibile - si candida alle elezioni presidenziali del maggio 2014, stravincendole con quasi il 97% dei consensi.
Oggi, a più di 5 anni da quel 25 gennaio 2011, il sogno di un futuro diverso coltivato dai manifestanti d’Egitto al grido di ‘pane, libertà e giustizia sociale’, resta un ricordo sbiadito. E, denuncia Amnesty, la ‘generazione della protesta’ del 2011 è diventata nel 2015 una ‘generazione in galera’. Appartiene a questa gioventù Alaa Abdel Fattah, attivista e blogger, condannato nel febbraio 2015 a 5 anni di reclusione per aver violato la legge che non consente manifestazioni senza autorizzazione; ne fa parte l’avvocatessa per i diritti umani Mahienour el-Masry, arrestata con l’accusa di aver attaccato la stazione di polizia di El-Raml nel marzo del 2013; ne è invece da poco uscita Yara Sallam, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, condannata per protesta non autorizzata e poi graziata nel settembre 2015 dal presidente al-Sisi.
Per il quinto anniversario della Rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, il governo era stato chiaro, ricorrendo addirittura a motivazioni religiose per spiegare la sua posizione: era necessario non cedere alle sirene della protesta che riecheggiavano sui social media, perché trascinare il paese nel caos e nella violenza ‘va contro i principi della sharia’. Nel frattempo, gli amministratori di alcune pagine Facebook erano già stati arrestati con l’accusa di aizzare contro le istituzioni dello Stato e di far parte della Fratellanza musulmana, tornata nuovamente fuorilegge. Il giorno di quel quinto anniversario ha segnato anche l’Italia, perché al Cairo si perdevano le tracce del giovane ricercatore Giulio Regeni, dottorando all’università di Cambridge e impegnato nello studio dei sindacati indipendenti in Egitto. Il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato il 3 febbraio, portando con sé mille interrogativi per quegli evidenti segni di tortura che hanno subito fatto affiorare il più terribile dei sospetti, quello di un coinvolgimento dei servizi di sicurezza. Le autorità egiziane hanno promesso di fare piena luce sul caso e assicurato la loro collaborazione agli investigatori italiani, ma le contrastanti versioni sull’accaduto che giorno dopo giorno arrivano dalle rive del Nilo appaiono immediatamente poco credibili, dalla notizia di un incidente stradale, all’ipotesi di un omicidio collegato al mondo della droga, alle voci di un presunto delitto a sfondo sessuale. Poi ricompare la pista della criminalità comune, vengono mostrate le fotografie dei documenti di Giulio, che sarebbe stato assassinato da una banda specializzata nel rapimento di cittadini stranieri i cui membri - ovviamente uccisi - erano soliti travestirsi da poliziotti. Anche questa tesi tuttavia non regge: il borsone rosso mostrato negli scatti non sarebbe infatti del ricercatore italiano; decisamente improbabile poi che dei criminali comuni conservino per mesi i documenti di una loro vittima. Il governo italiano, lasciando trasparire irritazione, mantiene ferma la sua posizione e ribadisce che non accetterà verità di comodo; da parte sua Il Cairo fa sapere che il caso non è chiuso e le indagini proseguono. In attesa dell’incontro a Roma tra gli investigatori italiani e i loro colleghi egiziani – fonti parlano di un dossier di 2000 pagine – il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha rimarcato che, senza un vero cambio di marcia, l’Italia è pronta a reagire con misure tempestive e proporzionate. Parole che, ovviamente, Il Cairo non ha gradito.
L’Egitto continua a essere un attore di grande rilevanza nello scacchiere del Grande Medio Oriente, oggi in particolar modo per la sua prossimità al magmatico fronte libico e per la lotta contro un terrorismo che nell’incontrollato Sinai – con l’attentato all’aereo russo dell’ottobre 2015 – ha dimostrato di poter colpire con drammatica brutalità. Alle dinamiche geopolitiche si affiancano poi importanti interessi economici, che coinvolgono le principali potenze occidentali e anche l’Italia, peraltro non solo attraverso l’ENI.
Per gli eredi dei faraoni il momento è delicato, con una crescita economica in fase di rallentamento e carenti riserve di valuta estera. Le difficoltà hanno determinato un calo della popolarità del presidente, ma secondo gli analisti al-Sisi può per il momento restare tranquillo sia perché – come ha ricordato Eric Trager su Foreign Policy – dopo anni convulsi gli egiziani sembrano poco propensi a nuove sollevazioni, sia perché – hanno evidenziato Marina e David Ottaway per Foreign Affairs – il capo dello Stato controlla saldamente le istituzioni del paese.
Sul caso Regeni sarà necessario fare chiarezza nel più breve tempo possibile, senza dimenticare – riportando le parole di una risoluzione comune votata dal Parlamento europeo nel mese di marzo – che purtroppo non si tratta di un ‘evento isolato, ma si colloca in un contesto di torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto l’Egitto negli ultimi anni’.
C’è ancora troppo buio lungo le sponde del Nilo.

