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mercoledì 8 marzo 2017

Lotte a Marzo e nei mesi successivi ...

In almeno 40 paesi in tutti i continenti l'8marzo sarà sciopero delle donne. Sciopero contro l'oppressione e la violenza esercitata sulle donne dai maschi. Sciopero contro le discriminazioni e lo sfruttamento che il capitalismo liberista impone in particolare alle lavoratrici, nel nome della flessibilità e della produttività a tutti i costi.
Sciopero contro le discriminazioni salariali e gli orari assurdi che costringono le donne a un doppio carico di fatica sul lavoro produttivo e su quello riproduttivo e di cura. Sciopero contro i tagli allo stato sociale che sulle donne si scaricano il doppio come danni alla vita e come fatica in più per accudire di più chi meno viene accudito. Sciopero contro la cancellazione dei diritti conquistati con tanta sofferenza, come quello alla tutela pubblica dell'aborto.
Sciopero contro la mercificazione del corpo delle donne, dove il peggio del dominio del maschio si unisce al peggio del dominio del mercato.

giovedì 12 luglio 2012

Brano in premessa del nuovo pamphlet di Giovanni Dursi

"La prima idea da dimenticare, quando si comincia ad occuparsi della “trasformazione sociale” ed a viverla quotidianamente, è che la “politica” possa essere un quieto mestiere con cui si costruiscono perfetti edifici di parole.
Le passioni che animano l'attività trasformatrice della presente realtà sociale non sono alimentate dalla “necessità di pensiero”; semmai, alcune fantasie e visioni corroborano, come “gioco di pensiero”, il concreto percorso antagonistico-duale di fuoriuscita dall'atrocità d'una condizione materiale che codetermina forme individuali di vita da negare e formazioni economico-sociali da mutare radicalmente ed irreversibilmente.
L'antagonismo sociale post-novecentesco si caratterizza con tipiche operazioni multidimensionali – dal tradeunionismo rivendicativo di natura ecnomico-normativa alla lotta armata antisistema – la cui meta è originare una “crisi del quadro politico strutturale” all'interno d'una generale “crisi di situazione e coscienza”, altrimenti è un fallimento.
Il surrealismo del sedicente antagonismo “simbolico”, veicolato per lo più da “eventi flashmob”, non si addice bene alla “trasformazione sociale”. La pianificazione trasformativa, viceversa, riesce ad organizzare, scuotendo energie proletarie di massa, un interesse pubblico crescente verso la ribellione materiale-coscienziale scoprendone criticamente la sua finalità – il potere politico – per troppi decenni assurdamente emarginato dal vivo della lotta di classe, non a caso anche dalle più alte personalità culturali contemporanee che al surrealismo del sedicente antagonismo “simbolico” si richiamano legittimandone la dispersione di energie eversive.
Da Atene, a Parigi, a Roma, Madrid e altrove in Europa le lotte sociali e le pratiche eversive, solo quando si amalgamano all'ingegno multiforme d'una organizzazione politica rivoluzionaria, rendono la “trasformazione sociale” il terreno privilegiato d'una straordinaria avventura dell'intelligenza umana, liberata dalle retoriche manipolatrici del “riformismo” e dello “spontaneismo”, dalla banalità anastetizzante delle “compatibilità”, dalle consuetudini di certa intelligencija ribellistica ed estetizzante che mal interpreta il concetto marxiano di general intellect che nei Grundrisse è definito come sapere sociale diffuso che il “capitale” valorizza per i suoi scopi, in particolare ai fini dello sviluppo tecnico-tecnologico quale fattore cruciale nella produzione (combinazione di competenze tecnologiche e dell'intelletto sociale, o sapere sociale generale che determina la crescente importanza delle macchine nell'organizzazione sociale) (1).
Consuetudini, queste ultime, mortificanti e, a volta, addirittura annichilenti, quando ancora oggi, tutti i giorni, c'è chi si reca negli altiforni e chi presso le postazioni informatico-telematiche a scrivere desiderando “dare forma all'informe e coscienza all'incosciente”.
La “trasformazione sociale” non prevede romanticismo, né “naturale” evoluzione del sistema produttivo-sociale vigente immaginandone un'imminente implosione.
La “trasformazione sociale” è una complessa costruzione umana, che smonta l'ovvia apparenza della realtà percepita come immodificabile ed insuperabile, stabilisce nessi innovativi tra struttura e sovrastrutture, coglie riferimenti ed analogie tra accumulazione indefinita di ricchezze (economia) e incremento delle conoscenze (cultura), che un'esigua parte del “corpo sociale” realizza, mentre, dall'altra la parte più consistente subisce sfruttamento intensivo e continuo ed alienazione, individua codici nei quali esprimere prassi che sfuggono alla colonizzazione della ragione capitalistica che aprioristicamente incede nel delimitare la sfera dell'esistenza delle moltitudini sottoponendole al dispotismo della sua logica e del suo “sistema valoriale”.
L'antagonismo si spinge nelle zone ignote o volutamente ignorate e proibite delle contraddizioni sociali che le convenzioni politico-partitiche e sindacali esorcizzano come “mistero delle cose”, in modo da imporre all'immaginario di massa ed allo stesso “indefinito interiore” un'immagine riflessa, da parata, da rappresentazione essitenziale alla Truman Show della condizione umana dentro cui soffocare, rimuovere, negare, celare tutta la “realtà altra”, quella del conflitto e della librazione possibile.
..."
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(1) È a tal proposito che Paolo Virno scrive (in "General Intellect" in Lessico Postfordista- Dizionario di idee della mutazione, Milano, Feltrinelli, 2001), adattando il concetto all’attuale epoca post-fordista, del lavoro immateriale: “Il lavoro vivo incarna, dunque, il general intellect o “cervello sociale” di cui ha parlato Marx come del “principale pilastro della produzione e della ricchezza”. Il general intellect non coincide più, oggi, con il capitale fisso, ossia con il sapere rappreso nel sistema di macchine, ma fa tutt’uno con la cooperazione linguistica di una moltitudine di soggetti viventi”.

venerdì 20 aprile 2012

Inesorabilmente verso la Grecia . . . Non rassegnamoci al "fumus democratico" ! Ribelliamoci !

