giovedì 25 dicembre 2014

L'Internazionale

Guarda SCENARI GRECI Στην Αθήνα, τον Δεκέμβριο 2014. Κάποιοι πρωταγωνιστές της ελληνικής πολιτικής σκηνής δίνουν συνέντευξες σχετικά με την ενδεχόμενη επόμενη κυβέρνηση της αριστεράς.

Inside the revolutionary process. Inevitably, today !

Perché mimetizzare le cicatrici ? Il potere cerca di nascondere la devastazione materiale e cerca di contrastare la depressione emotiva dei popoli, auspicando che le “genti” passino la vita surrogando i bisogni reali. Le fila dei “malcontenti” s'ingrossano; timidezze estreme, autolesionistiche, vanno incontro, lasciandosi fagocitare del tutto, al trionfo proprietario delle relazioni umane. Il potere racconta la vita di miliardi di persone come favola archetipa, come un'eterna partita alla tombola. Alcuni, collaborativi, possono permettersi di sorridere alla sconfitta e fanno archeologia culturale pensando alla “democrazia reale” come unico, intangibile orizzonte sociale; altri, scelti dalla vita, piuttosto che messi in condizione d'effettuare una scelta di vita, si dedicano al conflitto, ad essere “partigiani”, avanguardia non della tecnica, scontatamente – per i guru della “rete – imprescindibile, ma in quanto depositari della “prospettiva” storica. Come se non si sapesse che i "filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" (rif. 11° Tesi su Feuerbach). Non sono gli scandali e la corruzione pubblica e privata a far crollare le Istituzioni, lo Stato perché essi sono parte integrante della “democrazia reale” nella versione eurostatunitense. La post-modernità non s'annuncia o s'avvera con le rivolte delle moltitudini, organizzate anche grazie alla pervasiva presenza dei social media nel conflitto, al di fuori dell'Occidente economicamente avanzato e tecnologicamente dotato, perché essa è dentro la visione fallimentare della “democrazia reale”, frutto avvelenato del rigenerato capitalismo delle multinazionali. Tant'è, dopo la rivolta, la rottura dell'ordine costituito e la deriva liberatrice sono ricondotte a subalternità della “nuova” integralista forma del potere. Le “crisi” che scompaginano i blocchi sociali, che permettono d'evadere dalle “trincee” del persistente conflitto sociale, devono essere vissute come una “crisi” di sistema che non può più essere ricompresa nella fisiologica, gattopardesca ristrutturazione degli assetti gerarchici nel corpo sociale, non sono contenute dall'ideologia del “riformismo” borghese e della “democrazia reale”. Si è in presenza d'una crisi “ontologica” del sistema capitalistico di vita. Non basta alludere all'azione del “riformare” i comportamenti delle classi contrapposte o indurre gli individui a camminare rettamente sul filo della moralità pubblica; queste illusioni parlano il linguaggio dell'inganno, creano ulteriori trincee e ghetti che non parlano al mondo reale. Necessario, viceversa, è riformulare la “novitas”, attualizzarla, renderla possibile, agire come mai in precedenza. Il conflitto deve esprimere un sentimento, drasticamente, irreversibilmente, "antidemocratico" (nel chiaro significato di contrarietà antagonistico-duale alle varianti storiche della "democrazia realizzata") e postresistenziale che sia in grado d'avviare la riorganizzazione politico-organizzativa del proletariato per il suo potere esclusivo e per la costituzione di nuove forme d'istituzionalità autenticamente popolare. Ciò che non è nelle previsioni del capitalismo delle multinazionali – il concreto rinnovamento/ribaltamento della società – è vincente; il prevedibile, suscettibile di repressione e stigmatizzazione culturale, il già visto può solo essere archiviato, soddisfacendo autoreferenzialmente le anime belle della retorica, sociologica, ideale congettura rivoluzionaria. Stellarmente e storicamente distanti dai velleitarismi insurrezionalisti e dell'insubordinazione di testimonianza è il processo politico-organizzativo del proletariato rivoluzionario. La società capitalistico-borghese, d'illuministica derivazione, è in procinto di fallire; non basta, però, pensare che essa crolli senza colpo ferire. Non basta pensare al fallimento dei postulati egualitari, dell'uguaglianza formale davanti alla legge; tale stagione, troppo subdolentemente lunga, ha prodotto atroci impedimenti per l'emancipazione politico-culturale delle masse subalterne e la liberazione degli uomini dal giogo schiavistico del lavoro sottoposto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, a sua volta causa dell'appropriazione personale della ricchezza socialmente generata. L’economia borghese considera il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica, il capitalista, utilizza il lavoro di una certa categoria di persone, i salariati, per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che va descritta in termini di sfruttamento e di logica del profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della proprietà privata e dalla costruzione del comunismo.