03 dicembre 2012

L’Egitto: un potenziale perno diplomatico negli equilibri geopolitici medio orientali

di Vincenzo Piglionica

Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe” (l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella situazione nazionale dei Paesi coinvolti.  Il costante aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli elefantiaci apparati burocratici di regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni, producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.

28 giugno 2012

La presidenza dell’Egitto ai Fratelli musulmani: una vittoria a metà

di Anthony Santilli

Mohammed Mursi, il candidato dei Fratelli musulmani, è il primo Presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto post-Mubarak. Questo è quanto comunicato da Faruq Sultan, presidente della Commissione elettorale, che domenica scorsa [24 giugno ndr] ha finalmente diramato i risultati, ad una settimana dalla conclusione del ballottaggio. A detta della stessa Commissione, Mursi ha vinto la corsa alla presidenza aggiudicandosi 13.2 milioni di voti, ovvero il 51% dei consensi. Il suo rivale, Ahmed Shafiq, ne ha invece ottenuti 12.3 milioni. Circa 800 mila schede sono state invalidate.

Una settimana piena di tensioni
A causa dei continui rinvii da parte della Commissione, tutta la settimana è trascorsa in Egitto nell’attesa dei risultati ufficiali, con i due candidati che facevano a gara nel dichiarare, cifre alla mano, di aver ottenuto il maggior numero di voti, accusandosi reciprocamente di brogli.
Parallelamente a questa guerra dei numeri, le piazze egiziane si sono nuovamente riempite dei sostenitori dei due candidati. Durante la settimana la preponderanza delle manifestazioni a sostegno del candidato dei Fratelli musulmani è stata costante, anche grazie all’affluenza di quanti percepivano la possibile vittoria di Shafiq come un ritorno al potere del vecchio regime. L’ultimo evento di questa battaglia a distanza si è svolto sabato scorso [23 giugno ndr], quando migliaia di sostenitori di Ahmed Shafiq hanno manifestato contro i Fratelli musulmani ed il loro candidato, occupando alcune delle più importanti strade di Nasr City, al Cairo. A poche centinaia di metri di distanza, un’imponente manifestazione aveva luogo nella centrale Piazza Tahrir, tradizionale epicentro delle proteste contro il regime, animata principalmente dai sostenitori degli Ikhwan.