La lenta e progressiva opera di massacri sociali del “Governo Monti” (sostenuto da tutte le opzioni politico-partitiche parlamentari, collocate sia in “maggioranza” che all'”opposizione” nel teatrino istituzionale-mediatico ove quotidianamente si rappresentano “truffe” legislative ed appropriazione indebita di denaro pubblico)
conduce anche la metropoli italiana alla “situazione greca”. La disoccupazione dilagante aumenterà grazie alla modifica padronale dell'art. 18 e, dal '94, si è già arrivati, accanto all'”incerta” entità degli “esodati” (veri e propri deportati dal lavoro e dal Welfare), a tre milioni di persone che non hanno più assoluta possibilità di lavoro o reddito.
In queste ore, la repressione politica prosegue e si acuisce effettuando perquisizioni ed arresti in sei città per l'inchiesta in corso sugli scontri a Roma in ottobre durante le manifestazioni popolari. L'antagonismo sociale – altra cosa rispetto alla retorica ed alle prassi della cosiddetta “antipolitica” che parteciperà, in tutte le sue espressioni organizzate, anche alle prossime elezioni amministrative e, più in generale, al gran rito della “democrazia reale” che altro non è che l'esproprio legale di diritti e del protagonismo decisionale e neoistituzionale della classi sociali subalterne – è davvero di fronte ad un bivio: l'organizzazione politica della sollevazione delle masse in rivolta oppure la rassegnazione autolesionistica al “fumus democratico”.
Ribellarsi ora – in tutte le forme auspicabili contro le “autorità costituite” rifiutando concretamente e risolutamente di sottomettersi volontariamente al massacro sociale - è giusto e doveroso passando da una fase di “resistenza” all'incedere della “crisi” ad una fase di fuoriuscita politica. Si tratta di lavorare oggi per contribuire a rinsaldare quel tessuto di solidarietà militante, confronto politico, unità e alleanza, contando sul fatto che la crisi della borghesia e la tendenza alla guerra, favoriscono come non mai la convergenza di interessi e l'alleanza del proletariato internazionale con i popoli, e le forze antagoniste che in tutto il mondo lottano contro il capitalismo multinazionale.
Il capitalismo, allo stadio dell'imperialismo delle multinazionali, ha creato un sistema di rapporti talmente integrato che il suo sviluppo può avvenire solo accrescendo tanto le dimensioni, quanto la forza di coesione dell'interdipendenza. Questo sistema di relazioni, non elimina certo le contraddizioni e i motivi conflittuali, ma impedisce ad ogni Stato-membro una sua collocazione all'esterno della catena d'appartenenza, e una diversa politica di alleanze.
Questo perché il carattere unitario della catena non riposa su accordi politici o diplomatici, ma su caratteristiche strutturali e su una divisione internazionale del lavoro e dei mercati determinate dallo sviluppo che il capitale ha raggiunto. La consapevolezza che ne deriva obbliga tutte le soggettività antagoniste a "fare la rivoluzione nel proprio paese" e "contare sulle proprie forze", come è altrettanto vero che la condizione per poter fare una rivoluzione è legata allo stato generale dei rapporti di forza tra borghesia imperialista e proletariato internazionale; all'acutizzarsi della crisi economica e politica dell'imperialismo dominante; nonché alle modificazioni che questo subisce in campo mondiale. Nell'immediato, condividiamo l'Appello per la costituzione del Comitato promotore del Movimento “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO” . Il comitato promotore intende indicare una prima tabella di marcia del percorso da avviare di costituzione del Movimento nazionale “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO”. Le valutazioni sull'andamento della lotta poltica in Italia sono tutte positive sia per la partecipazione numerica che per lo spirito unitario delle iniziative sociali conflittuali tendenti a dare corpo all'estraneità ed ostilità verso il sistema istituzionale dei partiti e di tutti gli organismi conservatori della mediazione politica.Le lotte (posti di lavoro, reddito, “stato sociale”, “beni comuni”, diritti, conoscenze) ed il potenziale conflittuale mostrato costituiscono segnali importanti di controtendenza alla rassegnazione rispetto all'incedere della crisi che ben si coniugano con i contenuti antagonisti della realizzazione sul territorio di nuove autentiche istituzionalità popolari. Si invitano tutti a lavorare affinchè si possa dare vita ad un coordinamento per la prima Assemblea pubblica nazionale (Settembre / Ottobre 2012) che fornisca forte prospettiva organizzativa e “gambe” al Movimento “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO” in modo da incoraggiare tutti coloro che – inceerti sul da farsi politico - rischiano di rifluire passivamente verso la partecipazione alla prossime scadenze elettorali, amministrative o politiche. Per questo motivo è indispensabile serrare le fila dell'antagonismo sociale e decisamente – come unico corpo contundente - avviare il passaggio alla costituzione di Comitati popolari di restistenza per la cittadinanza attiva CPRCA, sul modello dei Soviet in modo da fornire alle masse popolari praticabili alternative alle condotte subalterne che lo Stato capitalistico-borghese, operante con sue peculiari forme di dominio nella metropoli italiana, richiede ai cittadini lavoratori.
Il Comitato promotore del Movimento “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO” invita tutte e tutti a:consolidare lo spirito unitario che anima le realtà dell'antagonismo sociale a livello nazionale e a livello locale, cercando in tutti i modi di far convergere le/i singole/i, le forze organizzate e i soggetti che condividono l'obiettivo di realizzare territorialmente Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva CPRCA. Pur prevedendo difficoltà in alcune realtà, va esperito con convinzione e lucidità; convocare entro Giugno 2012 Assemblee pubbliche locali promotrici del Movimento nazionale “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO” e di iniziative politiche che siano a sostegno del progetto. La costruzione dei Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva CPRCA locali, è un tramite fondamentale per dare forza alle concrete vertenze sussistenti territorialmente (esempio, il movimento NO TAV) e sul piano della ristrutturazione dei sistemi lavorativi di produzione (esempio, il “modello Marchionne” alla FIAT) e del sistema di protezione sociale (smantellamento del Welfare universalistico) che rappresentano, nell'insieme, quella “distanza” politico-culturale necessaria all'edificazione di nuove istituzionalità sociali.
Assemblee locali dovranno approfondire la conoscenza dei margini ampliabili di conflitto superando le tendenze trade-unioniste, discutere le priorità immediate ed obiettivi di medio periodo elaborando proposte per un programma d'azione e cominciare ad articolare i Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva CPRCA locali quali embrioni della campagna nazionale per un contropotere popolare “visibile” ed “apprezzabile” dalle masse in rivolta, poiché “luogo” identificabile al servizio ed a tutela delle forme d'esistenza popolari.Da subito, va approntata una bozza di testo (quale contributo, sarà diffuso a breve una prima emendabile “scaletta” di punti) per una diffusione di massa di un apposito Documento di riferimento utile all'organizzazione delle attività del Movimento “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO”. Il Documento (approvato successivamente in via definitiva) va usato come strumento per banchetti e il lavoro di massa sulle parole d'ordine sulla nuova istituzionalità popolare conquistando spazi di comunicazione ovunque sia possibileImportante la partecipazione di tutti all'elaborazione del Documento politico per definire ambiti d'azione e finalità del Movimento “SI ALLA LOTTA, NO AL VOTO”, eventualmente organizzando iniziative di approfondimento conoscitivo mai delegando solo a cosiddetti esperti (economisti, giuristi) o “gruppi di lavoro tematici” il compito di avanzare proposte sull'astensionismo di massa e sulla sua “traduzione” in una rete di CPRCA.