L’unico modo di abbattere la società alienante sarà la rivoluzione proletaria. Il lavoro è creatore di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed i mezzi di cui si servono per produrre (ad esempio: salariati; industria; azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione (la "relazione" capitale / lavoro necessita la contrapposizione tra capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia dall’economia. Quindi, l’economia è la struttura o la base della società, sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte, religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che determina le condizioni di vita sociale, come le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le filosofie e non viceversa. E' il materialismo storico a ritenere che le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta. Le forze produttive, in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà, tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie di crisi e di conflitti. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ma se sociale è la produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé la base del suo superamento. Il comunismo è lo sbocco delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico e di riproduzione dei rapporti sociali; nella storia ogni formazione economica e sociale è un gradino di un processo che porta al comunismo, società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, inteso come forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come padrone del proprio destino. "Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca). Il carattere dialettico della teoria rivoluzionaria proletaria si manifesta nella storia, intesa come un processo dominato dalla forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale che può essere realizzato dalla soggettività organizzata politicamente. La dialettica non è entità spirituale, bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste nel possibile, auspicabile passaggio dalla società capitalistica a quella comunista. Storicamente, vi saranno pochi capitalisti che deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (rif. all'"economia politica", alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari sfruttati prendono coscienza di classe e sono, in particolare, i comunisti, "l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato", che devono guidare la rivoluzione della classe sfruttata. La rivoluzione proletaria abbatte le istituzioni dello Stato borghese ed in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia del mondo. Vi sarà la dittatura del proletariato che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa sarà una fase di transizione e durerà solo fino all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra. Altra cosa rispetto al contrasto fra la liberté e le “libertà”, fra l'uguaglianza formale e quella materiale, altra cosa rispetto al tentativo di dare “concretezza” politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”. La strada verso la servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la libertà ne postula di più dure. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestia da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla rivoluzione proletaria e da quella sono totalmente respinte ! Presupposto fondamentale, lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli U.S.A. e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia destra/sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.

giovedì 11 dicembre 2014

L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse

La storia della lotta armata di sinistra in Italia ha partorito una produzione libraria copiosissima, ma per molti versi insoddisfacente. Lasciando da parte l’esorbitante paccottiglia “cospirazionista”, hanno prevalso opere di taglio giornalistico, oppure memorie, non sempre attendibili o significative, di singoli personaggi, fossero attori effettivi (il più efficace e sincero: Prospero Gallinari), magistrati o congiunti delle vittime. Alcuni autori hanno cercato di ricostruire gli eventi con obiettività, ma i libri degni di nota si contano sulle dita di una mano. Ne citiamo quattro: Storia delle Brigate Rosse, di Marco Clementi (Odadrek, 2007); Vorrei che il futuro fosse oggi. Nap: ribellione, rivolta e lotta armata, di Valerio Lucarelli (L’Ancora del Mediterraneo, 2010); La lotta è armata. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato, 1969-1972, di Gabriele Donato (IRMS Friuli-Venezia Giulia, 2012); Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse, di Andrea Casazza (Derive-Approdi, 2013). Oltre, naturalmente, ai volumi de La mappa perduta pubblicati da Sensibili alle foglie, che peraltro si limitano a offrire materiali a un ipotetico storico a venire. Sta di fatto che la vicenda complessiva resta ampiamente nell’ombra, vittima di una ritrosia tutta politica a trattarla se non in termini esclusivamente giudiziari; per cui ogni frammento di essa riportato alla luce va accolto con favore. Vale anche per la produzione teorica delle formazioni armate, genericamente definita “delirante”, oggi come trent’anni fa. Ci sembra quindi opportuna la riedizione integrale de L’ape e il comunista, forse il testo più ampio e articolato mai redatto dalle Brigate Rosse (o meglio, da una loro ala). Riportiamo l’introduzione, in cui chi ha curato la pubblicazione ne spiega le finalità.] (VE) L’ape e il comunista, pubblicato dalla rivista Corrispondenza Internazionale nel 1980, rappresenta il punto di approdo dell’analisi brigatista a nove anni dalla nascita dell’organizzazione. Scritto tra il 1979 e il 1980 dai militanti prigionieri reclusi nelle neonate carceri speciali in regime di articolo 90 (1), il testo appare come il tentativo di sintetizzare le conquiste teoriche e pratiche di un’organizzazione passata, in pochi anni, dagli incendi delle autovetture di qualche capetto inviso agli operai, al rapimento del presidente della Democrazia Cristiana. All’origine de L’ape e il comunista vi fu anche un confronto dialettico tra linee politiche divergenti, che contrapponevano alcuni prigionieri delle Brigate Rosse e alcuni militanti in clandestinità. Ma non è questo aspetto che a noi oggi interessa trattare. L’attualità dello scritto non risiede in quel confronto, che per le modalità e le contingenze in cui si espresse appare superato. Non sono quelle le sollecitazioni principali che, a nostro avviso, emergono dalla lettura delle pagine del libro. Quali sono, dunque, le ragioni della ristampa di questo libro, oggi? Prima di tutto si tratta di un’opera quasi introvabile. La sua pubblicazione su Corrispondenza Internazionale ebbe, come si può immaginare, una vasta diffusione, soprattutto nel circuito dei militanti politici. La prima edizione andò esaurita in poche settimane e fu seguita da una sola ristampa, rendendo il testo di difficile reperibilità, oscurato, oltre che dalla forza dei suoi contenuti, anche dalle vicende giudiziarie che seguirono la sua pubblicazione. L’intera redazione della rivista, infatti, venne arrestata poco dopo l’uscita del libro con l’accusa di favoreggiamento e banda armata. Il processo farsa per direttissima si concluse con l’assoluzione degli imputati. Una seconda ragione che rende ancora attuale questo testo sta nelle diverse esigenze che L’ape e il comunista riuscì a conciliare. Si tratta, infatti, di un lavoro collettivo capace di coniugare analisi teorica, esigenza didattica e iniziativa militante. In alcune parti può apparire datato e deve dunque essere letto nella sua contingenza. Per rigore storiografico, la nuova edizione andrebbe corredata dalle pubblicazioni della risoluzione strategica scritta dalle BR nel 1978 e dai comunicati dell’”azione Moro”, che, come dicevamo più sopra, esprimevano tesi parzialmente in contrasto con quelle del “documentone”, come venne anche chiamato dai suoi autori. Oggi noi ristampiamo L’ape nella sua versione originale, senza modificarne una sola parola o correggerne un solo refuso, proponendolo nella sua prima veste, nella speranza che possa stimolare una riflessione sull’eredità che ha lasciato: quella di un documento politico che appartiene alla storia del movimento rivoluzionario italiano. Esiste anche una terza ragione – forse più speculativa, ma non per questo meno importante – che ci spinge alla nuova edizione: restituire la parola direttamente ai militanti rivoluzionari e all’espressione del loro pensiero e della loro azione. Una scelta che riporta quell’esperienza alla sua concretezza e alla sua materialità, lontana dalle pastoie della dietrologia e della cosiddetta “memoria condivisa”, che generano confusione e appiattiscono ogni processo storico a una lettura univoca e grossolana della realtà. Un piccolo contributo, il nostro, affinché chi intenda oggi comprendere gli snodi storici e politici che caratterizzarono un’epoca pervasa da spinte rivoluzionarie, eppur così vicina a noi, possa farlo attingendo ai documenti originali e alla parola dei protagonisti di allora.
Molti sostengono che, in realtà, ne L’ape e il comunista di attuale vi sia ben poco. Non siamo d’accordo. Esistono senz’altro parti dello scritto che possono apparire datate, slegate dalla realtà che ci circonda. Trattandosi di un testo complesso e che risale a più di trent’anni fa, è inevitabile che la sua interpretazione si presti a opposte valutazioni. Vi saranno senz’altro lettori e militanti che reputano “superati” I dannati della terra (2), Fratelli di Soledad (3), o il Che fare di Lenin; ciò non toglie che la scomparsa di questi testi dalle biblioteche, in particolare da quelle dei militanti politici, rappresenta una prospettiva inaccettabile. La citazione di Vygotskij (4) che apre il primo capitolo del libro, non a caso intitolato Dall’inizio alla fine, spiega bene questo punto: “Ancora molti studiosi, al giorno d’oggi identificano la storia con il passato, per cui studiare qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel fatto del passato. Da qui deriva quella concezione ingenua che vede un’insormontabile separazione tra lo studio di forme storiche e lo studio di forme attuali. Invece, compiere lo studio storico di un determinato argomento, significa semplicemente applicare a esso la categoria dello sviluppo. Studiare storicamente alcunché significa studiarlo in movimento. È questa un’esigenza fondamentale del metodo dialettico. Soltanto cogliendo come oggetto di indagine il processo dello sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti i suoi mutamenti, dal momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua natura e rivelare che cosa è esso in sostanza, poiché soltanto nel suo movimento un corpo mostra che cosa è.” L’ape e il comunista non è un testo di semplice lettura. In esso si sviluppano, attraverso un filo logico ininterrotto, diversi temi: l’analisi marxista dell’economia politica e del sistema di produzione capitalistico (primi sette capitoli); la crisi, le sue forme e le risposte che la borghesia è in grado di opporle (capitoli ottavo e nono); l’analisi delle classi sociali e dello stato italiano (capitoli decimo e undicesimo); l’analisi dei due principali partiti politici dell’epoca, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, delle loro relazioni e delle reciproche funzioni. Infine, Le venti tesi finali, dove i prigionieri delle Brigate Rosse preconizzano la nascita del Partito Comunista Combattente e pongono la questione degli “Organismi di massa rivoluzionari”. Come vi sono passaggi del testo che appaiono superati e poco comprensibili se letti fuori dalla contingenza in cui vennero scritti, ve ne sono altri che mantengono inalterata la loro freschezza analitica soprattutto in relazione al dibattito che attraversa oggi la sinistra anticapitalista. Citiamo alcuni di questi passaggi come stimolo e introduzione alla lettura. A proposito delle teorie del crollo spontaneo del capitalismo: “La teoria marxista della crisi, nella misura in cui nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, disperde le nebbie delle concezioni che deducono il comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo e dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. […] Così, quando i soggettivisti sostengono che l’unica barriera del capitale è la lotta operaia, dimostrano solo di confondere la causa oggettiva della crisi con uno dei fattori che ne accelerano il corso.” (5) A proposito di certe teorie tanto in voga oggi e che spostano dalla sfera della produzione a quella della circolazione la contraddizione principale del sistema borghese: “Interpretare le crisi come crisi di sottoconsumo e individuare così la contraddizione principale non nella produzione, ma nella circolazione, implica pertanto la possibilità di compiere un errore gravissimo: ritenere eliminabili le crisi intervenendo sulla circolazione, cioè sul movimento del denaro; sarebbe sufficiente aumentare la massa monetaria in circolazione e il problema sarebbe facilmente risolto, lasciando inalterato il modo di produzione capitalistico.” (6) Sulla questione della precarizzazione del lavoro, gli autori, analizzando i contenuti del Piano Triennale presentato dal governo italiano nel 1979, anticipano di trentacinque anni la situazione nella quale ci troviamo oggi: “Si offre al proletariato di sostituire l’utilizzo parziale e illegale del lavoro nero, estendendo le condizioni di precarietà a tutto il mercato del lavoro, generalizzando questi rapporti di sfruttamento attraverso una forma di legittimazione garantita da un controllo concertato tra sindacati-imprenditori-governo.” (7) Sul destino dell’Italia gli autori furono profetici: “Se continueremo a rimanere l’anello debole della catena imperialista, saremo il teatro di scontri ferocissimi fra grandi gruppi, terra di conquista delle multinazionali straniere più forti, un cimitero di piccole-medie-grandi imprese spazzate via dalla concorrenza più agguerrita del mondo, una vera colonia dell’epoca attuale. […] Le lavorazioni a maggior valore aggiunto saranno concentrate in USA, RFT (Germania, ndr) e Giappone; a noi resterà solo lo spazio di fare concorrenza nel costo del lavoro ai paesi emergenti.” (8) Altrettanto profetici lo furono sul reale significato dell’integrazione europea: “L’operazione Europa è un progetto di ingegneria istituzionale e politica che risponde agli interessi economici esclusivi della borghesia imperialista e, in particolare, del suo segmento più forte, quello tedesco.” (9) A proposito della relazione tra lotta di classe e lotta rivoluzionaria: “Alla coscienza della dicotomia tra lavoro salariato-capitale corrisponde una coscienza tradeunionistica; alla coscienza della contraddizione borghesia-proletariato corrisponde la coscienza comunista. Ma quest’ultima non discende dalla semplice esperienza di fabbrica e di lotta economica, la si può conquistare solo attraverso il rapporto della classe operaia con le altre classi e strati, attraverso il rapporto-scontro con la borghesia e il suo Stato, solo attraverso la lotta politica rivoluzionaria.” (10) A proposito della funzione dello Stato: “Fuor di metafora, intendiamo dire che lo Stato, se da un lato opera in un rapporto di dipendenza sostanziale dal movimento del capitale, dall’altro maschera questa dipendenza finché gli è possibile, apparendo in superficie come formalmente indipendente. Questa simulazione, precisamente, è la condizione prima della sua funzione globale: quella di impedire la disintegrazione della formazione sociale minata dagli antagonismi di classe e, di conseguenza, garantire la riproduzione dei rapporti sociali e delle classi. […] Tocca ai media, principalmente, trasmettere linearmente e diffondere nei differenti containers e con gli opportuni adattamenti secondo i profili sociali di ciascuno, le ingiunzioni dello Stato: e su di essi riposa la buona riuscita di tutta l’operazione.” (11) Stimoli, ripetiamo, che suggeriamo solo per introdurre alla lettura del libro, attraverso i passaggi che ne anticipano meglio l’ampiezza teorica e argomentativa. Forse, però, ciò che più conta in questo testo, come nell’eredità delle tante esperienze rivoluzionarie degli anni Sessanta e Settanta, è la sua natura di classe: il superamento in esso della differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra chi si occupa della pratica e chi della sola teoria. Un prodotto collettivo, figlio del proletariato e delle lotte di quegli anni, con le sue vittorie e le sue sconfitte. Un libro che, come e forse più di ieri, continuerà a fare paura. (1) L’articolo 90, inserito nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n. 354 del 1975, consentiva al Ministro di Grazia e Giustizia di sospendere, temporaneamente, le regole previste dall’ordinamento penitenziario, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza. L’applicazione di questo articolo di legge sancì nei fatti la sospensione della Costituzione nelle carceri dove veniva applicato, abbandonando i detenuti alla totale mercé dei propri carcerieri. Oltre a un uso indiscriminato della tortura, l’art. 90 favorì la depersonalizzazione dei detenuti attraverso l’isolamento quasi totale, la sorveglianza 24 ore su 24, l’impossibilità di cucinare o di accedere alla socialità. (2) Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi 2007 (3) George Jackson, Fratelli di Soledad, Einaudi 1970 (4) Lev Semenovic Vygotskij, 1896-1934, fondatore della scuola storico-culturale sovietica e studioso presso l’Istituto di Psicologia di Mosca. (5) AA.VV., L’ape e il comunista, Cap. 6 (Teorie sulla crisi) (6) Ibidem, Cap. 8, par. 3.2 (Sulla crisi) (7) Ibidem, Cap. 8, par. 6.3 (Sulla crisi) (8) Ibidem, Cap. 9, par. 9 (Sulla struttura produttiva) (9) Ibidem, Cap 11, par. 27 (Sullo Stato) (10) Ibidem, Cap. 10, par. 7.1 (Sulle classi) (11) Ibidem, Cap. 11. Par. 8 (Sullo Stato) L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse, Pgreco edizioni, 2013, pp. 307, € 17,00.