Una vittoria a metà
La vittoria di Mursi ribadisce quello che le elezioni parlamentari di qualche mese fa avevano già annunciato, ovvero che i Fratelli musulmani rimangono la forza politica meglio organizzata e maggiormente radicata nel paese.
Non solo. La sua vittoria conferma allo stesso tempo la notevole capacità di negoziazione del movimento con chi detiene il potere. Questa abilità ha permesso alla Fratellanza di sopravvivere politicamente anche nei momenti di più dura repressione, come nel secondo quinquennio di Sadat, o nell’ultimo decennio del regime di Mubarak. Oggi come in passato, accanto alle imponenti manifestazioni di piazza promosse dalla struttura organizzativa dei Fratelli musulmani, i negoziati con le forze militari si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Numerosi quotidiani arabi hanno riportato i dettagli degli incontri prodottisi all’indomani della tornata elettorale; tra i più risolutivi l’incontro avvenuto tra i generali del Consiglio Supremo delle Forze armate (SCAF) e il leader della Fratellanza Khairat al-Shatir, per la definizione dei poteri del nuovo Presidente.
A seguito dei provvedimenti presi dalle alte sfere militari negli ultimi giorni, ancora non è chiaro in effetti che ruolo potrà svolgere il nuovo Presidente egiziano nei prossimi mesi. Mursi si trova infatti privo del sostegno del Parlamento, disciolto dopo che lo scorso 14 giugno la Corte costituzionale suprema ha dichiarato incostituzionale alcune parti della legge attraverso la quale si sono regolamentate le elezioni parlamentari. Tre giorni dopo lo SCAF ha inoltre pubblicato sulla Gazzetta ufficiale egiziana una Dichiarazione di modifica del testo costituzionale che gli stessi militari avevano promulgato lo scorso 30 marzo 2011. Con tale dichiarazione sono stati ulteriormente limitati i poteri del Presidente egiziano, a tutto vantaggio del Consiglio Supremo delle forze armate, che deterrà il potere legislativo fino alla formazione di un nuovo Parlamento; secondo questa dichiarazione lo SCAF avrebbe inoltre il potere di nominare una nuova Assembla costituente qualora quella esistente “incontri degli ostacoli che possano impedirne il regolare svolgimento dei lavori”. Come ha affermato Ahmed Raghib dell’Hisham Mubarak Law Center lo scorso 19 giugno sulle pagine del quotidiano al-Shuruq, con questo nuovo emendamento il Consiglio Supremo delle forze armate è oramai “il vero capo dell’Egitto”.
La strategia dello SCAF è sin troppo chiara. Sarà da vedere invece nelle prossime settimane quale atteggiamento adotteranno i Fratelli musulmani e soprattutto se i negoziati degli ultimi giorni abbiano realmente definito i limiti dell’azione che il movimento potrà svolgere sullo scenario politico egiziano.
Un primo indizio delle prossime mosse sarà dato dall’atteggiamento che gli Ikhwan adotteranno nei riguardi dell’avvenuto scioglimento del Parlamento egiziano. Sabato 16 giugno il Partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli musulmani) aveva infatti rilasciato un comunicato nel quale rifiutava categoricamente la decisione della Corte Suprema di invalidare le elezioni parlamentari. Ancora mercoledì scorso [20 giugno ndr] l’omonimo quotidiano del partito insisteva nel diramare una road map per i prossimi mesi, nel caso di vittoria del proprio candidato. Tra i punti salienti vi era il “ripristino del disciolto Parlamento”.
L’atteggiamento del movimento nelle prossime ore potrà essere quindi rivelatore. Certo è che la vittoria di Mohammed Mursi, per quanto ufficiale, non sembra sancire la fine del tribolato processo di transizione egiziano.