venerdì 24 febbraio 2012

25 Febbraio 2012: Prima Conferenza annuale della Rete dei Comunisti

Dando seguito alle decisioni della terza assemblea nazionale della Rete dei Comunisti, sabato 25 febbraio a Roma si terrà la prima Conferenza annuale che introduce un passaggio nella discussione e nell’elaborazione del percorso politico dell’organizzazione. Alcuni passaggi del documento politico di convocazione della Conferenza nazionale. La Conferenza annuale dei militanti e degli attivisti della Rete dei Comunisti ha l’obiettivo di mettere a bilancio critico il lavoro svolto da aprile dello scorso anno ad oggi e di impostare gli assi strategici del lavoro dei prossimi mesi fino al nuovo appuntamento annuale. “Alla nostra organizzazione serve ormai una discussione profonda e capillare che consenta a tutti i militanti e gli attivisti di avere il quadro generale del funzionamento dell’organizzazione e di come questa agisce concretamente nel conflitto di classe sul piano politico, sindacale, sociale, comunicativo, culturale nella ricostruzione di una soggettività comunista organizzata e attiva” recita il documento politico di convocazione della Conferenza. “Non possiamo nasconderci che il nodo della soggettività, del come una organizzazione comunista agisce effettivamente nella realtà, di come intende far crescere la propria influenza politica e teorica, di come aggrega nuovi militanti e attivisti, di come svolge un ruolo dinamico nel conflitto sociale e nella vita politica del paese (per quanto esso possa essere limitato), rimane il punto da cui far derivare il confronto e la crescita dei compagni e delle compagne che hanno costruito in questi anni la Rete dei Comunisti”. Relativamente al nodo della soggettività, viene annunciato il secondo Forum su “Partito e Organizzazione” in cantiere per primavera, che – secondo la Rete dei Comunisti - consentirà di riprendere e approfondire l’elaborazione politica e teorica avviata e di mettere a confronto con altre tesi la concezione della “funzione di massa” a cui dovrebbe aspirare una organizzazione di quadri comunisti che agisce nella realtà italiana ed europea del XXI Secolo”. Nel documento si riafferma la concezione di un progetto politico che, come è noto, è stato delineato sulla base di tre fronti distinti: strategico, politico e sociale e che “sembra ancora reggere alla verifica della realtà, ma, spesso, non possiamo negare che le accelerazioni della realtà stessa e la accentuata politicizzazione di tutti i processi sociali in corso, costringono a mettere a verifica" "In questo stretta connessione tra teoria e prassi, sta ancora il punto di forza di una esperienza, originale ed inedita anche se confrontata alle stesse modalità classiche del movimento comunista internazionale, come la Rete dei Comunisti”.
La prima Conferenza nazionale del 25 febbraio si appresta dunque a discutere molto dell’organizzazione, di come si è strutturata, di come funzionano politicamente le varie strutture e di come hanno agito nei vari settori di lavoro: Il ruolo dei compagni della RdC nel lavoro di massa sociale, sindacale e politico, gli strumenti di comunicazione (giornale, rivista, radio), l’attività internazionalista, la formazione teorica, l’ambiente, l’intervento nel settore giovanile e studentesco ovvero i settori di lavoro decisi alla terza assemblea nazionale della Rete dei Comunisti svoltasi nell'aprile dello scorso anno. Sulla fase politica la Rete dei Comunisti, centra la attenzione soprattutto sulla dimensione europea dei processi incorso ritenendo che sia ormai evidente come “le classi dominanti in Europa stiano utilizzando la crisi in corso per rafforzare tutti gli apparati economici, finanziari, politici e militari per affrontare l’accentuarsi della competizione globale con le altre aree monetarie ed economiche intorno alle quali si vanno ri/definendo i vari poli imperialisti in competizione. L’accelerazione dei processi di concentrazione e centralizzazione politica e finanziaria nell’Unione Europea sono funzionali a questo obiettivo. E’ indubbio che in tale processo un ruolo di punta venga svolto dal grande capitale tedesco che fa convergere intorno a sé i maggiori gruppi capitalisti francesi, italiani e di altri paesi minori, assumendo tendenzialmente le caratteristiche di un capitalismo europeo integrato all’interno e quindi adeguato per “internazionalizzarsi”, anche in forme più aggressive, sul piano globale”. La vicenda greca, secondo la RdC, è indicativa della relazione che il rafforzamento del “centro” imperialista europeo intende stabilire verso i paesi più deboli dell'area. “Come tutti i processi anche questo non avviene linearmente ma attraverso scontri e contraddizioni che dislocano, comunque, in avanti gli obiettivi da raggiungere. L’unica certezza è che persistono aree economicamente più deboli dell’Europa che verranno sacrificate a tutto tondo da questo processo di gerarchizzazione e verticalizzazione dell’Unione Europea. I paesi dell’area dei Piigs sono destinati a diventare una periferia interna con un sistema di salari, condizioni lavorative, welfare state e prezzi ridotti con le liberalizzazioni e la concorrenza selvaggia funzionale alla competizione globale. L’innalzamento relativo degli standard sociali nei paesi dell’Europa dell’Est (anche qui oggi rimesso in discussione dalla crisi) e l’abbassamento di quelli dei Piigs, devono trovare un loro punto di equilibrio al ribasso che consenta al “nucleo duro” europeo di poter disporre di tutti gli strumenti per cercare di ricostruire i margini di accumulazione necessari alla tenuta dell’assetto imperialistico. La destrutturazione delle economie dei Piigs, dei residui della presenza dello Stato nell’economia, ha la necessità di procedere sulla strada delle privatizzazioni e della rottura di ogni rigidità salariale o contrattuale del lavoro”. Netto è il giudizio sul governo Monti, al quale le classi dominante hanno affidato il lavoro sporco. “Occorre segnalare – sostiene il documento politico della RdC - come Monti disponga di un margine di manovra migliore di quello della Merkel e di Sarkozy che devono fare i conti con le elezioni alle porte, mentre Monti – al momento – non ha di questi problemi e non deve rendere conto, almeno immediatamente, a nessun elettorato. Tale “punto di forza” di Monti, è stato sottolineato di recente dal Financial Times ed è alla base della “speciale attenzione” che la stessa amministrazione Usa riserva al primo ministro italiano, il che spiega anche la speciale relazione tra Monti e la Gran Bretagna dentro le storiche e crescenti divaricazioni che questa sta accentuando nel suo rapporto con Francia e Germania sui nuovi Trattati Europei. Se queste osservazioni sono realistiche, significa che lo scenario politico più probabile con cui dovremo fare i conti in Italia nei prossimi mesi, sarà quello di un governo che andrà avanti fino alla fine della legislatura (2013) e che utilizzerà questa condizione di sospensione della democrazia rappresentativa (pienamente legittimata da Napolitano) per avanzare nel “lavoro sporco” sul piano economico e sociale. Il segnale inviato ai sindacati Cgil Cisl Uil sul versante attinente il metodo della concertazione la quale non sarà più interpretata come un passaggio obbligato per i governi, è indicativo”. Una attenzione particolare viene rivolta ai conflitti sociali esplosi di recente in settori diversi da quelli tradizionali del lavoro salariato o organizzati contrattualmente, conflitti che sono la risultante del “processo di destrutturazione delle classi medie, una parte delle quali vengono proiettate verso una condizione di “proletarizzazione” dalle misure fiscali e dalle liberalizzazioni imposte dal governo (taxisti, autotrasportatori, coltivatori diretti, piccoli imprenditori etc.) ma anche dalla brusca restrizione delle politiche del credito da parte del sistema bancario”. Il documento sottolinea anche delle preoccupazioni, perchè “in questi settori investiti dalla crisi e dalle misure imposte dall’Unione Europea, può radicalizzarsi un movimento reazionario di massa che fino a ieri agiva solo sul piano ideologico ed elettorale (questi soggetti erano infatti gran parte del blocco sociale berlusconiano e sono da sempre bacino elettorale della destra), ma che oggi può diventare anche “movimento” nel senso delle piazze, delle strade, del territorio e del “territorio politico e sociale” in cui siamo chiamati ad agire” ragione per cui “senza una analisi chiara e una azione conseguente sul piano politico, sociale e sindacale, tale situazione non può che peggiorare. I ceti medi sono stati “proletarizzati” loro malgrado e sul piano ideologico si rifiuteranno fino all’ultimo minuto di percepirsi come tali e di guardare quindi a possibili alleanze sociali con i lavoratori salariati o con istanze collettive non corporative” soprattutto se a questa “identità spuria e bastarda”, anche sul piano ideologico, non si palesano alternative forti sul profilo identitario, ideologico, organizzato e conflittuale. Secondo la Rete dei Comunisti “La ricostruzione, , un blocco sociale anticapitalista dopo una infernale spirale di competizione al ribasso, dovrà fare i conti con un passato recente di scontri e divaricazioni di interessi, il quale potrà essere superato in avanti solo attraverso una nuova connessione politica e sociale contro i comuni avversari ben oltre ogni nicchia corporativa e/o territoriale”. Sui movimenti come i Forconi la RdC ritiene che “è stato un errore, come ha fatto gran parte della sinistra, esorcizzare i movimenti sociali “spuri” messi in campo in Sicilia o in altre aree dai ceti medi proletarizzati dentro i quali è forte una ideologia reazionaria e individualista. Negli anni ’70 si poteva giocare e si è giocata la carta del movimento operaio organizzato e della sua egemonia nella società. Ma nel XXI Secolo, dopo i decenni delle grandi ristrutturazioni a scala globale, questa carta – e soprattutto la sua egemonia – è stata profondamente destrutturata dalla frammentazione di classe e dal disarmo ideologico introdotto dai partiti della sinistra e da Cgil Cisl Uil”. Nel percorso sul quale la prima Conferenza nazionale della Rete dei Comunisti è chiamata a discutere per delineare l'azione politica dei prossimi mesi, viene ribadito che “non dovremmo discostarci dalla linea di condotta seguita in questi anni e cioè l’eventuale sostegno solo a candidati o liste chiaramente alternative e indipendenti da ogni forma di alleanza e di subalternità con il Pd. La funzione della RdC non può che essere quella di favorire la polarizzazione politica piuttosto che la sua ricomposizione dentro alleanze che hanno corrotto politicamente e culturalmente le esperienze della sinistra alternativa spezzando in più punti la relazione con il blocco sociale anticapitalista”. Sul piano strategico riteniamo che sia ancora del tutto inadeguato il dibattito e il confronto sulla riunificazione delle forze comuniste nel nostro paese. Da un lato si consolida la frammentazione dentro e fuori Prc e PdCI, sia tra correnti sia tra le nuove formazioni che sono nate. Dall’altro questa discussione continua a prescindere da qualsiasi confronto di merito sui nodi strategici, sulle novità intervenute e prescinde da qualsiasi bilancio autocritico. Il fronte della rappresentanza politica continua a offrire spazi reali, accentuati dalla crisi e da come questa scompone, distrugge e ricompone la rappresentanza politica dei settori sociali in lotta per sopravvivere o per affermarsi come egemoni. Da un lato serve accumulare le forze in alleanza con altre soggettività; dall’altro non possiamo che agire affinché un pezzo della sinistra e dei movimenti rompano con il politicismo e sintonizzino la loro azione con i settori popolari sulla base dell’autonomia e dell’indipendenza. Il documento entra poi nel merito delle proposte di lavoro a tutto campo – da quello sindacale a quello metropolitano, dall'attività internazionalista all'informazione. Ma questo attiene al dibattito interno al quale tutti i militanti e gli attivisti vengono chiamati a dare un contributo concreto nella Conferenza nazionale del 25 febbraio.

martedì 6 settembre 2011

Sull'emancipazione sociale

Prospettive dell'emancipazione sociale a partire dal sollevazioni e mobilitazioni di massa nell'area euro-meditterranea - "Quelli che in vengono denominati "movimenti sociali", sono anzitutto azioni collettive improvvise e intermittenti di insubordinazione sociale contro il capitale e le specifiche modalità neoliberiste di dominazione. Volendo distinguere i tratti emancipativi, i limiti e le difficoltà della mobilitazione e delle sollevazioni indigene e popolari nell'area euro-meditteranea nell'ultimo decennio, vanno indagate le potenzialità e difficoltà di fronte alle quali le attuali modalità collettive di intervento e partecipazione antagonistica e/o autogestita nei temi politici e, in generale, nella vita pubblica dei diversi paesi, si trovano di fronte. L'obiettivo è presentare in maniera ordinata una serie di categorie e distinzioni basilari, al fine di rendere intelligibile il conflitto sociale contemporaneo, e affrontare la questione della emancipazione sociale. Questa tematica, sotto la prospettiva dei molteplici movimenti sociali di disobbedienza all'ordine capitalistico nel nostro continente, si caratterizza per due difficoltà principali: 1. il problema della relazione tra la costruzione dell'autonomia locale e l'autogestione di certi ambiti della vita sociale, e il confronto con lo sfruttamento e il dominio del capitale a livello generale -- in ogni singolo paese e nel mondo globalizzato. Cioè, la questione di trovare una soluzione al problema dell'articolazione delle lotte a partire dalla loro autonomia. 2. Il problema del potere, cioè, la questione dei modi più pertinenti di costruire nuove forme di autoregolazione della vita sociale che non si cristallizzino in nuove modalità di dominazione. È possibile presentarecc sette tesi sulla resistenza e la emancipazione possibile e una ipotesi per pensare il cambiamento.

Tesi 1

Quelli che vengono denominati "movimenti sociali", sono anzitutto azioni collettive improvvise e intermittenti di insubordinazione sociale contro il capitale e le specifiche modalità neoliberiste di dominazione consolidatesi in

■modificazioni nell'uso della forza lavoro che apre la porta a nuove e più acute forme di sfruttamento

■il saccheggio e l'espoliazione di beni comuni (acqua, gas, biodiversità, etc.), e lo smantellamento generale di ciò che fu ricchezza e spazio pubblico

■la privatizzazione istituzionalizzata che regolamenta e sanziona i modi di partecipazione alla vita pubblica, criminalizzando qualunque altra forma di intervento sui temi comuni.

Tesi 2

Una determinata forma di insubordinazione sociale sorge quando un eterogeneo conglomerato di persone, collettivi e gruppi si dota di un obiettivo negativo che attacchi aspetti precisi di qualcuna delle tre fondamenta dell'offensiva neoliberista menzionate, e produce una vasta lotta di resistenza che, in genere, straripa oltre l'intreccio istituzionale e normativo dominante e accettato come legittimo in ognuno dei paesi dove ha luogo (il caso delle lotte per l'acqua in Bolivia è paradigmatco di questo tipo di movimenti). Un altro tipo di movimenti ha tratti più stabili, il grado di coesione interna tra i suoi membri è più denso e si propone obiettivi non meramente definiti dalla negatività e l'antagonismo, e può stabilire "idee forza" positive per riconfigurare ambiti più ampi dello spazio sociale (la ribellione delle frammentate comunità metropolitane, è un esempio paradigmatico di questo tipo di movimenti).

