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martedì 9 luglio 2019

Articolo censurato - «Da dentro il marxismo – Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo»

Esaminato, da parte dello staff redazionale di una rivista on line con la quale ho collaborato e che “si pone come obiettivo primario la promozione, il sostegno, l’organizzazione e la gestione di iniziative, eventi e manifestazioni culturali e sociali nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto a pari opportunità senza distinzioni di razza, sesso, cultura, religione e salvaguardando l’ambiente” e ritiene di “esserci anche quando il pubblico è una minoranza”, l'articolo che pubblico è stato censurato.

Agendo come una sorta d'ibrida “autorità pubblica” (sul versante della censura politica) e come una “autorità ecclesiastica” (sul versante della censura ideologica), lo scritto non ha trovato spazio nel palinsesto, precludendo il prosieguo della collaborazione, poiché ritenuto eversivo. In questa sede, non intendo replicare; mi limito, per ora, a presentare il testo, al quale ho dato un titolo, minimamente modificato in alcuni passaggi per rendere la lettura più chiara ed arricchito da alcune utili citazioni, ovviamente, senza alterarne i significati teorico-politici, lasciando ad altri il "lavoro sporco" dei sofismi propri dei benpensanti che del capitalismo e dei suoi involucri politici sanno parlarne, ma non osano immaginare come poterlo adeguatamente "criticare" e superare. Sarò grato per ogni eventuale parere. G D

Da dentro il marxismo - Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo

Premesso che l'alleanza sovranista è un ossimoro – non si può dare una solidarietà politica internazionale tra competitor statuali pur in una evidente configurazione globale (empiricamente, non si possono negare affinità “operative” tra Putin, Trump, Erdogan, Orban, Xi Jinping e, via degradando, Bolsonaro e Salvini) e, nel contempo, interpretare in modo esaltato i programmi dei diversi interessi nazionali che rappresentano -, non si può, tuttavia, misconoscere che l'onda nera liberista post-novecentesca, caratterizzata dal sistema post-fordista multinazionale di produzione (organizzato nella forma della serializzazione digitale) e da un'economia biopolitica in grado di manipolare tutte le dimensioni d'espressione dei rapporti sociali (rif. M. Hardt, A. Negri, “Impero – Il nuovo ordine mondiale”, BUR, 2003, con particolare riguardo al Capitolo VI, “La sovranità imperiale”, pagine 175-193), procede indisturbata nel suo consolidamento del potere mondiale e nella sistematica depauperizzazione umana delle classi subalterne.
La “democrazia reale”, svigorita e irreversibilmente logorata, cede la guida della storia a figure marginali, ritenute a torto estinte, altrimenti concrete ed efficaci che scandiscono il passo dell'oca intorno al capezzale del cigno democratico (rif. al balletto di M. Fokine su una composizione di C. Saint-Saens, 1901-1905), agli autoritarismi post-fascisti in grado di vincere gli antichi nemici valorizzando la povertà materialistica e post-materialistica e la massa critica dell'ignoranza, ingredienti indispensabili per le forme legali ed elettorali quanto per le forme illiberali politico-militari d'affermazione e di conquista del potere istituzionale e/o governativo. Il mix delle “forme”, non del tutto storicamente originale, è sotto gli occhi dei popoli assuefatti ad esse e quindi docilmente inclini al “consenso” elettorale ed inesorabilmente piegati alla complicità mistificatoria e violenta: unica alternativa, sul terreno democraticista, si configura l'estraneità e/o ostilità verso il sistema dei partiti. Niente di più.
Considerando la “storia”, frutto di un “disegno razionale”, gli uomini, dopo millenni di adattamento alle forme di vita del capitalismo (ancor prima dell'affermarsi del sistema di produzione industriale del XVIII secolo, prodromi sono le attività dei centri finanziari del Medioevo e del Rinascimento europeo, che lo portarono all’emergere come sistema dominante a partire dal XVI secolo) sono diventati, per dirla con le parole di Umberto Galimberti (rif. a “Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica”, Feltrinelli, 1999; “Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007), funzionari di apparati tecnici o burocratici, i cui valori sono la funzionalità e l'efficienza con cui si devono compiere le azioni descritte e prescritte dall'apparato di appartenenza nella tempistica prevista, in altri termini, dal sistema di produzione e riproduzione della vita.
Un compito immenso, né regionale né continentale, bensì planetario, considerate le vicende storiche alle spalle, irto di difficoltà, di pericoli, di ostacoli e di incognite, eppure portato al successo, quasi senza colpo ferire. Alla “democrazia reale” il sacrifico umano resistenziale ed emancipatorio ha consegnato un'occasione unica, per plasmare la “storia” e servire le popolazioni, che è stata data a poche generazioni di uomini, dopo un itinerario di millenni, eppure ha fallito.
Lo scarno realismo dell'argomentazione porta a concludere che ciascuna generazione ha il suo problema particolare, concludere una guerra, estirpare le discriminazioni, migliorare progressivamente ed irreversibilmente le condizioni di vita, consolidare la dignità umana, esigendo limiti “dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive” pretese senza innescare cambiamenti radicali, considerate oggettive, liberarsi dalle forme di vita dominanti similmente gestite come se fossero ipermercati.
Esigere un sistema politico che conservi il senso della comunità tra gli uomini è oggi fuori dalla portata dal discorso democratico pronunciato dopo i due massacri bellici, fisici e culturali, del Novecento, subito smentito in latitudini non europee. Quel discorso non ha più pregnanza, è un anacronistico, inutile lamento profetico per la generazione attuale che non sa più ascoltare. Lo storytelling della democrazia, non incanta più. La retorica democraticista e la narratologia che ne scaturisce appaiono come obsolescenza dell'organizzazione civile ed istituzionale dei popoli.
Chi ha costruito la caducità della democrazia in Occidente – un albero con radici ammalate - venuta a patti con il capitalismo indefessamente selvaggio, praticato nonostante la legislazione sociale, i diritti civili ed il benessere dinamicizzato (e, proprio per la sua natura negoziabile, cristallizzato in sostanziali diseguaglianze) dalle effimere conquiste salariali, rinculando rispetto all'apertura necessaria di prospettive altre che la storia ha fatto germogliare dal 1917 al 1924 senza repliche universalmente significative, si è assunto la responsabilità di cedere il passo, di deflettere, di cancellare memorie.
È necessario essere capaci di uno sguardo in grado di catturare la vulnerabilità dell'animo umano, in balia di sovrastrutture alienanti, piuttosto che stringerci a coorte, pronti alla morte, è inevitabile considerare l'esperienza democratica un fatto politico “minimo”, “procedurale” (rif. a Norberto Bobbio, “Il Futuro della Democrazia”, Einaudi, 2005 p.4, il quale ammette che “l’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole, primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure”).
Pertanto, si tratta d'assumere (potremmo dire: costruire), abbracciare totalmente il marxismo, potremmo dire da dentro il marxismo, un'autentica prospettiva totalizzante d'adesione sincera ed incondizionata all'obiettivo del comunismo contro un mondo le cui rivoluzioni industriali ed il saggio di profitto hanno fatto intenzionalmente smarrire per sempre la sua essenza umanistica.
Per comprendere la realtà contemporanea ci si deve dotare di un metodo conoscitivo, certo, ma soprattutto di un'articolazione di pensiero risolutivo della crisi di civiltà maturata agli inizi del XXI secolo, di una prassi che sa svincolarsi dai rivoli di sofismi che impediscono ai comportamenti di avere la meglio sulla declamazione di principi morali.

domenica 22 gennaio 2017

Conferenza di Roma sul comunismo - 18 / 22 Gennaio 2017

Ognuno degli assi tematici che articolano le 5 giornate di discussione sarà introdotto e informato da una serie di domande. Le domande scandiranno il ritmo tanto delle conferenze quanto dei workshop.

Comunismi

C’è una storia del comunismo, anzi dei comunismi. Comunismi realizzati, partiti comunisti scomparsi o ancora vivi, processi rivoluzionari sconfitti, interrotti. Modificazioni genetiche dei comunismi che hanno contribuito alla temperie del ‘900. Con questa storia, e non solo con l’idea del comunismo, è necessario fare i conti. Per conquistare al comunismo una nuova possibilità.

Critica dell’economia politica 

Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e […]

Chi sono i comunisti?

Chi sono i comunisti oggi? Quale il vettore organizzativo che, per dirla con Marx ed Engels, può favorire la «formazione del proletariato come classe»? Ancora: quale il rapporto tra lotte economiche e lotte politiche? E quali le pretese di una nuova politica economica che metta al centro il Comune? Un’indagine a tutto campo sui processi […] 

Comunismo del sensibile 

Ciò che è in primo luogo Comune è l’«Essere del sensibile». Sensibile nel quale siamo immersi; sensibile della nostra prassi; sensibile delle relazioni, nelle quali siamo sempre gettati. Riflettere sul sensibile significherà anche e soprattutto mettere in tensione il Comune del comunismo con l’estetica, con la costruzione del sensibile, dei suoi orientamenti. Ancora: sarà un […]

Poteri comunisti

Si chiedeva Foucault alla fine degli anni ’70: è possibile una «governamentalità socialista»? Oggi che la governance globale definisce una nuova articolazione dello Stato e delle sue funzioni, la domanda di Foucault si fa non solo attuale ma urgente. Altrettanto: è possibile immaginare o costruire istituzioni che non convergono nella macchina statale? L’ipotesi federalista, il […]

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giovedì 25 dicembre 2014

Inside the revolutionary process. Inevitably, today !

Perché mimetizzare le cicatrici ? Il potere cerca di nascondere la devastazione materiale e cerca di contrastare la depressione emotiva dei popoli, auspicando che le “genti” passino la vita surrogando i bisogni reali. Le fila dei “malcontenti” s'ingrossano; timidezze estreme, autolesionistiche, vanno incontro, lasciandosi fagocitare del tutto, al trionfo proprietario delle relazioni umane. Il potere racconta la vita di miliardi di persone come favola archetipa, come un'eterna partita alla tombola. Alcuni, collaborativi, possono permettersi di sorridere alla sconfitta e fanno archeologia culturale pensando alla “democrazia reale” come unico, intangibile orizzonte sociale; altri, scelti dalla vita, piuttosto che messi in condizione d'effettuare una scelta di vita, si dedicano al conflitto, ad essere “partigiani”, avanguardia non della tecnica, scontatamente – per i guru della “rete – imprescindibile, ma in quanto depositari della “prospettiva” storica. Come se non si sapesse che i "filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" (rif. 11° Tesi su Feuerbach). Non sono gli scandali e la corruzione pubblica e privata a far crollare le Istituzioni, lo Stato perché essi sono parte integrante della “democrazia reale” nella versione eurostatunitense. La post-modernità non s'annuncia o s'avvera con le rivolte delle moltitudini, organizzate anche grazie alla pervasiva presenza dei social media nel conflitto, al di fuori dell'Occidente economicamente avanzato e tecnologicamente dotato, perché essa è dentro la visione fallimentare della “democrazia reale”, frutto avvelenato del rigenerato capitalismo delle multinazionali. Tant'è, dopo la rivolta, la rottura dell'ordine costituito e la deriva liberatrice sono ricondotte a subalternità della “nuova” integralista forma del potere. Le “crisi” che scompaginano i blocchi sociali, che permettono d'evadere dalle “trincee” del persistente conflitto sociale, devono essere vissute come una “crisi” di sistema che non può più essere ricompresa nella fisiologica, gattopardesca ristrutturazione degli assetti gerarchici nel corpo sociale, non sono contenute dall'ideologia del “riformismo” borghese e della “democrazia reale”. Si è in presenza d'una crisi “ontologica” del sistema capitalistico di vita. Non basta alludere all'azione del “riformare” i comportamenti delle classi contrapposte o indurre gli individui a camminare rettamente sul filo della moralità pubblica; queste illusioni parlano il linguaggio dell'inganno, creano ulteriori trincee e ghetti che non parlano al mondo reale. Necessario, viceversa, è riformulare la “novitas”, attualizzarla, renderla possibile, agire come mai in precedenza. Il conflitto deve esprimere un sentimento, drasticamente, irreversibilmente, "antidemocratico" (nel chiaro significato di contrarietà antagonistico-duale alle varianti storiche della "democrazia realizzata") e postresistenziale che sia in grado d'avviare la riorganizzazione politico-organizzativa del proletariato per il suo potere esclusivo e per la costituzione di nuove forme d'istituzionalità autenticamente popolare. Ciò che non è nelle previsioni del capitalismo delle multinazionali – il concreto rinnovamento/ribaltamento della società – è vincente; il prevedibile, suscettibile di repressione e stigmatizzazione culturale, il già visto può solo essere archiviato, soddisfacendo autoreferenzialmente le anime belle della retorica, sociologica, ideale congettura rivoluzionaria. Stellarmente e storicamente distanti dai velleitarismi insurrezionalisti e dell'insubordinazione di testimonianza è il processo politico-organizzativo del proletariato rivoluzionario. La società capitalistico-borghese, d'illuministica derivazione, è in procinto di fallire; non basta, però, pensare che essa crolli senza colpo ferire. Non basta pensare al fallimento dei postulati egualitari, dell'uguaglianza formale davanti alla legge; tale stagione, troppo subdolentemente lunga, ha prodotto atroci impedimenti per l'emancipazione politico-culturale delle masse subalterne e la liberazione degli uomini dal giogo schiavistico del lavoro sottoposto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, a sua volta causa dell'appropriazione personale della ricchezza socialmente generata. L’economia borghese considera il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica, il capitalista, utilizza il lavoro di una certa categoria di persone, i salariati, per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che va descritta in termini di sfruttamento e di logica del profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della proprietà privata e dalla costruzione del comunismo.
L’unico modo di abbattere la società alienante sarà la rivoluzione proletaria. Il lavoro è creatore di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed i mezzi di cui si servono per produrre (ad esempio: salariati; industria; azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione (la "relazione" capitale / lavoro necessita la contrapposizione tra capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia dall’economia. Quindi, l’economia è la struttura o la base della società, sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte, religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che determina le condizioni di vita sociale, come le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le filosofie e non viceversa. E' il materialismo storico a ritenere che le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta. Le forze produttive, in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà, tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie di crisi e di conflitti. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ma se sociale è la produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé la base del suo superamento. Il comunismo è lo sbocco delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico e di riproduzione dei rapporti sociali; nella storia ogni formazione economica e sociale è un gradino di un processo che porta al comunismo, società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, inteso come forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come padrone del proprio destino. "Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca). Il carattere dialettico della teoria rivoluzionaria proletaria si manifesta nella storia, intesa come un processo dominato dalla forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale che può essere realizzato dalla soggettività organizzata politicamente. La dialettica non è entità spirituale, bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste nel possibile, auspicabile passaggio dalla società capitalistica a quella comunista. Storicamente, vi saranno pochi capitalisti che deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (rif. all'"economia politica", alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari sfruttati prendono coscienza di classe e sono, in particolare, i comunisti, "l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato", che devono guidare la rivoluzione della classe sfruttata. La rivoluzione proletaria abbatte le istituzioni dello Stato borghese ed in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia del mondo. Vi sarà la dittatura del proletariato che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa sarà una fase di transizione e durerà solo fino all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra. Altra cosa rispetto al contrasto fra la liberté e le “libertà”, fra l'uguaglianza formale e quella materiale, altra cosa rispetto al tentativo di dare “concretezza” politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”. La strada verso la servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la libertà ne postula di più dure. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestia da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla rivoluzione proletaria e da quella sono totalmente respinte ! Presupposto fondamentale, lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli U.S.A. e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia destra/sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.

mercoledì 17 luglio 2013

La contraddizione

L’attuale dimensione entro la quale si sviluppa gran parte della conflittualità sociale e che trova nella “globalizzazione” una peculiare riconferma – essendo struttura portante del sistema sociale – fa riferimento, con inevitabile pregnanza ad ogni latitudine planetaria, alla contraddizione capitale lavoro. Per Karl Marx (la sua trattazione sull’argomento s’avvale già di “Lavoro salariato e capitale”, del 1847-1849, una raccolta di cinque conferenze che Marx tenne nel 1846 presso l'"Associazione degli operai tedeschi", poi pubblicate singolarmente sulle pagine della "Nuova Gazzetta Renana" (1849); furono diffuse in tutto il mondo da Friedrich Engels, dopo la morte di Marx, sotto forma di "opuscolo di propaganda" per la lotta di classe; successivamente, la critica dell’economia politica del “Capitale” spiega come il saggio di plusvalore rappresenti il rapporto fondamentale di “sfruttamento” alla base della valorizzazione di capitale; inoltre, “la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica – si legge in un passo dell’Anti-Dühring F. Engels 1878; 291 – si riproduce come antagonismo tra l’organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l’anarchia della produzione nel complesso della società”), la crisi economica nella società moderna è determinata innanzitutto dalla contraddizione, che ciclicamente si ripete, tra lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e i rapporti sociali di produzione ad essa sottostanti. Il rapporto tecnico fra la macchina e l’uomo, fra il lavoro morto e il lavoro vivo, permette di produrre sempre di più a parità di tempo o con meno dispendio di forza lavoro impiegata. Tuttavia, la ricchezza prodotta non trova sempre sul mercato la domanda sufficiente e in grado di ripagare i costi di produzione. Se la produttività aumenta, si liberano lavoratori, si creano i cosiddetti esuberi, insomma i disoccupati.
Il capitale risparmia sul fattore lavoro per aumentare relativamente i propri margini di profitto. Aumenta con ciò la forza contrattuale del datore di lavoro, che tende ad abbassare i salari, in un mercato del lavoro a lui tendenzialmente favorevole. Sul mercato del lavoro si forma infatti un esercito industriale di riserva di lavoratori che, anche inintenzionalmente, si pone in concorrenza con la forza lavoro occupata. La conseguenza più immediata è che si verifichino crisi da sovrapproduzione (e/o da sottoconsumo), poiché la domanda di beni da parte della classe lavoratrice diminuisce e le merci permangono nei magazzini invendute, con il che il capitalista vede diminuire i propri margini di profitto o addirittura non ricostituisce il capitale anticipato. La teoria del valore (lavoro incorporato) che Marx riprende dai classici (Smith e Ricardo), trasformandola radicalmente onde mettere in evidenza tutta la tematica del plusvalore (pluslavoro) in quanto profitto capitalistico è strumento teorico atto a cogliere la continua riproduzione del rapporto "essenziale" del modo di produzione capitalistico, decisivo dunque per comprendere il movimento peculiare dell'intera società capitalistica. Tale rapporto è, per Marx, quello tra proprietà dei mezzi di produzione e lavoro salariato, cioè forza (capacità) lavorativa venduta come merce da chi altro non possedeva se non il suo cervello e/o il suo braccio. La teoria del valore e plusvalore spiega come, ad ogni ciclo della produzione capitalistica, viene riprodotto tale rapporto con il costante accrescimento del lato proprietario (grazie al profitto/plusvalore), mentre il lavoro salariato può vedere certo aumentare il suo tenore di vita (salario reale) ma sempre nell'ambito di una non proprietà, dunque un non controllo, dei mezzi necessari all'attività produttiva. I termini Struktur/Überbau nella Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” (1859) sono utilizzati da Marx per esporre in termini sintetici la concezione materialistica della storia alla quale era pervenuto in seguito alla sua revisione critica della filosofia hegeliana del diritto. Al centro di tale concezione sta l’idea secondo la quale «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato» non possono essere compresi né per sé stessi, né mediante «la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell’esistenza», cioè nei rapporti di produzione; «l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale ». La reiterazione nella dimensione globale della contraddizione capitale lavoro come contestualizzata dall’analisi marxiana, ha determinato una considerevole proliferazione di variabili in gioco che possono rappresentare un’opportunità della quale tentare d’avvalersi (si pensa, ad esempio, alla comunicazione sociale, alla pervasività della I.C.T.) o, alternativamente, una variabile indipendente se non una vera e propria minaccia alla quale tentare di contrapporre – per il buon esito di pratiche antagoniste – un’accorta gestione del potenziale eversivo della lotta di classe. La consapevolezza dell’ambivalenza dell’antagonismo antisistema porta ad una corretta interpretazione del vissuto stesso delle contese sociali, poiché da essa discendono eventi modificativi diventati un’irrinunciabile leva operativa della trasformazione sociale da orientare con metodo, tempestività e competenza rivoluzionaria. È in tale prospettiva che va recepita – a livello di massa, ma anche del “quadro politico militante” disperso in tante realtà, ognuna delle quali portatrice di ispirazioni teorico-politiche che mostrano la corda, improduttive di eventi efficacemente(strutturalmente) modificativi – e collocata con priorità assoluta nell’agenda politica dei movimenti d’insubordinazione sociale e delle soggettività riorganizzantesi, dopo la sconfitta del comunismo novecentesco, la gestione dell’imprevedibilità antagonistico-duale conseguente al disegno di confini dettagliati entro i quali muoversi politicamente, agire per fare breccia, a fronte dell’evoluzione dell’ambiente economico sociale e politico globale. È necessario, altresì, che l’organizzazione politica dei comunisti non restringa il proprio intervento a quella che potrebbe definirsi come una mera conduzione tecnico-operativa delle attività realizzative di mobilitazione, propaganda e rivendicazione (come sembra emergere da residuali, antiche o recenti appartenenze partitico-sindacali che – ancora – guardano alla “rappresentanza”, alla presenza nelle istituzioni “pubbliche”). Al contrario, l’organizzazione politica dei comunisti è chiamata a riservare la massima cura alla pratiche di contropotere effettivo, appuntando costantemente l’attenzione sugli eventi politici modificativi (non simbolici) che concretizzino conquiste irreversibili sul terreno dell’agibilità politica e di processo rivoluzionario di lunga durata, rideterminando effetti decisivi per il risultato finale: la conquista del potere politico. Per esercitare un’azione di controllo e di guida dei movimenti d’insubordinazione sociale sostenendo la fuoriuscita dalle secche del trade-unionismo, d’altra parte, la partecipazione sincera alla vertenzialità sociale è ineludibile, lo sforzo ideativo e pratico di costituzione di comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva altrettanto importante – come obiettivi relazionali immediati – non demandando però al capriccio, all’inventiva tout court o alla solerzia individuale. La sedimentazione di coscienza costitutiva (per neoistituzionalità proletarie e popolari) è di vitale interesse per la rivoluzione. Infatti, la partecipazione alla conflittualità sociale, la condivisione delle responsabilità di destrutturazione delle forme di dominio – oltre a tratti d’identificazione chiara, quantificazione delle “risorse” necessarie, pianificazione delle iniziative territoriali, verifica degli esiti e della “tenuta” – devono essere in grado di condurre le azioni con approccio sistematico ed organizzativo, strategico, prevedendo il ricorso a metodologie specificamente leniniste. Da molti, troppi decenni, nel secolo trascorso, il capitale ha utilizzato “progetti” d’emancipazione per rideterminare le forme di dominio sociale. Ciò è servito a consolidare la formazione economico-sociale entro la quale esplicare il “comando” riproducendo gerarchie, sfruttamento, disuguaglianze, avvalendosi di fondamentali contributi della “sinistra comunista” togliattiana e socialista, revisionista e “riformista”, e tutto questo è fin troppo chiaro. In tempi recenti, tuttavia, le operazioni di soppressione d’ogni idea o pratica tendente ad obiettivi rivoluzionari per la conquista dittatoriale del potere politico da parte del proletariato organizzato dal partito comunista – il riferimento è al PdRC e al PdCI, in particolare, protagonisti della fuoriuscita anche dalla tribuna parlamentare d’una parvenza rappresentativa di classe – sono state evidentemente cogestite, anche all’insaputa di generosi militanti, con le forze capitalistico-borghesi perché il neoliberismo non ammette opposizioni di sorta (il “primo governo Marchionne”, in Italia, ne è la dimostrazione). Questo scenario sollecita quella turbolenza ambientale - indotta dall’egemonia dei “mercati” sulle forme di vita delle moltitudini – per giustificare derive autoritarie e repressive. La sopravvivenza del “comunismo” è data da pratiche rivoluzionarie come presupposto irrinunciabile per evitare l’estinzione o l’integrazione assassina tra lo stesso processo rivoluzionario di lunga durata – autonomamente condotto – e l’artificializzazione di mete politiche, integrazione coatta che porta fuori strada i comunisti ed avvelena la matura esperienza dell’autovalorizzazione proletaria.

sabato 13 luglio 2013

Progettare la rivoluzione

Sviluppare una riflessione di critica sociale ed emancipazione a partire dalle condizioni attuali delle contraddizioni capitale-lavoro, nella consapevolezza che le dinamiche sociali in corso richiedono un ritorno/approdo consapevole e riflessivo alla nozione di critica e una rinnovata attenzione sulle condizioni che consentono di pensare il progetto di emancipazione collettiva e di rivoluzione sociale. I processi di globalizzazione, infatti, da un lato rendono sempre più manifeste le tensioni create da un capitalismo diversamente aggressivo sul piano economico e omologante sul piano culturale; dall’altro, sembrano poter aprire spazi per una nuova capacità di incrementare i potenziali di liberazione impliciti non solo in una possibile universalizzazione dei diritti umani e dell’autorealizzazione degli individui, ma soprattutto di rivoluzione sistemica.

Ma, al momento, è soprattutto sul primo aspetto che occorre soffermarsi. Le crisi economiche e finanziare internazionali hanno pesanti ripercussioni sociali: mettono a repentaglio le politiche di Welfare nei paesi più industrializzati – che vedono l’emergere di nuove e vecchie forme di povertà, di disoccupazione, di emarginazione sociale, ecc. mentre i giochi di borsa e le acquisizioni multinazionali d'impresa proseguono senza battute d'arresto –, e cercano, d’altro lato, di scaricare gli effetti più pesanti della crisi sui paesi più poveri e in via di industrializzazione e – prioritariamente – sulle classi subalterne presenti in ogni ambito nazionale devastandole, creando un vero e proprio genocidio generazionale. Sul piano culturale, nonostante sia ormai evidente la difficoltà intrinseca di un modello di produzione incentrato sull’idea di uno sviluppo senza limiti finalizzato al profitto d'impresa che risponda a mere esigenze produttive, il modello di una società dei consumi sembra essere senza alternative reali e, nonostante ciò, si impone come unico referente possibile e auspicabile. La stessa fuoriuscita dalla crisi viene così proposta solo nella prospettiva di una ripresa produttiva, dell’aumento del Pil, dei consumi, in una direzione che non può fare altro che riproporre le patologie da cui vorrebbe sfuggire. da questo punto di vista, i sacerdoti del "mercato", gli economisti "di sinistra" e "di destra", non divergono affatto, avanzando "ricette" buone solo per rigenerare il sistema d'appropriazione privata di beni e servizi socialmente prodotti. In questa situazione, la riflessione critico-sociale-politica – ma non solo – deve porsi l'inevitabile questione di quali siano le condizioni, i temi, i soggetti capaci di rompere questa spirale perversa e riaprire il fronte di una prassi sociale non ingenua, bensì lungimirante, rivoluzionaria, efficacemente antisistema. Si possono porre qui almeno tre questioni. 1. La contemporaneità come “luogo di manifestazione” delle contraddizioni capitalistiche, l’unico nella storia dell’umanità nel quale sia stato posto con forza il tema dell’emancipazione antisitema. La prospettiva illuminista di una liberazione sulla scia di uguaglianza, fratellanza e libertà non può dare alcun frutto poiché, tenendo ferma l’idea di una possibile liberazione di massa, non si può evitare la consapevolezza degli errori commessi dalla”sinistra tradeunionistica” in questi secoli di modernità capitalistico-borghese, e va considerato “falso sapere” non solo il fanatismo religioso e l’irrazionalismo mitologico, ma anche – il pronunciamento della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno è chiaro, in proposito – la presunzione delle classi dominanti di porsi come depositarie di sapere assoluto e definitivo, astorico, presunzione che ha assunto nel Novecento forme diverse e terribili, come le ideologie assolutizzanti, il totalitarismo nazi-fascista, l’assolutizzazione del ruolo sociale dell'impresa, ecc., sia sul piano concreto delle forme e delle esperienze sociali sia sul piano culturale e della formazione e riproduzione delle forme di vita sociali. Nonostante questi aspetti deleteri, e partendo proprio dalla necessità di evitare ogni assolutizzazione, rimane aperto il compito di “una critica della ragione attraverso la ragione” e quello di “stabilire prospettive da cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe” (Adorno). Occorre quindi una ripresa critica della critica interna alla prospettiva borghese, che sappia andare oltre una possibile resa davanti ai drammi che la modernità stessa ha prodotto, oltre il lavacro etico, poiché anche i proletari sono fagocitati e si muovono nell'universo unico dell'esitenza come il capitale vuole sia vissuta. 2. Il mantenimento – critico – delle prospettive di emancipazione presenti nel progetto rivoluzionario antisistema implica in prima battuta il superamento della retorica post-moderna e l'attualizzazione del marxismo-leninismo. La fine delle grandi narrazioni è anch’essa una grande narrazione. E, in quanto tale, ha prodotto essa stessa una “ideologia”. L’idea di un individuo riflessivo, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di scelte – e di contraddizioni – che il sistema sociale non sa più affrontare, può costituire la premessa per una nuova fuga dalla libertà, d'una eternizzazione delle forme di vita capitalistiche. La deregolamentazione e la privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della Società/Impresa può costituire un onere tragico per la gran parte dei soggetti subalterni e un eccesso di individualizzazione può produrre il peggior conformismo sistemico. Anzi, se finisce con l’essere la base per nuovi modelli sociali e di consumo – per lo più irraggiungibili –, costituisce un nuovo modello di conformismo. Dobbiamo perciò essere consapevoli che queste forme di disintegrazione sociale producono un vuoto alle volte più pericoloso del pieno che lasciano alle loro spalle; che la società dell’effimero e della disgregazione, del momento e della contingenza, è la condizione e il risultato di una nuova forma di potere e di dominio. Nessun rimpianto per un pieno al quale non bisogna assolutamente tornare, ma, al tempo stesso, nessuna indulgenza per un vuoto che annichilisce le stesse capacità di resistenza e di cittadinanza attiva. 3. Un elemento perciò fondamentale di analisi può essere costituito dal concetto di legame sociale. Oggi – sulla base forse di quanto sopra detto – assistiamo ad un ritorno di comunità, ad un nuovo bisogno di appartenenza, ad una rinnovata necessità di radicamento e di radicale trasformazione sociale. La “crisi” è madre di tutto ciò, come opportunità di autentica trasfomazione sociale. Accanto a situazioni di tipo reattivo – come possono essere nuove le forme di comunitarismo religioso, localistico, etnico, ecc. – emergono però al tempo stesso forme di comunità – e di legame sociale – che tentano di costruire momenti di solidarietà sociale non esclusiva e totalizzante, ma soprattutto embrionali forme organizzate di antagonismo anticapitalista. Possiamo fare gli esempi di nuove forme di movimenti sociali per i "beni comuni", di comunità di consumo equo e solidale, di associazioni di quartiere e di volontariato e servizio civile, di partecipazione collettiva, tutte portatrici, in modo più o meno esplicito e consapevole, di momenti di critica sociale e di emancipazione. Accanto ad essi si sta coagulando, aggregando una intenzionalità di lotta rivoluzionaria per il potere politico guidata da coscienti avanguardie comuniste. Una riflessione sulla natura e sulle condizioni del legame sociale nell'attuale situazione storica appare dunque il miglior modo per porre la questione della critica al capitalismo nell'epoca della globalizzazione. In questa prospettiva, non vorremmo riproporre il tema della critica alla prima esperienza stocia dell'accumulazione capitalsistica, che diamo per acquisita. Neppure riproporre una riflessione sul ruolo che vecchi soggetti (partiti, sindacati, ecc.) possono avere in chiave critica. Attualmente, il compito di costruire un ordine sociale nuovo e migliore deve ancora conquistare il centro dell’attuale agenda della maggior parte del mondo antagonista che trascura di “tematizzare” appropriatamente la questione del “potere”. Occorre invece riproporre con forza questa prospettiva in una nuova direzione, consapevoli che nemmeno un’ora del nostro lavoro sarebbe utile se non servisse in qualche modo alla rivoluzione sociale per il comunismo, alla socializzazione comunista.

martedì 2 aprile 2013

Per una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza parlamento

Il concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος (démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di “democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche) possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di uno Stato sedicente democratico. Il concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene – l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre, approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia” contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere – specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti. Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della “volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi, essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato. Nei paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo delle istituzioni statuali moderneche la “democrazia” contiene, è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento, quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale, dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della “democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione” (scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi, come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di schiavi. L'deale democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia “progressista” borghese e, nella sua apparizione negli ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento, unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e dell'eserzio del poetere, forzosamente traslando dalla “partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica dell'industrializzazione maturapropone, di fronte alle minacce rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il costituzionalismo borgehse gioca la carta della retorica democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di rappresentanza istitutzionale. È ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia" in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire "libere", "eguali", "democratiche", "universali" le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.» (brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23 dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919). Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia (l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque “soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e continua a procurare al proletariato. È nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza europea del “movimento dei Consigli”, identificabile sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della costruzione della base materiale del comunismo consentendo un corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato” è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi sistemiche della sconfitta storica del capitalismo. Per Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo. 2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti di "democrazia in generale" e di "dittatura in generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta. Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi, come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la "dittatura in generale", ma la dittatura della classe oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto, quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla "democrazia in generale", quando oggi si grida e si strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria» (brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol. 28, pagg. 461-462). Aprile 2013

sabato 15 dicembre 2012

“Agglomerati leggeri”, “liquidità”, retorica gretto-borghese, “esposizione universale” … Andare dall'altra parte !

L’attacco incessante che da quattro anni il capitalismo globale – nelle espressioni militanti della destra politica liberista, quelli del “massacro sociale”, e della sinistra politica e sindacale socialdemocratica, quelli dell' “agenda sociale”- va conducendo con la riorganizzazione ristrutturativa del comando proprietario sul lavoro con forme autoritarie e repressive del potere nei riguardi delle insorgenze antagoniste, ha definitivamente affossato ogni illusione di dare uno sbocco “riformista” alla crisi in atto nel paese ed a livello internazionale.
Un fatto è che lo Stato/Impresa ha infilato diritta la strada della repressione violenta e sistematica delle lotte e che un generale spostamento a destra si è realizzato all’interno del quadro istituzionale. Le vicende di questi ultimi mesi lo dimostrano ampiamente e le elezioni politiche saranno un ulteriore referendum tra l'imperio dell'imprenditoria capitalista e della finanza e l'idea democraticista della delega, della rappresentanza, della compatibilità tra capitale e lavoro. I voti palesi rubati dai fascisti per conto dai loro mandanti faranno delle elezioni politiche, preparate ad arte come effetto oppiaceo del “cambiamento”, sono solo gli episodi più appariscenti del grande rituale imbroglio e della vomitevole farsa delle “offerte politiche”.
Alla permanenza e all’intensificarsi della resistenza proletaria il capitale globale contrappone un progetto strategico di riorganizzazione reazionaria e neofascista dello stato: il progetto di una grande destra nazionale. Siamo ancora alle prime battute, ma al di là delle contraddizioni tattiche con cui questo progetto deve fare i conti se ne intravedono ormai le linee fondamentali.
Nelle grandi fabbriche e nelle piazze dove il rifiuto dell'austerity e della cancellazione dei diritti cresce fino a diventare rifiuto del potere, le lotte vengono represse con ogni mezzo.
Basta guardarsi in giro per vedere come, sempre più, aumenta l’intransigenza dei padroni pubblici e privati che, decisi a nulla concedere fanno intervenire con sempre maggior frequenza la polizia nelle vertenze operaie e sociali per contrastare l'antagonismo di massa. Poi, c’è l’organizzazione dei crumiri, dei nuovi sindacati padronali e delle squadracce fasciste, queste ultime vere e proprie forze dell’ordine civile che all’occorrenza si uniscono e danno manforte, spiando, provocando, facendo del terrorismo, alle “forze dell’ordine” dello stato.
I grandi giornali padronali, la radio e la TV fanno il resto. Con il pretesto della “lotta alla criminalità” non perdono occasione per confondere le idee presentando e contrabbandando la crescente militarizzazione e fascistizzazione dello stato come “esigenza dell’ordine pubblico” e cioè preparano il terreno per un “attacco finale” in tempi stretti alle avanguardie rivoluzionarie presentate come “minoranze criminali”. Proprio per questo le grandi arre d4el paese e non solo le metropoli del nord sono ormai quotidianamente sottoposte a giganteschi rastrellamenti, a continui posti di blocco, vere e proprie esercitazioni antiguerriglia, con impiego di ingenti forze di polizia e carabinieri. Siamo cioè di fronte ad uno stato “militarizzato” che non riuscendo più ad organizzare per via pacifica il consenso, si prepara ad imporlo con la forza di provvedimenti legislativi e manu militari. I rappresentanti degli interessi nazionali del capitalismo delle multinazionali utilizzano per questo suo progetto tutte le forze politiche disponibili sul mercato, ma la forza trainante in questo momento è il proprio il PD con i suoi satelliti che tenta di “normalizzare” quanto sta accadendo.
Sarebbe dunque un errore ricondurre la questione del neofascismo entro schemi pre-resistenziali. Oggi siamo di fronte ad un tentativo « nuovo » di costruire intorno alle esigenze dello Stato imperialista una “base sociale” stabile. Il neofascismo in altre parole — almeno in questa fase — non mira tanto ad una liquidazione istituzionale dello “stato democratico”, quanto alla repressione ferocissima del movimento delle lotte; non si manifesta come appariscente modifica istituzionale, ma come pratica quotidiana di governo. In questa prospettiva il disegno di una destra nazionale raccolta intorno ad un progetto d’ordine, costruito su misura delle attuali e future necessità produttive e di accumulazione del capitale ristrutturato, ha certamente un respiro più lungo di quel “centro-destra” di mediazione messo su per scopi elettorali da leaders navigati e dell'ultimora.
Non è un caso che molti personaggi, guardando lontano, siano tra i più solerti sostenitori della destra nazionale, tra i più attivi promotori della maggioranza non più “silenziosa”, bensì drogata dall'ideologia della partecipazione e collaborazionista, che, ovviamente, non intende metter in questione il “sistema”. Del resto c’è spazio per tutti in questa prospettiva: sia per chi vuol muoversi sul binario della “legalità”; sia per chi al contrario preferisce la via delle violenze indotte dall'ingiustizia sociale. Ed è proprio nella combinazione del terreno politico di scontro con quello presidiato dalla repressione delle devianze sociali, che va vista la forza attuale del neofascismo aziendalista e finanziario: maggioranza “partecipante e collaborazionista” e comando capitalista non sono realtà contraddittorie, come non lo sono i corpi armati dello stato e le squadracce nazi rianimate sul territorio sguarnito da gruppi di autodifesa proletaria.
A breve termine il blocco neofascista insegue alcuni obiettivi. Primo è quello di organizzare, utilizzando i vari centri anticomunisti, quegli strati piccolo e medio-borghesi esasperati dalla “crisi” o minacciati dallo spettro delle lotte per la rivoluzione come massa di pressione politica anticomunista nel gioco elettorale. Secondo obiettivo è quello dì concretizzare attraverso la cinghia di trasmissione sindacale, una spaccatura all’interno delle masse lavoratrici, puntando sui suoi strati ideologicamente e politicamente più deboli, in modo da arrivare alle vicine scadenze contrattuali con le masse lavoratrici divise ed una “destra” organizzata nei luoghi di lavoro e nell'ambito sociale.
Il liberismo goverativo è al servizio di questa prospettiva.
Gli attacchi economici, sociali e politici servono infatti, facendo leva sulla paura, a immobilizzare la grande massa dei lavoratori e a “staccarla” dagli “estremi” progetti rivoluzionari, oggettivamente in campo, cioè dall'ipotesi ed azioni più incisive di neoistituzionalità popolari che esprimono bene l'estraneità ed ostilità verso il sistema dei partiti e le istituzioni borghesi, Da questo punto di vista le avanguardie rivoluzionarie non intendono farsi calpestare. Terzo obiettivo è quello di creare nei rioni popolari punti di riferimento organizzati per svolgere un intervento “politico” demagogico e qualunquista di disturbo in vista delle elezioni. Infine, ultimo obiettivo è la costruzione — a lato dello stato — di una forza combattere clandestina in grado di sviluppare, secondo le necessità politiche generali, sia una attività terroristica vera e propria, sia una attività di provocazione — in combutta con gli organi della repressione poliziesca — contro le forze che si battono per affermare nel movimento di resistenza popolare la necessità del passaggio alla lotta antagonistico-duale.
Tutti questi obiettivi hanno un elemento comune: la volontà di annientamento della sinistra rivoluzionaria e di neutralizzazione della sinistra istituzionale. Opporsi a questo progetto non basta.
Ciò che va sostenuto è che questa opposizione deve avere un respiro strategico, deve cioè essere una opposizione antagonistico-duale. Lo scontro con il neofascismo è un momento della lotta di classe, è un passaggio obbligato del movimento di resistenza popolare nella sua lunga marcia per edificare un potere proletario e comunista. Come tutte le guerre essa va combattuta oltre che sul piano politico e ideologico anche e soprattutto sul piano antagonistico-duale. Essa è cioè un fronte della lotta per la sopravvivenza civile. Detto questo, si capisce perché, l'obiettivo in questa lotta non è quello del PD o di altre forze democratiche “sinceramente antifasciste”, di denunciare le violenze dell'ingiustizia facendo inchieste e dossier per chiedere allo stato di intervenire a difesa della legalità repubblicana per finire di eternare la condizione di sfruttati. I proletari non hanno stato: lo subiscono! Lo stato per chi lavora non è altro che l’organizzazione della violenza quotidiana. Per questo i proletari non intendono più chiedere autorizzazioni a nessuno per esercitare in modo diretto la loro infinita potenza; per amministrare questa potenza secondo i criteri della giustizia che nasce in mezzo al popolo. L'antagonismo duale al neofascismo e allo stato imperialista è una conseguenza inevitabile della militarizzazione del regime economico-sociale liberista che caratterizza questa fase dello scontro di classe. Essa non avrà tregua né potrà cessare fino a che i l'attuale apparato statale non sarà superato irreversibilmente. C’è chi dice che con le elezioni si possono cambiare le cose, che la “rivoluzione” si può fare anche con la scheda elettorale. Noi non ci crediamo. L’esperienza già fatta dopo la guerra di liberazione partigiana non può essere nascosta. La conosciamo tutti: abbiamo consegnato il fucile e da quel momento ci hanno sparato addosso! Quanti morti nelle piazze dal ‘43? Quale il nostro potere oggi? L’esperienza della lotta di classe nell’epoca dell’imperialismo ci insegna che la classe operaia e le masse lavoratrici non possono sconfiggere la borghesia partecipando al rito democraticista delle lezioni. Questa è una legge marxista, non una opinione. Non siamo astensionisti. Non siamo per la scheda bianca. Ma diciamo a tutti i compagni, con chiarezza, che il voto oggi divide inutilmente la sinistra rivoluzionaria; che il voto non paga la nostra richiesta di potere; che non è col voto che si combatte la controrivoluzione che striscia in tutto il paese. Unire la sinistra rivoluzionaria nella lotta antagonistico-duale contro il neofascismo e contro lo l'imperialismo delle multinazionali che lo produce, è il compito attuale dei militanti comunisti. Liberare le grandi fabbriche ed i rioni popolari dalle carogne fasciste; strappargli di dosso con rapide azioni partigiane le pelli di agnello di cui si ammantano in questi tempi di elezioni; mettere a nudo con fulminee azioni le complicità nascoste, i legami sotterranei, le trame reazionarie che uniscono i padroni, lo stato e l’esercito nero SONO ESIGENZE GIA MATURE NELL’ANIMO DELLE GRANDI MASSE POPOLARI. Ma le forze rivoluzionarie devono, adesso, osare. Osare combattere. Perché nessun nemico è mai stato abbattuto con la carta, con la penna o con la voce; e a nessun padrone è mai stato tolto il suo potere con il voto!

lunedì 12 novembre 2012

Dal 14 Novembre internazionalista, un percorso verso il “campo base”

I proletari devono perdere la brutta abitudine, contratta con la frequentazione dei partiti revisionisti e dei sindacati confederali, del “far politica” e cominciare a pensare e ad agire nei termini di “rivoluzione”. Questo vuol dire che vita privata e vita pubblica, dimensione interiore e dimensione esteriore del proprio essere sociale devono essere composti e riarmonizzati. La rivoluzione non si può fare part time e per i proletari non c'è neppure la settimana corta; vuol dire ancora che ci si responsabilizza in prima persona rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti omologanti di subalternità classista, e ci si rende conto delle scelte che si riterranno più opportune per moficare radicalmente ed irreversibilmente lo stato presente di cose. Inoltre, la “calamità occorsa nel 1989” avrà pure una sua “ragione”; comunque, bisogna farsene una “ragione” piuttosto che rimenere ancora ad “osservare inorriditi gli effetti devastanti” del crollo murario. I punti di riferimento dei proletari coscienti della propria condizione e della situazione economico-sociale sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti antagonisti metropolitani; in una parola la tradizione scientifica del movimento operaio e rivoluzionario internazionale. È necessario capire bene la seguente affermazione: “per favorire il processo rivoluzionario, occorre riappropriarsi delle esperienze del passato, a cominciare dall’organizzazione politica per finire nell’edificazione reale del socialismo, dove il proletariato ha dimostrato di aver affrontato correttamente le questioni poste all’ordine del giorno dal progresso umano”. Questo vuol dire anche che non vanno accettati in blocco gli schemi che hanno guidato le organizzazioni operaie ed i partiti comunisti europei nella fase otto-novecentesca della loro storia soprattutto per quanto riguarda la questione del rapporto tra organizzazione politica di massa e organizzazione pratica della rivoluzione, secondo la concezione di Lenin e le prassi che è stato in grado d'adottare per vincere.
Con la crisi del capitalismo globale ed il massacro sociale, spacciato dai governi in carica per “risanamento” dei debiti sovrani degli Stati – attestati mediamente intorno al 120% del PIL -, con il permanente ricatto “democraticista” di nuove elezioni politiche foriere di chissà quali sorti magnifiche e progressive, la dittatura borghese del capitale nazionale e multinazionale cerca di frenare lo sviluppo delle lotte proletarie e delle soggettività antagoniste. Ora, vuole ottenere la “pace sociale” per rideterminare forme di dominio assoluto, per organizzare “territori programmati per la quiete” non più attraverso un progetto “riformista” e “socialdemocratico”, ma con il progetto della restaurazione integrale del “comando capitalista” guidato della “destra liberista”, braccio armato delle multinazionali e dei direttori finanziari sovranazionali. Per quanto abituati al linguaggio criptico degli agenti politici del capitale globale, la resistenza popolare all'incedere delle crisi ristrutturativa dell'impresa multinazionale non si perde in quel fiume di parole nelle quali i destinatari possono oggi scorgere amare menzogne, intenti manopolatori e inibizione dell'immaginario trasformativo. Nel parlamento italiano, con l'unione delle forze che hanno determinato l'operare del governo Monti, si è realizzata l'evidenziazione del contrasto sociale tra classi contrapposte, del conflitto tra Stato e popolo, tra direzione capitalistico-borghese dell'economia ed antagonismo delle forme delle moltitudini in rivolta. Nei tribunali, con i magistrati che amministrano la “giustizia” perseguendo i senza denaro. Nei quartieri, con la polizia e con i fascisti che collaborano sempre più strettamente per stroncare il movimento di resistenza popolare. Nelle fabbriche, con i padroni che licenziano e discriminano gli operai d'avanguardia; con la polizia e i fascisti armati che attaccano i picchetti; con i sindacati collaborazionisti. Di fronte a questo progetto, che ha come base la repressione del conflitto, la risposta dei comunisti e resistenti non può essere il voto. Compito fondamentale è ora organizzarsi e organizzare la lotta di classe per schiacciare tutti i nemici del popolo. La crisi irreversibile che l'imperialismo sta attraversando mentre accelera la disgregazione del suo potere e del suo dominio tradizionale basato sulla “mediazione politico-partitica”, innesca nello stesso tempo i meccanismi di una profonda ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il paese sotto il controllo totale delle centrali del capitale multinazionale e soggiogare definitivamente il proletariato. La trasformazione nell'area europea degli Stati-nazione di stampo liberale in Stati imperialisti delle multinazionali (Sim) è un processo in pieno svolgimento anche in Italia. Il Sim, ristrutturandosi, si predispone a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economico-strategici globali dell'imperialismo, e allo stesso tempo ad essere organizzazione della contro rivoluzione preventiva rivolta ad annichilire ogni “velleità” rivoluzionaria del proletariato. Per trasformare il processo di guerra civile strisciante, ancora disperso e disorganizzato, in una offensiva generale, diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare e unificare il movimento di resistenza proletario offensivo costruendo l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, il “campo base” proprio. Movimento e partito non vanno però confusi. Tra essi opera una relazione dialettica, non un rapporto di identità. Ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l'avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria e organizzazione stabile e infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario. Agire da partito vuol dire collocare la propria iniziativa politica generale all'interno e al punto più alto dell'offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ogni congiuntura, ad essere, così, di fatto, il punto di unificazione del dell'antagonismo diffuso, la sua prospettiva di potere. Milioni di lavoratori e i comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di questi anni non possono più aver fiducia nella “mediazione politico-sindacale” che ha creato intenzionalemente le condizioni di confusione e distorsione degli interessi di classe da parte degli anticomunisti di destra e di sinistra. Per le masse l'organizzazione politica metropolitana vorrebbe dire estensione quantitativa del modello e della pratica della lotta politica per il comunismo, perché consentirebbe di affondare la progettualità del programma e delle pratiche rivoluzionarie nel cuore pulsante della classe.
L'arma della critica non è mai stata sufficiente a gestire il salto al contropotere proletario, bensì ha anestetizzato essenzialmente una pratica sociale unitaria di coscientizzazione. L'agire da partito irradia la consapevolezza, la conformità degli scopi, la progettualità del programma lungo tutto l'arco delle contraddizioni di classe all'interno di tutte le figure della composizione di classe e in tutte le determinazioni dell'antagonismo diffuso. Il tutto non in maniera pedagogica o nostalgica, ma dirigendo sempre più estese e profonde pratiche di contropotere e trasformazione sociale; è in questo modo che la classe si renderebbe sempre più consapevole della sua missione storica e dell'immane opera di autentica rivoluzione globale cui deve attendere. Il salto politico-organizzativo in seno alle masse significherebbe dar corso, attuazione e sviluppo a questa opera di rivoluzione globale nel divenire delle contraddizioni di classe; col dischiudersi di orizzonti così ampi, il soggettivismo, lo spontaneismo, il “delirio comunicativo” indotto dagli stessi social network e l'organizzativismo plateale sarebbero definitivamente spiazzati. Concludendo, questo procedere intenzionale verso la rivoluzione proletaria è un patrimonio incancellabile della lotta di classe e della storia delle organizzazioni comuniste. Viene affermato che lo sviluppo della lotta di classe ha storicamente affinato e perfezionato la teoria-prassi e la metodologia politico-organizzativa di costruzione del partito. Questa teoria-prassi e questa metodologia sono, insieme, un caposaldo da cui non è possibile prescindere. Ci si riferisce ai principi strategici unità-crisi-unità e lotta-critica-trasformazione. La battaglia politica così condotta chiarisce in termini di unità-crisi-unità e di lotta-critica-trasformazione la linea corretta e quella sbagliata. Isola la linea errata e la sconfigge e dunque recupera, riunifica e assesta tutta l'organizzazione sulla linea corretta. La battaglia politica serve a determinare nuove unità a un livello superiore, dentro sintesi generali che rideterminano, congiuntura dopo congiuntura, il programma strategico dell'organizzazione comunista.