06 giugno 2012

Le complicate elezioni in Egitto

di Bruna Soravia

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto, che si è tenuto il 23 e 24 maggio scorsi, ha condotto a un risultato largamente inatteso da chi pronosticava la vittoria degli esponenti del rinnovamento politico e una fluida transizione verso la normalizzazione. Il testa a testa del candidato islamista conservatore Mohamed Mursi e di Ahmed Shafiq, militare e uomo di Mubarak – insieme al terzo posto di Hamdin
Sabahi, oppositore del regime in nome del ritorno all’ortodossia rivoluzionaria nasserista – ha invece riconfermato la polarizzazione dell’opinione pubblica fra il blocco islamista e la fedeltà al passato regime, pur tenendo conto della debole percentuale di votanti (il 46,42% degli aventi diritto) e delle inevitabili denunzie di brogli a favore di Shafiq, sostenute soprattutto da Sabahi.
La tenuta del partito sommerso dei sostenitori e nostalgici del regime è probabilmente il dato più sorprendente, soprattutto perché ha interessato alcuni dei principali distretti elettorali che avevano garantito la vittoria degli islamisti alle elezioni parlamentari. La stretta disciplina della Fratellanza musulmana e la sua capillare propaganda nel paese hanno comunque garantito la scelta di Mursi (24,3% dei voti), designato dall’organizzazione dopo che la Commissione elettorale aveva, con una decisione assai controversa, estromesso Khairat El-Shater, miliardario islamista e candidato ben più popolare, poche settimane prima della consultazione. Il successo di Shafiq (23,3%) rivela invece la rapida ripresa dell’apparato del partito di regime, il Partito Nazionale Democratico, scomparso dalla ribalta dopo la rivolta del 2011 ma ancora radicato nella struttura economica e nei media nazionali. Shafiq, l’ultimo primo ministro designato da Mubarak prima delle dimissioni, è infatti emerso a sorpresa nelle ultime fasi della campagna, dopo essere stato riammesso alla competizione nonostante la legge appositamente approvata dal nuovo parlamento per impedire ai membri del regime di partecipare. Quasi ignorato dagli analisti occidentali e dai sondaggi pre-elettorali, egli ha rapidamente ricostruito intorno a sé le reti di supporto del regime, proponendo una piattaforma basata sul ripristino della legalità, dell’ordine e della sicurezza – richieste particolarmente sentite nel paese, dove violenze e rapine sono oggi in aumento – e sulla ripresa economica, mentre Mursi fa appello, ma solo oggi, alla riconciliazione con le forze politiche laiche e con la minoranza cristiana copta, arrivando a prospettare la possibilità che il vice-presidente non sia un islamista. Proprio il voto copto (i copti compongono il 12% della popolazione egiziana) ha probabilmente influito sul successo di Shafiq. Inizialmente convergenti su ‘Amr Musa, l’ex-presidente della Lega Araba dato come favorito fra i candidati laici, i voti della comunità hanno infatti premiato Shafiq dopo che Musa era stato accusato, in uno degli ultimi colpi di scena di questa drammatica campagna elettorale, di ricercare un accordo con i partiti islamisti.
La cattura dei voti andati ad altri candidati e la mobilitazione degli astenuti è oggi il principale obiettivo della campagna, prima del voto finale del 16 e 17 giugno, e non appare un obiettivo facile. Tanto Musa che Sabahi hanno dichiarato di non voler sostenere né gli islamisti né i rappresentanti del regime, ma è probabile che i voti del primo finiscano a Shafiq e quelli del secondo – almeno in parte – a Mursi. Il candidato islamista ha intanto ricevuto inaspettato sostegno da Alaa al-Aswany, il più famoso scrittore egiziano contemporaneo, già sostenitore di El-Baradei, il candidato liberale ritiratosi all’inizio della campagna per motivi tuttora poco chiari, ma è prevedibile che il voto liberale conterà poco nel risultato finale. Anche la sentenza che ha condannato all’ergastolo il 2 giugno il ra’is morente Hosni Mubarak avrà sulla campagna in corso effetti che è ancora difficile prevedere. Quanto agli alleati occidentali dell’Egitto, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton ha ufficialmente dichiarato che l’amministrazione Obama accetterà qualunque governo eletto democraticamente.
E’ prevedibile che un risultato a favore di Shafiq possa condurre ad una impasse politica capace di paralizzare il paese e di accentuare le divisioni, poiché il parlamento eletto (al 70% islamista) e il presidente dovranno riscrivere la Costituzione del paese, oggi retto, in modo confuso e controverso, da una dichiarazione costituzionale provvisoria emanata dallo SCAF (il Consiglio supremo delle forze armate). L’esercito, che gestisce non solo la difesa, ma anche la politica estera e l’economia nazionale, pretende che la nuova costituzione salvaguardi le sue prerogative, in particolare la segretezza del bilancio militare e l’ultima parola in caso di dichiarazione di guerra. Quest’ultima clausola è indirettamente volta a tutelare il trattato di pace con Israele, condizione degli ingenti aiuti statunitensi all’Egitto, la cui revisione è stata più volte minacciata dal blocco islamista mentre Shafiq si è espresso a favore della sua conservazione.
Il perdurante potere dei militari è oggi il principale ostacolo alla transizione democratica in Egitto e il limite di ogni suo passo in avanti. Appare per questo tanto più incoraggiante la notizia che il 31 maggio è definitivamente decaduta la legislazione di emergenza, ininterrottamente in vigore in Egitto dal 1981, dopo l’assassinio di Sadat, e con essa un importante strumento di repressione e di controllo della popolazione nelle mani dei militari.