Questo tipo di tipologia dei movimenti contemporanei di insubordinazione può costruirsi precisando alcuni tratti che li differenziano, come per esempio la loro "volatilità", cioè, il loro grado di coesione e condensazione interna; se privilegiano o no azioni di confronto con l'ordine del capitale, o la costruzione di autonome relazioni sociali distinte su un determinato territorio, i loro modi di confluenza e interconnessione con altri movimenti, cioè se privilegiano una sintonia temporanea delle proprie azioni collettive o se piuttosto si concentrano sullo stabilire-inventare certe forme di occupazione territoriale definita, etc. Il compito di costruire una tipologia non è una mera oziosità accademica se contribuisce alla comprensione delle diverse meccaniche -- non lineari, in alcun caso -- della resistenza e dell'insubordinazione. Il primo tipo di movimenti, dunque, sono le azioni collettive a più alto grado di volatilità: dense aggregazioni di uomini e donne che dispiegano sullo spazio pubblico -- la strada, i media, le strutture e istituzioni pubbliche -- la loro azione penetrante, simultanea nel tempo sebbene scarsamente coordinata, esibendo una specifica e stridente "capacità di veto" contro determinati aspetti puntuali, locali, nazionali o globali dei progetti capitalistici.

Questo tipo di movimenti consiste anzitutto nel dispiegarsi collettivo di una enorme carica di energia sociale che destruttura le decisioni e le istituzioni dell'ordine neoliberista: Cochabamba contro la privatizzazione dell'acqua nel 2000 e El Alto nel 2003-2005, l'Argentina nel 2001 contro le misure finanziarie di espoliazione massiccia della popolazione, tra le altre; la rivolta civile di Arequipa contro la privatizzazione dell'energia elettrica nel 2001; e inoltre l'opposizione degli abitanti e vicini di Atenco, ai bordi di Città del Messico, per la privatizzazione delle loro terre da destinare alla costruzione di un aeroporto, la lotta degli studenti nel CGH della UNAM contro lo smantellamento dell'educazione pubblica in Messico, la resistenza contro l'esproprio di terre in Tepoztlán, Morelos, Messico, attuata da comuneros e abitanti delle vicinanze, etc., sono esempi di movimenti di insubordinazione di questo tipo.

Tutti essi sono movimenti di insubordinazione improvvisi e, solo a volte, cumulativi, quasi sempre intermittenti e parziali, che contribuiscono soprattutto a modificare la correlazione di forze esistente in ogni paese dove hanno luogo, arrivando occasionalmente a mettere sotto scacco l'andamento normativo e istituzionale del capitale, e quindi il suo ordine.

In certa misura, è in questo tipo di movimenti che affiora in maniera lacerante la contraddizione dell'epoca: quella tra i popoli poveri, sfruttati, disprezzati e derubati delle proprie risorse, presenti nelle diverse nazioni, e il potere delle imprese multinazionali organizzate intorno ai protetti da parte dello stato nordamericano, i cui interessi e visioni del mondo sono veicolati dai distinti governi dei paesi. Questi movimenti delineano una nuova grammatica, cioè nuove regole per i linguaggi della lotta sociale, che non sono facilmente compresi per il loro carattere fondamentalmente destrutturante dell'ordine dominante, oltre che produttori di socialità positiva. In queso senso, sono movimenti di insubordinazione che modificano profondamente e sostanzialmente la correlazione delle forze in un luogo o in una nazione, sebbene lo facciano in genere durante corti intervalli di tempo. D'altro lato, per il modo come tali movimenti privilegiano l'unione orizzontale delle molteplicità sociali, aprendo la via alla cooperazione per la lotta, e in tanto che rendono più complessa la vita politica di ogni paese creando spazi per la partecipazione politica di strutture sociali prima limitate all'ambito della vita privata -- le famiglie, i vicinati, i gruppi sociali, e una gran diversità di collettivi e comunità --, sono movimenti anche gravidi di possibilità emancipative in germe che, a lunga scadenza, possono modificare in maniera decisiva la correlazione delle forze.

Il secondo tipo di movimento di insubordinazione è meno volatile, cioè, più denso, coeso, e stabile; privilegia la lotta di resistenza e la costruzione di autonomia locale, scava in maniera lenta e persistente nelle relazioni di dominio e solo occasionalmente irrompe in maniera dirompente nello spazio pubblico, presentandosi come soggetto critico che sfida i principali supporti dell'ordine del capitale: la struttura della proprietà, le forme liberali -- privatizzate -- della politica, le stratificazioni razziali della società che sostiene il "colonialismo interno". Esempi di questo tipo di movimento sono i MST brasiliani, l'EZLN messicano e, in certa misura, il movimento rurale aymara in Bolivia, il tessuto sindacale-comunitario dei produttori di coca nel Chapare, e l'organizzazione di resistenza, principalmente quechua, in Ecuador. Tutti questi sono movimenti di più lunga data, con una tradizione di lotta e resistenza sedimentata atraverso le loro precedenti azioni di confronto ed autoconfigurazione, con un grado minore di eterogeneità interna e situati, chiaramente, dentro un canone nazionale di azione politica, senza per questo negare le sue possibilità e capacità -- soprattutto nel caso zapatista -- di aprirsi ad altre problematiche, e di relazionarsi con una molteplicità di lotte di resistenza in altri paesi, con un contenuto molto meno "nazionale".

La virtù di questi movimenti, che in certa misura operano per stabilizzare fluttuazioni e rotture sociali precedenti, è che costruiscono ambiti di resistenza collettiva suscettibili di dispiegarsi, anche ad intermittenza, in azioni più dirompenti che tendono a modificare le correlazioni di forze non in forma convulsa e spasmodica, ma a più lunga scadenza. Intanto occupano territori demarcati con nitidezza, e in essi dispiegano energie che strutturano nuove relazioni sociali che, in maniera completa, trasformano, superano e annullano tendenzialmente certe relazioni di dominio e sfruttamento, o le fanno rivivere sotto nuove funzioni.

Tesi 3

Nei movimenti di insubordinazione del primo tipo, i più volatili e incendiari, non è il successo di una finalità prestabilita che permette di valutarli obiettivamente. Piuttosto, se l'intento è intravedere i tratti emancipativi nel dispiegarsi medesimo dell'azione sociale di insubordinazione, è importante comprendere come i molteplici mosaici mobili del conflitto sociale sfuggano ai diagrammi del potere che li hanno costituiti -- o cercato di costituire -- in frammenti controllabili. Come cooperano tra sé per risovere i problemi comuni. Come i collettivi e i gruppi umani disobbedienti inventano linee di fuga e flussi di forza che destabilizzano e pongono in dubbio l'andamento statale vigente nei suoi aspetti nomativi e istituzionali. Come si appropriano di e ricostituiscono spazi pubblici. Questa prospettiva ci permette di leggere nuovi insegnamenti in un'infinità di esperienze particolari di conflitto contro il capitale per scrutare nella grammatica della emancipazione. Cioè, ci permette di apprendere dalla lotta sociale e non assumere una sterile posizione di "valutazione dogmatica" degli evidenti limiti di cui questo tipo di movimenti soffre.

Tesi 4

In alcuni paesi -- a partire dalla espansione e generalizzazione di un conflitto su risorse naturali decisive -- si produce uno sviluppo di contenuti e significati degli obiettivi iniziali della insubordinazione sociale. Il caso del gas boliviano è paradigmatico: da "NO alla vendita del gas" come idea mobilizzatrice da prima del 2003, si è passati all'idea di "riappropriazione sociale delle risorse naturali" e all'impostazione della "nazionalizzazione del gas" e dell'"Assemblea Costituente -- originaria e sovrana". Inoltre, l'esperienza boliviana recente ci colloca nella problematica del transito dall'esistenza di capacità di mobilitazione e intervento collettivo nelle tematiche comuni, sufficienti per bloccare i piani dei governi, uno dopo l'altro, alla questione di come questa "moltitudine in atto" si erige sovrana oltre i limiti del conflitto. Cioè, la questione del potere.

In generale, lo sviluppo degli obiettivi del movimento nella Bolivia di oggi, gira intorno ai vari modi in cui si soddisfano le necessità, aprendo spazi a nuovi conflitti e dando luogo a paradossi. Il caso del gas e dell'acqua in Bolivia è il più chiaro su questa questione. Il paradosso, qui, riguarda il soggetto dell'azione sovrana di recupero di ciò che è stato dato via, cioè, chi è tenuto a nazionalizzare, a riappropriarsi della riccheza comune: è alle popolazioni, alle comuntà locali, ai comuneros, ai lavoratori, ai cittadini politicizzati in senso antiliberista, che corrisponde la prerogativa di far valere la proprietà della ricchezza comune, includendo la potestà di decidere su tutto lo spettro dell' attività produttiva, della sua gestione, destino e usufrutto... o è lo Stato, cioè la rappresentazione illusoria della totalità sociale, che deve esercitare la decisione sovrana sul patrimonio comune lasciando al movimento sociale la pressione perché lo faccia? Qui c'è un limite per il primo tipo di movimenti che, nella Bolivia del 2005, rimane pericolosamente aperto come un vortice che minaccia di aspirare la forza sociale destrutturante sgorgata negli utlimi cinque anni.

Tesi 5

Nei movimenti di insubordinazione del secondo tipo, i più stabili e duraturi, è decisivo il consolidarsi di spazi di autonomia, nella progressiva costruzione, lenta e difficile, di nuove relazioni sociali di "resistenza" che non riproducano nè le gerarchie nè le segmentazioni e divisioni sociali precedentemente esperite, nei molteplici sforzi di sottrarsi ai paradigmi e dispositivi della dominazione e dello sfruttamento.

Tesi 6

Il problema più difficile per questo secondo tipo di movimenti è in primo luogo nel riuscire ad evitare una possibile autarchia che possa condurli all'isolamento e alla minaccia di scomposizione. Cioè: come possono questo tipo di movimenti di insubordinazione, una volta ricomposta una certa stabilità sociale dopo la loro irruzione, dedicarsi a tendere i propri vincoli interni e dotarsi di nuovi obiettivi di confronto con l'ordine del capitale? In secondo luogo, all'interno delle proprie costruzioni autonome c'è anche un possibile paradosso: la riconfigurazione di ordini statali -- cristallizzati -- di dominazione dentro le sue politiche e pratiche quotidiane.

Per questo tipo di movimenti, stabilizzati nel tempo come corpo di relazioni sociali territorialmente localizzato si presenta, inoltre, la questione della difficoltà di trovare alleanze, per stabilire rapporti con altri movimenti e altre lotte: come riesce un gruppo sociale di resistenza già consolidato -- e impegnato nel suo proprio auto-consolidamento -- a stabilire vincoli orizzontali di cooperazione per la lotta con altri conglomerati sociali distinti, come riesce a stabilire relazioni di reciprocità?

Tesi 7

La capacità emancipativa dei movimenti di insubordinazione che tendono a soddisfare le necessità quotidiane in altra maniera, si può misurare a partire dalle loro possibilità di passare con maggiore o minore fluidità dalla autogestione della vita quotidiana all'antagonismo e viceversa.

In generale si è qui presentata una classificazione tra i movimenti di insubordinazione sociale dei due tipi qui distinti: il consolidamento dei progressi in termini di modificazione della relazione generale di forze mediante la costruzione esplicita di relazioni sociali e della gestione degli ambiti di vita a partire dall'autonomia; oppure, privilegio delle azioni e compiti di confronto e di dispiegamento dell'antagonismo, nel mezzo del quale si abilitano forme di coordinamento temporale con altri gruppi, collettivi e settori di lotta e resistenza. In certa misura, questa classificazione fissa il paradigma di una strategia ciclica in due tempi, che si possono chiamare "accerchiare e costruire". La difficoltà consiste nel fatto che, in generale, e nella misura in cui ogni tempo suole presentarsi come opzione escludente e/o complessa e difficilmente concordante con l'altro tempo che configura la coppia "accerchiamento e costruzione"; si è presentata finora una relativa carenza di coordinazione configurante -- nazionale e globale -- dell'insieme dei movimenti di insubordinazione.

I movimenti di insubordinazione che privilegiano il consolidamento autonomo e territoriale di relazioni sociali distinte hanno frequentemente incontrato difficoltà a funzionare come organismi di conflitto e ad unirsi con altri movimenti sociali di insubordinazione, in maniera tale da "cedere" terreno e tempo -- per esprimerci in qualche modo -- a favore di governi, stati e imprese multinazionali che stabilizzeranno le linee della dominazione e dello sfruttamento.

Da parte loro, i movimenti che privilegiano il conflitto, il momento antagonistico ma che nn sono riusciti a consolidare spazi e territori di costruzione e difesa esplicita delle proprie pratiche autonome, quotidiane e politiche, sebbene tracciano le linee e gli spazi delle trasformazioni in una società data, non riescono tuttavia a sedimentare nè dare forma all'energia che generano con le proprie azioni e, in genere, sono riusciti solo ad essere forza destrutturante che la forza dello Stato e del capitale assorbe, introducendola nelle proprie finalità -- in certa misura è ciò che è successo in Ecuador e può ancora succedere in Bolivia.

In base alle idee precedenti, deboli per il loro livello di generalizzazione dei ricchissimi dettagli di ogni singolo evento, forti perché tendono a ridurre la complessità rendendo intellegibili e comparabili fatti diversi, avanzo le seguenti ipotesi:

L'idea di una strategia del "poter fare" dei movimenti sociali passa per l'articolazione e comprensione e il dispiegamento della molteplicità di azioni collettive per l'emancipazione, nei suoi aspetti costruttivi ed antagonistici.

In questo senso, l'emacipazione deve essere vista come una trasformazione di relazioni sociali che si produce a partire dalla disarticolazione dell'ordine del capitale e della sua dominazione. A questo scopo sono ugualmente decisivi sia i movimenti di antagonismo che di consolidamento-costruzione delle relazioni sociali basate sulla reciprocità e il riconoscimento dell'autonomia. Finora, quello che fanno i movimenti di insubordinazione è introdurre energia destabilizzatrice nel sistema dominante, sia costruendo nicchie di autonomia, sia dispiegando azioni di conflitto. A partire da qui, la questione della emancipazione dipende dal nostro dotarci di strumentazione teorica per pensare alle possibilità di un "cambio di stato", per servire simultaneamente al problema di introdurre fluttuazioni e deconfigurare l'ordine dominante, così come il problema di stabilizzare sotto diversi lineamenti e forme sociali l'energia sociale così dispiegata.

Enunciarlo è relativamente semplice, contribuire alla sua realizzazione pratica è una sfida gigantesca."

Link: http://proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=619

domenica 6 febbraio 2011

Documento politico della Rete dei Comunisti

Le conseguenze politiche (anche a sinistra) dello scontro sociale sulla Fiat - Il diktat di Marchionne su Pomigliano e Mirafiori illumina il tipo di risposta che il capitale manifatturiero ­ in un paese avanzato - pensa di dare alla crisi. Il successo inatteso dei “no” in entrambe le “consultazioni”, nonostante il ricatto esplicito, rende la “vittoria” Fiat solo contingente; la ripresa produttiva in questi stabilimenti (per nulla certa, nonostante le promesse) vedrà in campo lavoratori niente affatto piegati al volere dell'impresa. Naturalmente, non ci si può attendere un collegamento meccanico e immediato tra resistenza operaia e auspicabile “incendio sociale".Se, probabilmente, avverrà quello che diceva qualcuno a suo tempo, ovvero che i reazionari alzano i massi per farseli ricadere sui piedi, a sinistra e nel versante di classe bisognerà ben guardarsi da una lettura meccanicistica. Troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe trasformazioni produttive, sociali ed ideologiche sono intervenute per potersi aspettare una replica delle dinamiche del conflitto di classe che abbiamo ben riposte nella nostra esperienza collettiva e memoria storica. Siamo perciò obbligati ad andare più a fondo nell’analisi per capire bene, in modo non stereotipato e per predisporci a cogliere quella tensione sociale che si manifesta ancora sottopelle ma che in un periodo di crisi sistemica può, in ogni momento, erompere all’esterno.

FIAT, una operazione da “laboratorio”

La risposta Fiat dalla crisi è da manuale: a fronte del venir meno dell'effetto espansivo fin qui garantito dalla finanziarizzazione – una delle principali controtendenze alla caduta del saggio del profitto – si prova ad aumentare il tempo di lavoro. Se si legge con attenzione il “piano”, infatti, troviamo: aumento esplosivo dello straordinario obbligatorio, riduzione delle ore di permesso sindacale, divieto di sciopero. Al netto delle misure illegali o addirittura incostituzionali, il nocciolo della nuova organizzazione del lavoro si concentra nell'allungamento della giornata lavorativa. Ovvero, in termini marxiani, aumento dell'estrazione di plusvalore assoluto.E' una risposta regressiva e che mette la Fiat in competizione con la produzione automobilistica dei paesi emergenti, mentre dai concorrenti europei (da Volkswagen a Renault, ecc) si punta su nuovi modelli, più ricchi di innovazione tecnologica, meno inquinanti, ecc. Ed è una risposta diversa da quanto lo stesso gruppo dirigente Fiat sta facendo sul marchio Chrysler, chiaramente influenzato dalle condizioni imposte lì dal governo statunitense.

La crisi sta quindi producendo reazioni diverse non solo a livello di aree geostrategiche, ma anche all'interno delle singole multinazionali. Gli Usa, con molte difficoltà, hanno inizialmente tentato di ripercorrere la politica del debito e del sostegno alla domanda anche se il recente “discorso sullo stato dell'Unione” di Obama sembra segnare un cambio di rotta, in direzione della riduzione del deficit pubblico. L'Europa sotto l'egemonia tedesca, invece, ha anticipato i tempi del “rientro” nei parametri di Maastricht, anche a rischio di strozzare nella culla una “ripresa” economica decisamente esangue e disomogenea nei vari paesi del continente. Germania e Francia puntano sulla superiore qualità della loro produzione manifatturiera e accentuano la dipendenza degli altri paesi, trasformati spesso in propri “contoterzisti”. Questa dinamica polarizza anche la possibilità di gestire la coesione sociale interna: i paesi più forti possono mantenere decenti livelli salariali e di welfare, senza forzare oltremisura i livelli di sfruttamento della forza lavoro. Mentre, man mano che si scende lungo le varie filiere produttive, queste condizioni vengono meno: l'allungamento della giornata lavorativa va di pari passo con l'aumento della disoccupazione, l'incremento dell'età pensionabile si accompagna all'espulsione della manodopera “garantita” (cinquantenni con contratto a tempo indeterminato) e alla precarizzazione generale di tutte le generazioni, il taglio dei servizi sociali rende disponibili altri settori di investimento per capitali privati a corto di sbocchi. L'Italia di Marchionne è un paese che va allontanandosi dal cuore produttivo dell'Europa e che rispecchia, anche merceologicamente, la polarizzazione estrema implicita in questo tipo di risposta: pochi brand di lusso (Ferrari, Maserati, Jeep, Dodge, Cherysler, forse anche Alfa Romeo) per le fasce sociali che mantengono o aumentano il proprio reddito e il marchio Fiat per quelle povere, possibilmente con modelli fabbricati in Turchia, Serbia, Polonia (in Messico, per il mercato Usa).Questo modello si è presentato fin da subito come una rottura consapevole, chirurgica, senza mediazioni, con il sistema di relazioni industriali costruito nel dopoguerra. Una rottura “coerente” con il tipo di competizione che si pensa di fare (le produzioni dei paesi emergenti) e che punta a riproporne qui alcune modalità.

Un taglio radicale con il passato “concertativo”, caratterizzato da sindacati generali e da contratti nazionali, ossia dal “compromesso tra capitale e lavoro”. Il quadro normativo delineato dal “piano Fiat” prevede infatti un modello di relazioni “complici” a livello aziendale, di tipo corporativo, nella logica competitiva che assume l'impresa come un esercito in guerra contro tutti gli altri. E all'interno di un esercito non è ammissibile né il confronto né, tantomeno, il conflitto. Solo l'obbedienza gerarchica. Se questa è l'idea di fondo, è però anche facilmente riconoscibile. Non siamo più da 50 anni un paese arretrato: i lavoratori sono abituati a contrattare le condizioni salariali e di lavoro, a costituire sindacati (e a cambiarli, se insoddisfatti), ad esercitare diritti. Il “modello Marchionne” incontra resistenze. Anzi, le produce anche là dove erano diventate quasi un ricordo del passato lontano.


E’ generalizzabile il modello FIAT?


Il Lingotto fa da apripista, dunque. Dobbiamo perciò considerare quale sia il suo peso specifico nell'economia italiana, insieme alla compatibilità del suo “modello” con il resto del sistema produttivo. Lo spin off tra Auto e Industrial sembra preludere a un abbandono del settore da parte della famiglia Agnelli, ancor oggi azionista di riferimento tramite l'archeologico schema della società in accomandita all'apice di una più “moderna” serie di scatole cinesi di derivazione più finanziaria che industriale. Se l'obiettivo dichiarato del gruppo è raggiungere i 6 milioni di vetture l'anno (soglia considerata “minima” per poter restare sul mercato globale), bisogna dire che la quasi totalità di questa cifra – prendendo per buoni i livelli di produzione promessi per gli stabilimenti italiani – verrà fabbricata altrove. Al tempo stesso, però, il mercato italiano è l'unico nel mondo dove la Fiat raggiunga livelli a doppia cifra (il 27%, nel quarto trimestre 2010). Non va però sottovalutato il fatto che buona parte dell'”appetibilità” delle vetture Fiat in Italia sia legato a fattori “affettivi” di stampo nazionalistico (le vittorie Ferrari in F1, la “nostra” industria automobilistica), oltre che ai livelli di prezzo (soprattutto a livello manutenzione). Abbandonare totalmente la produzione in Italia potrebbe farle perdere ulteriori quote di vendita. Ma il “cuore” progettuale e il mercato d'elezione è diventato il Nord America. Lì viene spostato gran parte dello staff che progetta i nuovi modelli; lì si investe (grazie ai sussidi del governo Usa) in nuove tecnologie per più bassi consumi e minor inquinamento: lì si pensa di realizzare i volumi di vendita qui impossibili (l'elemento nazional-motoristico vale anche per Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna, naturalmente). A tutti gli effetti, dunque, la Fiat ha ora la configurazione classica di una vera multinazionale, “basata” (per quanto, ancora?) in Italia. L'unica, nel settore manifatturiero (Eni, Enel, Unicredit hanno altre caratteristiche).

Sul piano occupazionale, il solo settore auto ha appena 25.000 dipendenti (ma Termini Imerese è già chiusa), e non si prevedono certo assunzioni. Ma l'indotto auto è enorme e coinvolge – direttamente o indirettamente – quasi un milione di persone. Difficile valutare il disastro occupazionale in caso di fuoriuscita completa del gruppo dall'Italia, ma impossibile sottovalutare il “peso specifico” della Fiat nell'industria e nel fatturato complessivo del paese.

Il “modello Fiat”, così come descritto negli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori, sembra attagliarsi meglio ad industrie grandi o molto grandi, con una presenza già affermata sui mercati globali, e che possono perciò credibilmente esercitare sui propri dipendenti lo stesso ricatto pensato da Marchionne: “o così, o me ne vado altrove”.

Per le altre - che hanno il proprio business legato alla territorialità o dimensioni che non consentono una rapida delocalizzazione - allungare la giornata lavorativa e comprimere il salario non è semplicissimo. Il primo obiettivo richiede contrattazione sindacale e qualche contropartita salariale (persino tramite le organizzazioni “complici”). Gestire pacificamente un impoverimento così drastico pare proprio che non sia possibile nemmeno in paesi tradizionalmente dittatoriali (vedere i moti in Tunisia, Egitto, per altri versi Algeria e Albania).
Nel settore pubblico – evidentemente non “delocalizzabile” ­ si potrebbe proseguire sulla via delle esternalizzazioni e della precarizzazione, con seria riduzione dei diritti individuali e sindacali, nonché delle sigle ammesse alle trattative. Ma proprio la “rigidità” intrinseca a questo tipo di settori rende problematica una gestione autoritaria senza contropartite in termini salariali, di benefit, di “discrezionalità appropriativa”. La stessa sintonia tra governo e sindacati complici (Cisl, Uil e sindacalismo autonomo e corporativo) rende difficile portare fino in fondo progetti drastici di riduzione delle libertà sindacali e di netto peggioramento delle condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti. La “fortuna” dell'iniziativa Fiat, dunque, si è fin qui giovata di alcuni fattori difficilmente ripetibili: l'appoggio dichiarato del governo (lo smantellamento delle tutele legislative del lavoro, opera del ministro Sacconi), la “complicità” esibita da Cisl, Uil, Ugl e – tra i metalmeccanici – il sindacato aziendale Fismic. Il tentativo di isolare la Cgil e espellere la Fiom dalle fabbriche appare quindi condizionato da fattori politici abbastanza caduchi: il ciclo berlusconiano volge chiaramente al termine e persino un altro governo “tecnico” o di “centrodestra allargato” potrebbe trovare necessario ri-coinvolgere la Cgil nel gioco delle trattative a perdere. Sul piano strutturale, infine, le poche imprese medio-grandi e pubblica amministrazione galleggiano su un mare di lavoro disperso e disgregato che caratterizza ormai oltre il 60% della forza lavoro; un mondo che è nato e cresciuto nell'assenza di veri diritti individuali e sindacali, spesso grazie anche alla Cgil e al centrosinistra del “pacchetto Treu”. Un mondo polverizzato in cui il lavoro di ricucitura sindacale è oggettivamente difficilissimo e dove il rapporto di lavoro precario è la norma, non l’eccezione. Un mondo che programmaticamente, però, non è stato mai organizzato da tutti i sindacati confederali, che, sotto questo aspetto, sono tutti complici.La dinamica della crisi dice che l'ambito della precarietà è l'unico in cui si manifesta una qualche perversa “crescita” dell'occupazione (soprattutto in “nero”, pare). Si tratta di classe propriamente detta, generata da una trasformazione della produzione e della relazioni industriali in atto ormai da tempo. La vicenda FIAT, il tentativo di eliminare il contratto nazionale, la riduzione dei diritti sindacali anche nelle grandi concentrazioni di lavoratori sono la conclusione di un attacco generale già fatto e che ora si appresta ad assaltare le ultime roccaforti di quelli che sono stati i punti di forza del conflitto di classe in Italia. Non siamo all’inizio ma alla fine di una profonda fase di trasformazione che deve essere compresa nei suoi effetti per poterci mettere in condizione di rispondere. La trasformazione non è mai del resto un “atto improvviso”, ma il risultato di processi di lungo periodo che “precipitano” in un certo luogo, in un certo momento. Per riuscire a organizzare la risposta di classe, perciò, va colta – nella loro relazione - sia la tendenza che la congiuntura; sia il dato di lungo periodo (in cui, come si usa dire, prevalgono gli elementi di continuità) che quello immediato

La crisi del tatticismo.


Se siamo arrivati alla condizione in cui il conflitto di classe è promosso dall’alto, cioè solo dall’avversario di classe, ci sono sia ragioni oggettive (arretramento generale, politico e culturale, davanti alla capacità della borghesia di riprendere il ciclo di crescita dopo gli anni ‘70 e l’89), sia il prodotto di responsabilità soggettive del movimento comunista e di classe (sul piano sindacale e di movimento).

Il punto politico, organizzativo e teorico che vogliamo affrontare è preciso: negli ultimi due decenni, soprattutto in Italia, è stato abbandonato ogni collegamento organico con la classe reale che andava evolvendo sotto la spinta delle modifiche produttive complessive. C'è chi lo ha fatto aggrappandosi a visioni ultra-ortodosse e chi assumendo posizioni “moderniste” fino al ridicolo. Ma comunque lasciando deperire quel grande capitale di organizzazione politica, sindacale, sociale e di coscienza di classe accumulato nei precedenti cicli di lotte. Senza visione generale, e senza rappresentanza politica a livello nazionale, tende a prevalere il piccolo cabotaggio, l'iniziativa giorno per giorno, la pura reazione anche generosa, ma senza progetto e senza alternativa. E, più spesso, il puro adattamento ad amministrare l'esistente, che sul piano sindacale diventa difendere la propria organizzazione, su quello politico il puntare sulla capacità attrattiva residua di un simbolo prestigioso. Un “tarlo” che ha minato l’organizzazione di classe nel nostro paese è stato perciò il tatticismo, il politicismo, il prevalere della contingenza a scapito della prospettiva e del progetto di società. Questo “tarlo” è ancora ben presente oggi.

In questo senso si può dare un giudizio positivo sulle recenti scelte della Fiom, ma quello che si pone nella ed oltre la vicenda Fiat è come si organizza complessivamente il mondo del lavoro nella sua configurazione attuale. Il rischio che vediamo è quello di un uso “politico” della vicenda Fiat, ritenuta magari utilizzabile per ridar fiato alla politica della “sinistra”. I comitati costituiti da Bertinotti e Cofferati a sostegno del NO, le varie iniziative politiche che cercano di ricucire una dialettica con il centrosinistra, il reciproco uso strumentale tra sindacato e politica a cui stiamo assistendo, rischiano di divenire un boomerang nel momento in cui tutto questo non trova prospettive dentro un processo di riorganizzazione effettiva della classe. Questa preoccupazione diviene ancora più forte se si considera che molti dei personaggi che oggi si sono riaffacciati sono gli stessi che sono stati protagonisti di un’altra avventura, purtroppo quasi rimossa, ma che ora mostra tutto il suo significato politico. Ci riferiamo al referendum tenuto nel 1995 sull’art. 19, che ha fissato il criterio dei “firmatari di contratto” per poter usufruire delle libertà sindacali. Un referendum promosso dalla sinistra sindacale e da quello che era allora il Partito della Rifondazione Comunista; concepito per tagliare le gambe al nascente sindacalismo di base e ai movimenti indipendenti, oggi si ritorce pesantemente contro quelli che lo hanno promosso. Marchionne, Cisl e Uil hanno utilizzato proprio quell’articolo per “far fuori” la Fiom.

Il punto politico che vogliamo mettere in evidenza non è tanto il merito di quell’episodio di masochismo sindacale, quanto il fatto che allora come oggi - sia col segno negativo del ’95, sia con quello positivo attuale - se continua a prevalere la contingenza e la necessità tattica, in questo momento di crisi non si andrà da nessuna parte, e conosceremo una nuova sconfitta politica. Quella pratica e quella cultura sono logorate e ormai da tempo hanno mostrato i loro limiti. Prendiamo atto che l’esigenza pratica di uscire da questa logica si è per ora tradotta nel tentativo di dar vita a un “movimento che si autorappresenta” anche sul terreno della politica, ovvero come “Uniti contro la crisi” che afferma di voler costruire una “alternativa sociale”. Non è la prima volta che la sordità dimostrata dalla classe politica rispetto alle domande sociali stimola processi simili.Nel passato, però, questi tentativi si sono sempre scontrati, ad un certo punto, col problema del progetto e dell’organizzazione; ovvero della necessità di dotarsi di una visione unitaria di lungo periodo, struttura organizzata, centri di responsabilità e strategia fortemente ancorati alla prospettiva nettamente indipendente dal centrosinistra.

I Comunisti nel conflitto di classe

Bisogna, dunque, fare i conti con questa situazione sia sul piano dell’emergenza politica sia su quello delle prospettive che rimane dirimente e decisivo anche come verifica per i comunisti su come stanno nel moderno conflitto di classe. La resistenza dei lavoratori della FIAT è una indicazione importante che va raccolta e rilanciata. Lo sciopero dei metalmeccanici indetto dalla FIOM e dal sindacalismo di base per il 28 Gennaio è un primo momento importante che non può che essere seguito dalla sciopero generale e generalizzato. Ci sembra che continuare a tirare la giacca alla CGIL per chiedere lo sciopero è un modo per non fare lo sciopero generale. Continuare su questa strada comunque e chiedere alla FIOM di schierarsi ci sembra un elemento di chiarezza politica e d’indicazione sul lavoro da svolgere.

Questi sono solo i passaggi preliminari ad una visione complessiva di riorganizzazione del movimento di classe e dunque dobbiamo indicare con il massimo della chiarezza i contenuti e i piani di lavoro con i quali misurarci per far ritrovare ai comunisti una funzione reale dentro lo scontro di classe che si ripropone in un moderno Stato imperialista.

L’Indipendenza Politica. E’ l’elemento qualitativo che deve caratterizzare i conflitti nel nostro paese oggi. Quando si parla di indipendenza non si può intendere solo quella enunciata ma quella praticata nel conflitto e, soprattutto, nell’organizzazione del mondo del lavoro e nella società nel suo complesso. Si tratta di confermare e rafforzare un processo che conduca fuori delle alleanze con il centro sinistra e che ha bisogno di strutturalità e capacità soggettive.

La Confederalità. Se è vero che l’attacco di Marchionne intende fare una resa dei conti con la classe operaia della grande impresa e con le grandi aggregazioni di lavoratori è chiaro che la prima risposta è di difendere in tutti i modi l’organizzazione sindacale esistente in questi ambiti. Ma poi bisogna anche andare oltre e rilanciare l’iniziativa perché la crisi sistemica con la quale le società capitaliste stanno facendo i conti aumenta le contraddizioni che permettono non solo la difesa ma anche il rilancio di una vera organizzazione sindacale a cominciare dalle “roccaforti” del mondo del lavoro. Questa necessità, però, non può prescindere dalla costruzione di una nuova confederalità in quanto nessuna categoria è tanto forte da poter resistere da sola all’attacco a cui sono sottoposti i lavoratori. Allargare l’organizzazione sindacale anche laddove il lavoro è disgregato e precarizzato, trovare le forme adeguate di organizzazione anche per quel 60% di lavoratori considerati fuori dai diritti sindacali, fare delle aree metropolitane dei centri di aggregazione e di lotta significa attrezzarci per quello che sarà la dimensione reale del mondo del lavoro nel prossimo futuro dove alla disgregazione produttiva e sociale si potrà rispondere solo con una forte soggettività organizzata della classe.

La Rappresentanza del Blocco Sociale. E’ necessario aprire una nuova prospettiva sul piano sindacale ma è altrettanto importante ricostruire una rappresentanza politica delle classi subalterne nel nostro paese. Sappiamo bene che è un compito improbo che deve fare i conti con la concretezza dei settori di classe, nella loro odierna condizione di arretratezza, e con concezioni della sinistra e tra i comunisti che hanno portato ad una situazione disastrosa. Sarà un percorso complesso, che procederà per tappe ed ognuna di queste sarà un “esame” da affrontare che, però, andrà seguito con determinazione in quanto le contraddizioni che stanno emergendo riguardano la tenuta dell’attuale sistema sociale. 26 gennaio 2011
Link: http://www.contropiano.org/Retedeicomunisti/reteindex.asp
http://www.contropiano.org/

mercoledì 27 ottobre 2010

A Bologna come altrove in Italia: esprimere subito contrarietà all'«ipotesi Vendola»

Le parole di Nichi Vendola – a supporto della “sfida SEL” e naturale prodotto di trent'anni di presenza nell'agone politico - sono suggestivamente importanti, come nella tradizione retorica della politica italiana lo sono state, ad esempio, quelle di Aldo Moro, quando coniò le (scientificamente improbabili) “convergenze parallele”. Non casualmente, infatti, al Congresso fondativo di SEL celebrato a Firenze, Vendola cita il democristiano Moro, ricordando anche il Gramsci “critico dell'anticlericalismo”; inizia così, con le parole usate a proposito, quella curvatura d'una «ipotesi» comparsa nel teatro della politica che dovrebbe convincere il “popolo di sinistra” insofferente all'evanescenza PD ed all'anacronismo di altre organizzazioni “comuniste” e/o “ecologiste”. Vendola, eletto all'unanimità con voto palese Presidente di “Sinistra, Ecologia, Libertà”, rappresenta la versione nobile – onesta intellettualmente – del ridicolo “maanchismo veltroniano”, laddove conferma la propria fede religiosa e la sacralità della vita e, nel contempo, ribadisce la radicalità di comportamenti diversi sul piano etico-sociale, costruisce un ponte ideale verso i cattolici e la Chiesa senza deflettere sulla problematicità dei “diritti” individuali e collettivi. Vendola usa il linguaggio della tradizione retorica della politica italiana marcando una insospettata continuità con la togliattiana/divittoriana “democrazia progressiva”, oggi da lui concepita di respiro europeo e risorgente dalla ceneri del “blairismo”. La “grande speranza” che vuole essere, infatti, non si limita ad un partito-movimento, SEL appunto, forza transitoria quanto contingentemente necessaria, mezzo più che fine, bensì mette in cantiere un'ambizione con l'intento di superare l'attuale composizione SEL d'essere “ex qualcosa” e costruire un'ampia forza di “sinistra”, interlocutore ideale di un moderatismo “democratico” in grado di sconfiggere elettoralmente il “berlusconismo” nella sua variante tremontiana. Coniugare “sinistra” ed “ecologia” - “parola capace di parlare all'intero genere umano, un termine che richiama un francescanesimo laico”, afferma Vendola – diviene indispensabile per allargare la base del consenso, come lo è amalgamare i due termini con “libertà”, “ricercata partendo dalla condizione dei lavoratori, dei bambini, delle donne” poiché “negata dalle ideologie”; inoltre, molto pragmaticamente, SEL rilancia il dialogo con il mondo cattolico evitando accuratamente “pulsioni anticlericali”, anzi rivolgendosi direttamente al popolo del “family day” colpito “dall'impoverimento prodotto dalle politiche liberiste” ed alla Chiesa per intendersi su “temi eticamente sensibili”. Nel Pantheon personale di Vendola, ci sono l'economista Vandana Shiva, Carlin Petrini, don Ciotti e Gino Strada, Gramsci e Pasolini ed attraverso questo patrimonio culturale legge oggi un'Italia la cui “narrazione” è stata strappata dal berlusconismo “infastidito dalla democrazia”. All'opera di ricucitura, il partito di Vendola vuole dedicarsi, inserendosi nel filone europeo della “sinistra” dei valori ecumenici e del buon governo, distante da quella “modernizzatrice e fuoriuscita dalla sua storia laburista” portatrice di ulteriori sconfitte. In questo orizzonte, Vendola candida SEL come sponda politica di un sindacato che rivendica diritti e dignità per i lavoratori (guarda alla CGIL) e sollecita il PD ad abbandonare l'apologia del tremontismo (rappresentata da Padoa Schioppa) aprendo una linea alternativa al “tema totemico del debito pubblico”; il vocabolario vendoliano di immagini sintetizza questi obiettivi nella capacità di vincere d'una “sinistra non innamorata dell'estetica del naufragio”. Nichi Vendola, nella lettura e/o narrazione politica che fornisce, si trova a suo agio tanto nel proporsi come leader di una “sinistra” tutt'ora impegnata in una faticosa, quanto miope, ricerca identitaria, quanto nel confezionare un immaginario collettivo riusando il temperato radicalismo pcista e la lezione del riformismo divittoriano/togliattiano che, insistendo nel riconoscere le “ragioni degli altri”, finisce con l'interiorizzarle nell'indistinzione teorico-pratica. Inoltre, Vendola – corteggiata neoicona mediatica assimilabile ad Obama - pare completamente dimentico dei danni coprodotti con il suo mentore (Bertinotti) che hanno fatto terra bruciata nell'area sociale di riferimento, rifluita nell'astensionismo e, vivaddio, autonomamente nelle lotte, forse aristocraticamente considerate (però, senza dirlo!) espressione di un massimalismo e settarismo indigesti per l'affabulazione politica non violenta. Sarà pure un affresco d'una Italia diversa concepita come possibile, ma ora, abbandonata la tattica utile a farsi apprezzare, dopo le parole “per dire di sé”, ci vogliono gli argomenti veritieri per descrivere, indicare, proporre un'alternativa politico-programmatica, culturale, strategica al capitalismo multinazionale al di là del fare amministrativo compatibile con la divisione sociale del lavoro generatrice di disuguaglianze e della sperimentazione di alchemiche alleanze partitiche, frutto di storicamente inattuabili blocchi sociali che, astrattamente e colpevolmente, tentano di rimuovere la sottostante guerra di classe.
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giovedì 26 agosto 2010

Governo, impresa, conflitto capitale-lavoro e "autonomia politica"

Il combinato disposto Impresa/Governo, messo in pratica dall'ad FIAT Marchionne e dal ministro del Tesoro Tremonti, sta producendo i suoi devastanti effetti nel permanente conflitto capitale-lavoro. Federmeccanica, si prepara a derogare dal Contratto Nazionale dei metalmeccanici, inserendo norme ad hoc per il settore automobilistico sulla scia dell'accordo separato di Pomigliano. Martedì 7 settembre il Comitato direttivo di Federmeccanica formalizzerà le sue intenzioni, rinviando il tavolo con i Sindacati di categoria. L'obiettivo è quello di definire una normativa specifica per il settore auto con deroghe al C. N. dei metalmeccanici. La presidente di ConfIndustria, Marcegaglia, forte dello scontato aiuto da parte del “Governo amico” che procede nell'introdurre anomalie normative nell'ambito delle leggi che regolamentano le “relazioni industriali”, spiega come “è possibile fare deroghe al Contratto Nazionale, introducendo un contratto ad hoc per l'auto”. Immediatamente d'accordo si dichiara la Fim-Cisl con il Segretario Giuseppe Farina che spinge per “una specializzazione settoriale” ammettendo la generalizzazione in atto dell'accordo tipo generato per Pomigliano in tutti gli stabilimenti FIAT, a partire dalla triplicazione delle ore di straordinario comandato: da 40 a 120 all'anno. Tremonti, nel frattempo, si mostra in perfetta sintonia con il padronato, sordo al richiamo del Presidente Napolitano e mentre volta la faccia dall'altra parte quando i tre operai di Melfi, legittimamente reintegrati al lavoro da un'ordinanza cautelare del Giudice competente, illegalmente la FIAT non riammette alla catena di montaggio. Il Ministro sostiene la proposta di collegare gli stipendi agli utili delle imprese anche non rispettando i “diritti acquisiti” perché “una certa qualità di diritti e regole non possiamo più permetterceli”, oltre a riproporre la scelta nucleare a causa dell'impatto negativo sul PIL dell'import d'energia. Dal canto suo, Marchionne dichiara apertamente che in Italia le fabbriche sono meno produttive che in alti paesi, ammettendo implicitamente che i minor margini di profitto nel Paese sono determinati dallo sfruttamento intensivo della manodopera che la FIAT realizza in altre nazioni laddove nelle sue fabbriche sono inesistenti tutele sindacali e redditi socialmente sostenibili, evocando delocalizzazioni ulteriori nello scenario – addirittura – d'una auspicata abrogazione del conflitto capitale-lavoro nell'attuale epoca. Considerato che anche il P.D. (Damiano) considera “possibile l'individuazione di specifiche normative per i diversi settori industriali, per quanto riguarda il regime dei turni, la prestazione straordinaria e l'organizzazione del lavoro”, la classe operaio, il mondo del lavoro dipendente e del non-lavoro non hanno altra strada che l'autonomia politico-organizzativa che possa effettivamente contrastare questo gioco al massacro nell'indifferenza sostanziale anche di chi si dichiara dalla parte dei lavoratori, attardandosi però a leccare il culo al maggior partito d'opposizione parlamentare. Il conflitto reale nella società di adesso è tra chi è capace e consapevole di governare queste lotte e chi invece subisce i ricatti della subalternità. C'è chi continua a “dialogare” con il P. D. attardandosi in diatribe e polemiche perfino personali, quindi fuorvianti; c'è chi, apprendista stregone che si esercita con il pallottoliere, verifica ipotesi alchemiche mescolando risicate percentuali elettorali e residuali spezzoni di partito, peraltro appesantiti da sindrome del leader. Incapaci di percepire “altro”, procedono immemori di quanto già “No logo” di Naomi Klein ci ha fatto meglio comprendere … Da Seattle all'esperienza di Bologna Città Libera e del neocivismo, dall'egemonica estensione planetaria del liberismo selvaggio negli anni '80 alla “marea nera” obamiana, la “politica” espressa dal sistema dei partiti nelle sue forme novecentesche endogene alle compatibilità capitalistiche, ha fallito nei tentativi d'emancipazione e rivendicazione economico-normativa (“sinistra”) ed ha aggiornato la ferocia del dominio (“destra”) nel perseguire quote di profitto ad ogni costo (umano, ambientale, culturale). Mentre il ceto politico dirigente nazionale P. D. ed i suoi cloni locali trattano, dopo tanta umiliante anticamera, con le forze governative (da ultimo, D'Alema che “chiede” a Letta) e pensano di affidarsi al turpiloquio televisivo per “riconquistare” attenzione popolare, si assiste alla deroga – nel permanente stato di incoerenza, l'efettivo “brand democratico”, nel quale si dibattono il P. D. e gli “estimatori” esterni al partito - da ogni elementare prassi d'opposizione parlamentare, continuando a frenare, boicottare, imbrigliare le lotte sociali per il salario, occupazione e diritti. C'è chi pensa, dentro e fuori l'area “democratica” ormai parte integrante della “Gomorra istituzionale”, che è sufficiente “farsi vedere” o dichiarare “solidarietà” con i soggetti che si oppongono all'incedere della crisi per “aver cambiato pelle”. Insomma, l'indole moderata d'ogni prassi partitica funziona solo dove le sirene d'Ulisse hanno la meglio sugli sprovveduti di turno che, semplicemente, danno credito agli “infiltrati” P. D. nei movimenti. Sono maturi i tempi – per gli intellettualmente onesti – dell'abbandono al suo destino della “politica” per intraprendere/riprendere il percorso della trasformazione sociale, assumendone le responsabilità che derivano dalla conoscenza della contraddittoria realtà sociale e che hanno come meta una processualità antisistema. Tali responsabilità impegnano tutte e tutti nello strutturare l'antagonismo – in tutte le sue manifestazioni – permettendo all'individuo ed alle comunità territorialmente dislocate d'accumulare conoscenze sulla loro realtà per trasformarla in funzione dei propri bisogni. Interpretare correttamente il proprio mondo sociale – liberandosi d'ogni appartenenza politica e/o sindacale -, immagazzinare informazioni condividendole e tradurle in azioni di resistenza ed assalto: questo lo scenario dell'autorganizzazione dei propri comportamenti ed il possibile adattamento al nuovo vissuto autodeterminato dei propri schemi mentali. L'assunto ad impossibilia nemo tenetur (“alle cose impossibili, nessuno è tenuto”), va ribaltato semanticamente: alle cose possibili, siamo tutti chiamati.
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