04 maggio 2012

Egitto. I risvolti politici della cessazione delle forniture di gas a Israele

di Anthony Santilli

Mentre in Egitto il processo di transizione democratica avanza attraverso un tortuoso percorso ad ostacoli, nuovi scenari si profilano anche in riferimento alla posizione del paese nel più ampio scacchiere mediorientale.
Domenica scorsa [22 aprile NdR] l’esportazione di gas naturale egiziano verso Israele è cessata ufficialmente. Questa si fondava su di un accordo del 2005 quando, attraverso un memorandum d’intesa, l’Egitto dell’allora presidente Mubarak si impegnò a fornire a Tel Aviv circa 1.7 bilioni di metri cubi annui di gas, per una durata variabile tra i quindici e i venti anni. Numerosi analisti evidenziarono all’epoca come il prezzo concordato per l’esportazione del gas egiziano verso Israele fosse nettamente inferiore a quello di mercato. Negli anni successivi, l’Egitto rinegoziò molte forniture di gas, ad eccezione di quella siglata con Israele.
L’impopolarità di questo accordo in Egitto è a tutti nota. La crisi economica che il sistema-paese sta attraversando da anni e il crescente disappunto per l’atteggiamento israeliano verso il popolo palestinese rappresentano, agli occhi dell’opinione pubblica egiziana, delle ragioni più che valide per rivedere un accordo al ribasso, simbolo della complicità egiziana con lo scomodo vicino.
Ecco perché, sin dal 2008, esiste nel paese una campagna popolare contro l’esportazione di gas verso Israele, e perché, dallo scoppio della rivolta del lontano 25 gennaio 2011, si contano ben 14 attacchi contro il gasdotto che dal Sinai arriva fino ai suoi territori.
Sulla stampa egiziana la rottura del contratto - ufficialmente rescisso perché dal 2008 Israele non avrebbe corrisposto l’importo pattuito - ha assunto sin da subito connotazioni politiche.
Quotidiani filo-governativi come al-Jumhuriyya (lett. “La Repubblica”) approfittavano martedì scorso dell’anniversario del ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Sinai per istituire un parallelismo, tra la funzione “emancipatrice” esercitata a loro dire dai militari in quel lontano 25 aprile del 1982 e l’attuale rescissione attribuita, a loro dire, al risoluto intervento del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF). Un parallelismo a dir poco forzato, se si pensa alla vera storia di quel lontano episodio, nel quale le alte sfere militari egiziane svolsero un ruolo a dir poco marginale.
Molte testate indipendenti pongono l’accento invece sul carattere propagandistico della decisione assunta nei giorni scorsi. Citando un’anonima “fonte governativa”, il quotidiano al-Shuruq ha sottolineato ad esempio come il provvedimento di cessazione dell’esportazione di gas sia stato adoperato dallo SCAF come uno strumento per invertire quella crisi di consensi verso i militari che da mesi sembra irreversibile. Ecco quindi spiegato, sempre secondo al-Shuruq, perché il provvedimento sia stato adottato proprio alla vigilia del succitato anniversario.
Una considerazione condivisa anche da Ibrahim Eissa che tuttavia, in un lungo editoriale dal titolo “I pericoli di una grande decisione” apparso sul quotidiano indipendente al-Tahrir (lett. “La Liberazione”), si chiede come mai, se davvero trattasi di questione politica, l’esercito o il governo egiziano non lo abbiano rivendicato in maniera più esplicita.
In realtà, alcuni membri del gabinetto ministeriale si sono esposti con dichiarazioni alquanto esplicite, seppur contraddittorie. Già lunedì scorso [23 aprile 2012 NdR] il quotidiano di stato al-Ahram ha dato risalto alle dichiarazioni del Ministro dell’Energia Hassan Yunis, secondo cui il gas sino ad allora esportato verso Israele verrà “destinato agli impianti elettrici egiziani” perché “noi ne abbiamo più diritto di loro”. Sulle pagine di al-Tahrir leggiamo invece le dichiarazioni del Ministro per la cooperazione internazionale Fayza Abu al-Naga, che apre ad una inedita fase di esportazione di gas verso Tel Aviv, seppur secondo nuove (e più alte) tariffe.
Affermazioni discordanti, che rivelano tuttavia come il governo stia tentando di giocare la carta del “patriottismo energetico” per risalire, come i militari, nei sondaggi di gradimento.
Più equilibrata l’analisi proposta da ‘Abd al-Rahman Hussein dalle pagine del quotidiano indipendente al-Masri al-yawm (lett. “L’Egitto oggi”). L’autore, pur riconoscendo che la rescissione del contratto è stata provocata da fattori prettamente commerciali, non nasconde l’esistenza di implicazioni politiche, manifestatesi a suo dire nelle modalità e nella tempistica adottate per affrontare la questione. Citando l’opinione di Nabil ‘Abd al-Fatah, analista del Centro studi politici e strategici del gruppo editoriale al-Ahram, l’autore ricorda come la rescissione dell’accordo “avrà effetti importanti anche in politica interna, poiché si inserisce nello scontro tra lo SCAF e le altre forze politiche egiziane, in particolare quelle islamiste”.
È evidente oramai come la questione dei rapporti israelo-egiziani sia parte integrante della battaglia fra le differenti forze politiche nel paese. Sarà da capire nelle prossime settimane se, al di là della sua attuale strumentalizzazione, si arriverà ad una più generale ridefinizione degli Accordi di Camp David.

09 luglio 2013

Perché al Nour è così importante in Egitto?

di Jean-Marie Rossi

Alle quattro di mattina di lunedì 8 luglio l’esercito egiziano ha sparato sulla folla che stava manifestando di fronte alla sede della Guardia Repubblicana al Cairo, uccidendo 51 persone e ferendone diverse centinaia. Molti manifestanti si erano riuniti per protestare contro il colpo di stato dell'esercito ai danni del deposto presidente Mohammed Mursi, che si crede sia trattenuto proprio presso la sede della Guardia Repubblicana. Non è molto chiara la dinamica di quello che è successo - manifestanti ed esercito hanno diffuso dei video che mostrano diverse fasi della sparatoria, ma che non chiariscono le responsabilità effettive - ma una delle reazioni più significative agli eventi di domenica notte è stata quella del partito salafita egiziano Al Nour: i suoi membri prima hanno comunicato di volersi ritirare dalle consultazioni presidenziali per la formazione del nuovo governo, poi hanno "ammorbidito" le loro posizioni, dicendo al quotidiano del Qatar Al-Jazeera che in realtà la loro era una sospensione, più che un ritiro.
Erano state proprio le riserve di Al Nour, secondo più importante partito islamista dopo i Fratelli Musulmani, a bloccare la nomina di Mohamed El Baradei a primo ministro - e poi a vice primo ministro - del governo ad interim che i militari stanno cercando di formare per guidare il paese nel periodo di transizione fino alle prossime elezioni. Dopo il veto di Al Nour, il nuovo presidente dell'Egitto, Adli Mansour, aveva comunicato alla stampa che non c’era ancora certezza riguardo alle diverse nomine e che i negoziati tra le varie forze politiche sarebbero dovuti continuare.
Il partito Al Nour, visto fino a due anni fa non tanto come una formazione politica quanto come un gruppo di estremisti islamici con poche possibilità di ottenere ampio consenso, è riuscito a crearsi un certo spazio politico dopo avere scaricato Mursi durante il colpo di stato dei militari dei giorni scorsi. Al Nour è stato l’unico partito islamista che ha appoggiato il colpo di stato contro Mursi, sebbene fosse molto legato ai Fratelli Musulmani. Inoltre, la sua presenza a fianco dei militari ha dato il segnale agli elettori egiziani che la mossa dell'esercito non era rivolta contro l’Islam, o i partiti islamisti al potere.
Con il passare dei giorni, Al Nour ha acquisito un ruolo sempre più necessario nelle negoziazioni per la formazione del nuovo governo. Molti esperti hanno scritto che non è possibile, ad oggi, pensare di formare un governo ad interim nel nuovo Egitto post-Mursi senza che questo ottenga l'appoggio e il sostegno dei salafiti di Al Nour. Il problema, stanno dicendo alcuni leader più laici dell'Egitto, è che i salafiti stanno imponendo delle condizioni sempre più stringenti: hanno rifiutato le candidature del primo ministro e del vice primo ministro avanzate dall'esercito e dalle altre opposizioni, e mantengono una posizione di intransigenza rispetto alla presenza della religione islamica nell'assetto politico e istituzionale del paese.
Le fazioni politiche più laiche dell'Egitto si stanno mostrando sempre più preoccupate sulle richieste di Al Nour, soprattutto dopo le dichiarazioni di lunedì della loro sospensione nelle negoziazioni per il nuovo governo. Samer Shehata, politologo all’Università dell’Oklahoma esperto di islamismo, ha detto che gli ultraconservatori di Al Nour stanno sfruttando le fratture che si sono create in questi giorni all'interno del movimento dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi due anni Al Nour ha fatto una grande campagna per rafforzare i princìpi islamici all'interno delle istituzioni dello stato: ad esempio, si è battuto per inserire nella Costituzione egiziana non solo un blando riconoscimento ai princìpi dell’islamismo, ma una vera e propria ristrutturazione della carta costituente in favore della legge islamica. Ora, con il ruolo sempre più decisivo nel futuro dell'Egitto, Al Nour potrebbe volere - e potere - avanzare delle richieste a cui gli alleati potrebbero non poter dire di no. E questo vale sia per la Costituzione, sia per la nomina di personalità non laiche nei posti che contano del nuovo governo ad interim dell'Egitto.


05 marzo 2012

L’Egitto e l’Occidente, un rapporto che muta?

In Egitto la difficile transizione verso la democrazia e verso un governo civile inizia ad avere dei punti fermi, delle date stabilite: le prime elezioni presidenziali del dopo Mubā'rak si terranno il 23 e 24 maggio e il vincitore, che con ogni probabilità avrà un ruolo fondamentale nella definizione della politica estera, sarà annunciato il 21 giugno. Il percorso è sempre quello immaginato un anno fa: elezioni parlamentari, nuova costituzione, elezioni presidenziali, ritorno dei militari nelle caserme e governo civile. Ma ogni nuovo passaggio verso il nuovo assetto si realizza attraverso rotture e conflitti, non gradualmente; le proteste di piazza nel novembre 2011, la frattura tra il movimento democratico e il governo militare, la netta vittoria dei Fratelli Musulmani alle elezioni. L’Occidente segue questo percorso con preoccupazione; la contraddizione è evidente, poiché Mubā'rak era un fedele alleato mentre le prospettive future restano incerte. I segnali non sono tranquillizzanti per i tradizionali alleati dell’Egitto: i Fratelli Musulmani sono critici nei confronti della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e restano istintivamente ostili a uno stile di vita e a un modello di società che sentono estranei. Le recenti polemiche sulle ‘scuse’ per i crimini del colonialismo, rilanciate dall’Università sunnita Al-Azhar, se sono prive di concrete conseguenze, rimangono un indicatore significativo dell’umore della società egiziana. Naturalmente la questione di Israele rimane il nodo cruciale; è probabile che alle radicali dichiarazioni di principio corrisponda il tradizionale pragmatismo dei Fratelli Musulmani. Nondimeno molti osservatori temono passi indietro rispetto alle prospettive di una pace duratura nell’area. Anche la situazione economica sembra instabile; la visita in Egitto nel gennaio 2012 del ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi di Sant'Agata ha messo al centro più i rapporti economici bilaterali che le considerazioni di geopolitica ma anche da questo punto di vista, permangono difficoltà. L’instabilità politica ha danneggiato il turismo e il sabotaggio dei gasdotti, attribuito ai beduini del Sinai, rischia di bloccare una delle più importanti risorse economiche del paese.

18 luglio 2013

Tre possibili scenari per la crisi in Egitto

di Niccolò De Scalzi

In Egitto, dopo il colpo di stato che lo scorso 3 luglio ha deposto il presidente Morsi, continuano i disordini e le proteste di piazza. Lo scorso lunedì ci sono stati altri scontri fuori dalla Moschea di al Adawija e nei pressi dell’Università del Cairo tra sostenitori dei Fratelli Musulmani e l’esercito ora al potere. Secondo fonti del ministero della salute egiziano, riportate dal quotidiano arabo Ahramonline, a seguito di un lancio di lacrimogeni e pietre nella notte tra lunedì e martedì vi sarebbero stati 7 morti e oltre 260 feriti. Le proteste della Fratellanza Musulmana sono iniziate per le dichiarazioni del vicesegretario di stato americano William Burns che, dopo aver incontrato nella giornata il presidente ad interim Adli Mansour, il primo ministro Hazem al-Beblawi e il generale Al Sisi, capo dell’esercito che ha deposto il leader dei Fratelli Musulmani Morsi, ha parlato di una seconda possibilità per la democrazia egiziana.
Domenica 14 luglio il New York Times ha riportato la notizia secondo cui il nuovo governo ha congelato i beni, bloccandone l’accesso, a 14 imprenditori e uomini influenti molto vicini ai Fratelli Musulmani. Tra le vittime delle misure sanzionatorie vi sarebbe anche Khairat el-Shater, un miliardario egiziano considerato la “mente finanziaria” dei Fratelli musulmani. Il governo ha difeso le misure sanzionatorie, parlando di una manovra necessaria per costringere i Fratelli Musulmani a sedersi al tavolo delle trattative con i militari e definire una road map condivisa per far uscire il paese fuori dalla crisi.
Secondo le dichiarazioni ufficiali del nuovo presidente ad interim Mansour entro una settimana circa dovrebbe essere nominata una commissione che si occuperà di preparare le proposte per emendare l’attuale costituzione che è stata sospesa al momento della deposizione di Morsi. Le modifiche dovranno essere ratificate da un successivo referendum che si terrà entro 4 mesi. Solo dopo il referendum si terranno, entro il febbraio 2014 le elezioni parlamentari e subito dopo le nuove elezioni presidenziali.

L’importanza dei militari. Il cammino di transizione è osservato con apprensione dagli Stati Uniti, paese che ogni anno elargisce all’Egitto circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti economici in cambio di garanzie di stabilità politica e il rispetto degli accordi di Camp David del 1978. Una parte consistente di questi aiuti economici, dal 1979, finisce nelle mani dei militari tramite il programma statunitense “Foreign Military Financing” (FMF).  Gli aiuti all’Egitto sono ripartiti con Israele (l’altro paese assieme agli Stati Uniti che ha firmato gli accordi del 1978) secondo proporzioni di 3:2. Su 100 milioni erogati dagli Stati Uniti, 60 vanno a Israele e 40 all’Egitto, e ad ogni misura di sostegno a un paese corrispondono precise garanzie. Dal 1979 ad oggi gli aiuti militari sono andati aumentando di due milioni l’anno ogni anno circa. Questi aiuti vengono indirizzati al  ”Supreme Council of the Armed Forces”  egiziano (SCAF), l’organo più importante della catena di comando militare che oggi è tornata al potere.
Nel dicembre 2011, a seguito dell’arresto di 43 operatori di ONG statunitensi attive in Egitto, una grave crisi diplomatica tra Stati Uniti e Egitto sembrò poter interrompere il flusso monetario. Tra gli arrestati c’era anche Sam LaHood, figlio dell’ex ministro dei trasporti americano e Morsi si era trovato sospeso tra le pressioni dei militari per appianare la crisi con gli Stati Uniti e non interrompere gli aiuti e i conservatori salafiti che spingevano per alzare ancora di più i toni con l’amministrazione americana a costo di interrompere le sovvenzioni americane. La vicenda si è conclusa lo scorso 4 giugno con la condanna da parte di una corte egiziana dei 43 lavoratori alla prigione, anche se i condannati hanno già abbandonato il paese.
Secondo l’analista statunitense Ian Bremmer, il potere dei militari non è stato mai realmente scalfito dai Fratelli Musulamani, se si esclude la rimozione del potentissimo ex capo delle forze armate Mohammed Tantawi da parte di Morsi, nell’agosto del 2012. Mentre molti analisti sul mensile americano Foreign Policy si chiedono se quello del 3 luglio scorso possa considerarsi un colpo di stato, secondo Bremmer è più corretto chiedersi se quella che ha portato al potere Morsi è stata davvero una rivoluzione, dato che il potere della casta militare non è mai stato realmente intaccato.

Tre scenari per il futuro. Secondo Bloomberg il futuro dell’Egitto dipenderà molto dalle prossime mosse dei militari guidati dal generale al Sisi e dalle reazioni che seguiranno soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani. Il primo scenario, il più ottimista, prevede che i militari assumano un ruolo più defilato da qui alle prossime elezioni, candidando un politico che non sembri troppo un “fantoccio” nelle loro mani. Le elezioni, secondo questa previsione, dovrebbero concludersi con una sconfitta dei Fratelli Musulmani senza ripercussioni violente. La seconda ipotesi è che l’esercito egiziano decida di ripetere un’esperienza analoga a quella sperimentata in Turchia nel 1997, quando un gruppo di generali inviarono un memorandum al primo ministro Necmettin Erbakan intimandogli le dimissioni. Erbakan fu arrestato e il partito islamista Welfare Party fu chiuso favorendo l’ascesa di Recep Tayyip Erdoğan, attuale primo ministro turco. Non vi fu alcun carro armato nelle strade e gli stessi generali favorirono la transizione dei voti islamisti del Welfare Party verso nuovi soggetti politici come il Partito per la Giuistizia e lo Sviluppo dello stesso Erdogan. Un modello di transizione politica passata alla storia come “colpo di stato post-moderno“. La terza possibilità è che l’esercito egiziano continui a considerare i sostenitori di Morsi e dei Fratelli Musulmani come degli insorti, creando così le condizioni per uno scenario da guerra civile sul modello di quella scoppiata in Algeria dopo il colpo di stato del 1992 con cui i militari deposero il partito islamista che aveva appena vinto le elezioni.

Troppo grande per fallire. La stabilità dell’Egitto non interessa solo gli Stati Uniti per cui Il Cairo rappresenta un paese chiave per la sicurezza in Medio Oriente, ma anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi che hanno recentemente inviato 8 miliardi di aiuti dopo la presa del potere da parte dei militari, una chiara manifestazione di fiducia nei confronti del ruolo assunto dai militari. Barack Obama fin dall’inizio della crisi si è detto “molto turbato” dai disordini, ma allo stesso tempo ha chiesto ai militari un ritorno quanto più rapido a libere elezioni senza l’esclusione di alcuna componente politica dal voto. Il vero argine ad una svolta autoritaria da parte dei militari egiziani è rappresentato, secondo Bremmer, più che dai Fratelli Musulmani, dalla presenza di una componente di popolazione civile attiva, influente, poco disposta a farsi mettere a tacere da un giro di vite degli uomini di al Sisi.

FONTE: Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali
© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata