giovedì 19 ottobre 2023

Seguendo un razzo, di “ignota” provenienza, che semina morte ...

Alle ore 16:01 del 18 Ottobre, l'ANSA informa di scontri a Beirut, nei pressi dell'ambasciata degli Stati Uniti in una manifestazione di sostegno al popolo palestinese e di protesta per i bombardamenti israeliani su Gaza.


Ulteriori brutalità sono in corso anche nella città capitale dell'omonimo Stato che si sommano alle inenarrabili violenze iniziate all'alba del 7 Ottobre 2023 con l'attacco strategico in territorio israeliano, mirato a incidere profondamente nello scenario mediorientale e mondiale, da parte del Ḥaraka al-muqāwama al-islāmiyya, il «Movimento della resistenza islamica», Ḥamas.

L'odierno è un ultimo capitolo – certo non il più cruento, l'esercito pare abbia, secondo quanto appurato in queste ore, rapidamente caricato i manifestanti – di una tragica sequenza di morti e distruzioni che ha subito Ghazza (in arabo قطاع غزة‎, in ebraico ‛Azzāh) negli ultimi decenni, la città palestinese di quasi seicentomila (rif. al censimento del 2017), situata nella penisola del Sinai, dalla quale si dirama la Striscia costiera mediterranea di Gaza su circa 45 km² che vede detenere oggi in cattività oltre due milioni di cittadini.

Accostandosi in modo pragmàtico [1] al rinvigorito conflitto bellico arabo-israeliano, arginando quanto più possibile i sentimenti, peraltro alquanto sollecitati, e soffermandosi sull'episodio dell'Ospedale “Al-Ahli” di Gaza colpito da un devastante razzo ieri, Martedì 17, provocando centinaia di vittime,, sembra corretto astenersi da ogni velleitaria e ipocrita propensione a prendere posizione, a schierarsi ideologicamente.

Questa affermazione, lungi dal desiderio tipicamente piccolo-borghese di equidistanza o di deleteria indifferenza, scaturisce da un tentativo di ripristinare in modo determinato l'onestà intellettuale, proprio in ragione di una contagiosa tendenza, da contrastare, che incombe sui fatti anticipando conclusioni approssimative, acritiche, superficiali, tendenziose, frutto di pregiudizi.

Allo storico serio interessano i fatti. A questo criterio, pur non essendo esperti di ricerca storiografica, intendiamo attenerci.

Iniziando proprio da uno degli ultimi fatti, quello del razzo che ha colpito l'Ospedale di Gaza. La cronaca ci pone di fronte ad un classico “fattoide” di ultima generazione. Apprendiamo con angoscia che i morti riconducibili alla deflagrazione dell'ordigno sul nosocomio, a ventiquattrore dall'evento, non si riesce a capire a chi attribuirli, non si è in grado di addossare le responsabilità dell'ennesimo eccidio.

Le “agenzie” addestrate alle mistificazioni di fatti di guerra si sono appropriate dell'accaduto e, senza risparmiare colpi altrettanto efferati quanto le schegge assassine del missile scoppiato, mirano e colpiscono i nemici con gran quantità di munizioni-parole.

La notizia, pur nella sua crudele gravità, è quasi del tutto resa priva di fondamento, in quanto in un'area vigilata da satelliti e sistemi di sorveglianza, in un teatro di guerra circoscritto, infestato da droni e sotto osservazione permanente, diventa davvero improbabile non avere la prova della traiettoria e, conseguentemente, della postazione del sito di lancio.

Le conoscenze divulgate sull'accaduto sono diffuse all'interno di narrazioni contrapposte e amplificate dai mezzi di comunicazione di massa che promuovono o l'una o l'altra descrizione al punto da essere percepite entrambe come vere o, al contrario, ambedue come false. Dunque, le versioni si elidono.

C'è da chiedersi: si ha davvero necessità di capire chi sono i “cattivi” o i “buoni” di questa tragedia, perché, ribadiamolo ancora, non si assiste ad un film dell'orrore. Dobbiamo fare la macabra conta di quante gole in queste ultime settimane sono state squarciate da parte dei contendenti ? Oppure, se si preferisce, calcolare il totale in modo arbitrario ? Siamo in presenza di una stramba belligeranza tra angeli e demoni ?

Il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, Daniel Hagari ha ribadito durante una conferenza stampa “che non c'è stato alcun fuoco dell'IDF da terra, dal mare o dall'aria che ha colpito l'ospedale", aggiungendo che le immagini dimostrano l’assenza di danni strutturali agli edifici intorno all'ospedale e nessun cratere compatibile con un attacco aereo. Fonti della “Jihad islamica” smentiscono che sia stato possibile un “fuoco amico” e che l'unico obiettivo politico-militare è di liberare la Palestina dalla presenza israeliana e costruirvi uno Stato islamico.

Ciò che, invece, è possibile appurare con certezza è che non c'è sincera intenzione di cessare il fuoco e i massacri, non si registra alcuna volontà di negoziare la pace, da parte, rispettivamente, dei belligeranti e degli occulti registi, attualmente fuori scena.

In effetti, l'agenda politica internazionale prevede altre azioni.

La prima è quella di mero maquillage politico. Ricordare retoricamente – come fa, tra tanti, Ursula Gertrud von der Leyen, la Presidente, in scadenza di mandato, della Commissione europea - la storica opzione di convivenza tra lo Stato ebraico d'Israele ed il popolo di Palestina; tale rievocazione è motivata dall’avvicinamento tra Russia e Repubblica islamica dopo la guerra con l’Ucraina.

La domanda è legittima: perché si torna solo ora – dopo ben 76 anni - al piano adottato dall’Assemblea generale delle NU, il 29 Novembre 1947, per la spartizione della Palestina mandataria in due Stati: uno ebraico, comprendente il 56% del territorio, l’altro arabo, sulla parte restante, mentre Gerusalemme sarebbe stata corpus separatum sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite ? L'inerente Risoluzione ONU n° 181 fu approvata a larga maggioranza dopo lunghi negoziati preliminari, fu accettata dalla comunità ebraica e respinta dalla comunità araba, pertanto non fu mai attuata.

La seconda azione che caratterizza le relazioni internazionali consiste nel disfacimento politico e manu militari di un inedito complesso ordine mondiale che faticosamente si fa strada nella storia, effettivamente multipolare, funzionale al ridimensionamento, alla relativizzazione delle tradizionali potenze globali che hanno governato gli affari internazionali, tutelando, tuttavia, esclusivamente gli interessi nazionali (gli esempi più calzanti sono le guerre in Iraq e Afghanistan, quest’ultima con il suo corollario in Pakistan), fino all'altro ieri vigenti e sopravviventi.

In conclusione, si vuole rammentare che la Striscia di Gaza, è densamente popolata con un’età media dei residenti di 17,7 anni, soprattutto in conseguenza del massiccio afflusso di profughi palestinesi dopo la costituzione dello Stato di Israele nel 1948. Rimase sotto il controllo egiziano fino al 1967, salvo un breve periodo di occupazione israeliana dal novembre 1956 al marzo 1957, quando fu invasa dalle forze israeliane durante la “guerra dei Sei giorni” e poi sottoposta ad amministrazione militare [2].

Rivendicata dall’OLP come parte di uno Stato palestinese indipendente, veniva posta dagli accordi di Oslo del 1993 sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese in base al principio della restituzione dei territori occupati in cambio della pace. Proprio la città di Gaza, il 14 Dicembre 1998, fu teatro di una storica visita del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton: l’abrogazione dallo Statuto dell’Olp dei riferimenti alla distruzione di Israele, proclamata solennemente in quell’occasione dalla dirigenza palestinese, sembrava spianare la strada alla creazione imminente di uno Stato palestinese e al reciproco riconoscimento fra i due popoli. Ma al contrario, i ritardi israeliani nell’implementazione degli accordi, l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, il crescente ricorso, da un lato ad atti di terrorismo e, dall'altro, all'autodifesa con l'intifada palestinese azzerarono di fatto i progressi compiuti nei negoziati tra le parti e inauguravano una lunga stagione di violenze di cui faceva le spese soprattutto la sempre più impoverita popolazione palestinese.

Tra il 2000 e il 2005 lo stato di crisi economica incombente a Gaza appariva sempre più preoccupante, aggravato dalle continue ‘chiusure’ militari israeliane della Striscia che impedivano il regolare funzionamento della vita lavorativa dei numerosi palestinesi che si recavano in Israele. Aumentava la disoccupazione, crollavano gli scambi commerciali, peggioravano i servizi sociali. Nell’agosto 2005 il primo ministro israeliano Ariel Sharon decise di procedere unilateralmente allo smantellamento delle basi militari e delle numerose colonie ebraiche costituitesi nella Striscia nel corso dei decenni successivi all’occupazione (21 colonie con circa 8200 abitanti), mettendo fine all’amministrazione militare.

Tutto il territorio di Gaza passava così in mano palestinese.

Dopo il ritiro Israele si riservò comunque il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali, il diritto di vietare l’ingresso nella Striscia a coloro che non vi risultavano residenti, il controllo totale dei movimenti di persone e merci tra Gaza e la Cisgiordania e di tutte le merci in entrata nella Striscia, con conseguente facoltà di chiudere i relativi varchi.

Per queste ragioni, le elezioni politiche del Gennaio 2006 in Cisgiordania e a Gaza facevano registrare il successo elettorale di Ḥamas, capace di penetrare in profondità nella società palestinese raccogliendo adesioni sia tra le fasce più disagiate della popolazione, sia tra gli studenti universitari e i ceti emergenti. Il rifiuto di al-Fatàh, fino ad allora la più forte organizzazione politica palestinese, di formare un governo di unità nazionale con Ḥamas, non disposta a rinunciare ai suoi proclami sulla distruzione dello Stato ebraico, lasciava presagire uno scontro imminente tra le due organizzazioni, che fu rinviato solo a causa della violenta offensiva lanciata da Ḥamas contro Israele (fine Giugno 2006), cui quest’ultimo rispose con un’incursione del suo esercito nella Striscia, incursione che portò allo stremo la popolazione già fortemente colpita.

Tra l’autunno del 2006 e il Giugno del 2007 nonostante un illusorio accordo di governo tra i due partiti palestinesi, s’intensificavano gli scontri nelle strade tra i militanti delle due opposte fazioni, culminati in una vera e propria battaglia militare provocata da Ḥamas che vedeva sconfitta ed espulsa al-Fatàh dal territorio di tutta la Striscia, mentre la stessa Ḥamas s’impossessava di tutti i centri di potere. Si determinava di fatto una divisione tra Cisgiordania e Gaza; quest’ultima, infatti, non riconosceva più l’autorità del presidente palestinese Abū Māzen,che rappresentava l’anima moderata dell’universo palestinese.

Tra il 2006 e il 2007 si intensificavano le operazioni militari israeliane a Gaza con l’obiettivo dichiarato di smantellare le basi di lancio dei missili Qassam, che minacciavano Sderot, il deserto del Negev, Ashkelon e la città costiera di Ashod. L’alleanza tra Ḥamas, gli Hezbollah libanesi e l’Iran del presidente Ahmadinejad potenziava la forza militare di Ḥamas, ma non risparmiava alla popolazione della Striscia un’ennesima prova di resistenza.

Il 18 Gennaio 2008 Israele chiudeva ancora una volta Gaza in una morsa tagliando tutti i rifornimenti: cibo, combustile, aiuti umanitari. Il 23 Gennaio alcune centinaia di migliaia di palestinesi forzavano il valico di Rafah al confine con l’Egitto in cerca di cibo e assistenza. Pronta ad approfittare della tragedia della popolazione, Ḥamas alzava i toni della sua propaganda anti-israeliana per guadagnare attenzione e appoggi nella comunità internazionale, ma alla fine dell’anno, il 27 dicembre, Israele scatenava una nuova guerra a Gaza. Obiettivo dichiarato dell’attacco era porre fine al lancio di razzi sul territorio israeliano, che dal 2000 aveva provocato 28 vittime.

Con il cessate il fuoco del 18 Gennaio 2009 e il ritiro delle truppe israeliane dopo l’operazione Piombo Fuso, Gaza appariva un campo di rovine: tra 1166 e 1417 morti il bilancio delle vittime tra i palestinesi, e moltissime le perdite registrate tra i civili; 13 gli israeliani morti, 10 militari e tre civili.

L’impressione suscitata nel mondo dalla situazione a Gaza spinse il Consiglio per i diritti umani delle NU a istituire una Commissione d’indagine i cui risultati furono resi noti nel settembre 2009: si leggeva nella dichiarazione, successivamente sconfessata dal presidente, ma non dagli altri membri della Commissione, che Israele aveva reiteratamente violato i diritti umani della popolazione palestinese e forse commesso anche crimini contro l’umanità.

Il 2009, intanto, aveva fatto registrare numerosi ma sterili tentativi di giungere a una riconciliazione tra Ḥamas e al-Fatàh con la mediazione dell’Egitto, mentre una trattativa segreta era stata avviata alla fine dell’anno tra Israele e i vertici di Ḥamas per il rilascio del giovane soldato israeliano Gilad Shalit rapito il 25 Giugno 2006 da un commando palestinese dell'organizzazione penetrato in territorio israeliano dalla Striscia attraverso un tunnel sotterraneo.

Nel Maggio 2010 l’attenzione della comunità internazionale fu richiamata dall’incursione armata della marina israeliana sulla nave turca Mavi Marmara che navigava in acque internazionali alla testa di una flottiglia di navi dirette a Gaza e intenzionate a forzare il blocco navale israeliano intorno alla Striscia per consegnare aiuti umanitari e beni di prima necessità. Nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara furono uccisi e molti vennero feriti dopo il tentativo di resistenza violenta da parte dell’equipaggio all’incursione israeliana. L’episodio determinò un brusco deterioramento dei rapporti tra Israele e la Turchia, importante alleato strategico dello Stato ebraico nella regione.

Nel corso del 2011, malgrado i tentativi di riannodare i rapporti tra i due paesi, permaneva uno stato di tensione, alimentato anche dal rapporto della Commissione istituita dalle NU che pur accusando Israele di aver ecceduto nell’uso spropositato della forza non considerava illegittimo, come auspicato dal governo turco, il blocco israeliano intorno a Gaza.

Nel maggio 2011, dopo i numerosi tentativi andati a vuoto e una recrudescenza delle violenze tra i militanti delle due organizzazioni, i leader di Ḥamas e al-Fatàh firmavano al Cairo un accordo di riconciliazione, prontamente criticato dalle autorità israeliane, che fissava al 2012 le nuove consultazioni parlamentari e presidenziali. Ma la posizione di forza di Ḥamas veniva ribadita ancora una volta nell’Ottobre del 2011, quando l’11 del mese, dopo cinque anni di delicati negoziati condotti con la mediazione egiziana, i vertici dell’organizzazione e le autorità israeliane annunciavano l’accordo sul rilascio di Gilad Shalit in cambio della liberazione di oltre mille palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Il 18 Ottobre Shalit tornava a casa e contemporaneamente i primi 477 detenuti palestinesi venivano liberati.

Nel Novembre 2012 si è verificata una nuova ripresa delle ostilità israelo-palestinesi: una nuova offensiva di Israele, nel corso dell’operazione denominata “Colonna di nuvola”, ha provocato la morte di A. al Jabari, leader delle brigate Ezzedin Al Qassam, il braccio militare di Ḥamas, seguita da numerose incursioni aeree nella Striscia di Gaza che hanno colpito un totale di circa 1300 obiettivi e prodotto 160 morti, mentre concomitanti lanci di razzi a opera delle forze di resistenza palestinesi interessavano Tel Aviv e altre città israeliane. Dopo otto giorni di violenti scontri, un accordo bilaterale per il cessate il fuoco è stato raggiunto grazie alla mediazione del nuovo governo islamista dell'Egitto e sostenuto dagli Usa, sebbene la tregua appaia agli osservatori internazionali ancora molto fragile e l'OLP abbia presentato una protesta al Consiglio di sicurezza dell'ONU per la sua violazione da parte di Israele, dove si sarebbero inoltre registrati ancora sporadici lanci di razzi sparati dalla Striscia di Gaza.

Nel maggio 2014, dopo il raggiungimento di un’intesa tra al-Fatàh e Ḥamas, le due fazioni si sono accordate sulla nomina di R. Hamdullah a primo ministro del governo transitorio di unità nazionale, ufficialmente insediatosi il mese successivo; le dimissioni di Hamdullah, rassegnate nel giugno 2015 per l’impossibilità di rendere operativo l’esecutivo all’interno della Striscia di Gaza, e i continui dissidi interni hanno portato al rinvio delle elezioni, mentre la Cisgiordania e Gerusalemme hanno visto un drammatico aumento della tensione, sfociato nel settembre 2015 in una nuova ondata di violenza, poi rientrata anche grazie al mancato appoggio delle principali organizzazioni politiche palestinesi. Un passo decisivo verso la riconciliazione è stato compiuto nel Settembre 2017 con lo scioglimento dell’esecutivo di Ḥamas a Gaza e con l’accettazione da parte del movimento islamista delle condizioni poste dall'ANP, tra cui l’indizione di elezioni generali che comprendano anche Gaza e Palestina.

Nel Maggio 2021 violenti scontri scoppiati a seguito dell’allontanamento di alcune famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme hanno provocato una recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, nel corso della quale le due parti si sono affrontate con scontri di artiglieria e attacchi aerei che hanno provocato la morte di circa 200 individui.

La tregua tra Hamas e Israele è stata raggiunta alla fine di Maggio, quando esse hanno concordato il cessate il fuoco, reclamando entrambe la vittoria, ma negli anni successivi si sono registrate varie fasi di ripresa delle ostilità alternate a labili tregue, come nell'Agosto 2022 e nel Maggio 2023, mentre nell'Ottobre 2023 Hamas decide di rompere gli indugi e lancia da Gaza una nuova offensiva contro diverse città israeliane attraverso incursioni via terra e raid aerei, cui Israele ha risposto assediando l'area della Striscia e bloccando le forniture di cibo, elettricità, carburante e acqua. L’escalation militare ha aperto uno scenario di guerra che ha generato nella comunità internazionale grande apprensione per il rischio di una estensione del conflitto ben oltre il contesto regionale.

18/10/2023 Giovanni Dursi

1 Nel significato di «attinente ai fatti», derivato di πρᾶγμα -ατος «cosa, fatto», che riguarda prevalentemente l’attività pratica, l’azione; caratterizzato dal prevalere degli interessi pratici su quelli teoretici e sui valori ideali.

2 Per la dettagliata ricostruzione qui riportata, l'autore dell'articolo si è valso di fonti storiografiche offerte dall'Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Società per azioni, che tra gli scopi annovera la produzione di opere che possono comunque derivarne, o si richiamino a quella esperienza; l'esercizio delle iniziative e attività editoriali e di quelle culturali in ogni forma e modalità, in specie per gli sviluppi della cultura umanistica e scientifica, per la tutela, la valorizzazione e la diffusione della cultura italiana, nonché per esigenze e attività educative, di ricerca, di formazione e di servizio sociale (Art. 2 Oggetto, Statuto, Allegato "A" all'Atto rep. n. 64340 racc. n. 21028.

 

 

 

martedì 3 gennaio 2023

A proposito di “Peace & Love” - “Linguaggi” post-moderni di pace, trasformazione sociale e “sinistra” frustratamente extraparlamentare

La simbologia che ha storicamente accompagnato l'universale rivendicazione di pace – a partire dal 21 Febbraio del 1958 quando, con notevole rilievo sociale, un mobilitazione di massa sostenne iniziative per il disarmo nucleare - trova oggi nello sloganPeace & Love” un punto d'approdo di certa leadership della cosiddetta “sinistra” frustratamente extraparlamentare.


Alcuni esponenti di vertice di tale “sinistra” dimenticano il fatto - o si mostrano sprezzantemente non curanti dello stesso - che l'iconografia ed i “messaggi” del pacifismo (ad esempio, “fate l’amore, non la guerra”) sono stati del tutto riassorbiti dalla logica mercantile del capitalismo maturo che dell'epopea degli hippie e delle aspirazioni insurrezionali del Sessantotto novecentesco ne hanno fatto prodotti di consumo, dal brand Moschino alla Disney Pixar, per limitarci ad alcune aziende che operano globalmente.

A nostro giudizio si è giunti al parossistico approdo concettuale e pratico di parte di tale “sinistra” che prima distorce, poi confonde, infine riutilizza un'accozzaglia di teorie, di linguaggi, di atteggiamenti anche storicamente rilevanti, in modo indubitabilmente vanaglorioso, eclettico (nel senso di incoerente orientamento cognitivo che non segue un determinato sistema o indirizzo di indagine, ma che preferisce scegliere ed armonizzare arbitrariamente principî e congetture che ritiene migliori tra diverse narrazioni teoriche), tendendo nella sostanza a sostituire un percorso d'alternativa politica al capitalismo (teorico-politico ed organizzativo) con un lavoro pseudoculturale d'enfatizzazione di idee e pratiche che possono essere eventualmente considerate un'alternativa di costume all'interno del sistema capitalistico di produzione e riproduzione della vita, quindi assolutamente compatibile con la stratificazione classista della società e con il suo portato d'estrazione costante di plusvalore, “l’eccedenza del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione”.

I dirigenti di siffatta “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, sono vanagloriosi, infatti, quando esprimono un sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui ambiscono al consenso immediato – si potrebbe dire irriflessivo - per meriti inesistenti o inadeguati circa le sorti del mondo e delle classi subalterne. “Peace & Lovead abundantiam sui social network come richiamo per le allodole, come spudorata espressione di un eclettismo che niente di buono prevede per le classi subalterne. La vanagloria immanente a simili scellerate mediatiche posizioni finisce con il produrre un vero e proprio cortocircuito di natura quasi teologico-morale a matrice cattolica, impedendo d'affrontare con coraggio un attuale e cogente ripensamento critico-politico della trasformazione sociale. Conseguentemente, l'eclettica leadership che confonde l'alternativa di costume con quella politica non affida al marxismo ed al leninismo il compito di interpretare teoricamente e strategicamente le contraddizioni economico-sociali in essere, attardandosi, in modo incongruo, in un immoderato desiderio di manifestare la propria bontà umana (rivendicando un indistinto afflato di pace e amore) e in tal guisa ottenere il rispetto delle umane genti, di quegli homines dei quali si trascura la reale e tragica sussistente condizione di classe.


La coscienza della suindicata “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, che incarna una aspetto d'ell'idealismo post-moderno (una sorta di variabile politico-ideologica del cosiddetto «pensiero debole») esemplificato dalla comunicazione sociale della sua leadership, si palesa, dunque, alla maniera di un pan-pacifismo che, come la coltre bianca della neve, tutto copre occultando i diversi profili del variegato territorio sottostante rendendolo suggestivamente e morfologicamente equivalente.

Come è possibile definirsi di “sinistra” o, addirittura, comunista non condividendo la seguente apertura d'analisi della questione: “Il capitalismo prepara, come sempre, le condizioni della guerra. Si può dire di più: il capitalismo è di per se stesso la guerra e, siccome tutto il mondo è capitalistico, la guerra è oggi la condizione permanente dell'umanità. Dal primo decennio del secolo lo sviluppo del capitalismo ha finito d'essere relativamente pacifico perché è stato questo sviluppo stesso a produrre l'imperialismo e a far sì che i paesi capitalistici più sviluppati avessero la forza economica, e quindi militare, di imporre le loro necessità di espansione e i loro interessi ai paesi capitalistici meno sviluppati e quindi più deboli o a paesi coloniali i quali subivano un processo di diffusione del capitalismo nel loro interno” (rif. L'imperialismo unitario, Capitolo XII, "Il nemico è in casa nostra" 1965-1968, Arrigo Cervetto, 1950-1980) ?


In secondo luogo, la deriva evangelico-pacifista sembra spazzare via, sottoporre ad oblio tutto quello sforzo di ricerca etico-politica, nell'ambito del materialismo storico, di Ernst Bloch secondo il quale “il futuro si caratterizza non tanto per essere ciò che supera uno stadio precedente in una scansione dialettico-evolutiva e progressiva; si caratterizza cioè non come ciò che annuncia un regno dei fini sia di segno religioso che politico-ideologico. Il futuro, nella prospettiva blochiana, è ciò che non è ancora. Anzi, grazie alla straordinaria intuizione della Ungleichzeitigkeit (la non contemporaneità dei tempi storici) il futuro può essere anche ciò che non è stato e che poteva essere, il futuro di un passato che non si è manifestato nella sua positività e che può ancora infuturarsi” (cit. Giuseppe Cacciatore, “Bloch e l’utopia della Menschenwürde”, b@beleonline, in Rivista online di Filosofia, n° 5, 2019, pagine 111-122). Per opporsi a questa potente critica al pan-pacifismo, a nulla può valere ricordare che Bloch, dopo i fatti di Ungheria del 1956, si trasferì nella Repubblica Federale di Germania, perché la questione etico-politica - esattamente come da Bloch posta - resta intonsa, affatto logorata.

Inoltre, seguire il trend dell'opposizione retorica e, quindi, inefficace della “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, al sistema vigente di cose, vuol dire macchiarsi di un grave torto d'ingratitudine nei riguardi di chi ha avviato, passando per Hegel, un percorso significativo di innervamento del marxismo (Mein Weg zu Marx la definì il filosofo ungherese al quale si fa riferimento) nella contemporaneità, così come analogamente operò Antonio Gramsci, collocando la ricerca della verità dal punto di vista storico-politico proletario.

Ci si riferisce a György Lukács (rif. Tattica e etica, 1919 e La distruzione della ragione, 1954), ad un antropocentrismo da lui proposto che può sfociare, distante dalla filosofia morale di Kant (che promuove l'intenzionalità esplicantesi come prescrittiva), e lo orienta, senza titubanza, nel centro della concezione storico-dialettica di Marx, quella del sovvertimento antagonistico-duale necessario dei rapporti sociali, perseguendo l'ineguagliabile scopo di riferirsi al soggetto subalterno socialmente in grado di sollevare le sorti dell'intero genere umano, aspirando così a compiere un tangibile percorso storico realmente garante di pace e di solidarietà (cfr. “La lezione radicale di Lukács”, Lelio La Porta, il manifesto, 3 Giugno 2021).

Prof. G. Dursi

sabato 19 novembre 2022

Effìmere le età della vita. In particolar modo lo è diventata quella adolescenziale


L‘età adolescenziale è effìmera. Come, del resto, tutte le altre età della vita, certo, ma va considerata come importante periodo di formazione e di sviluppo psico-fisico decisivo. Inoltre, pur sapendo che classicamente, l'adolescenza viene compresa tra i 10 ed i 19 anni, anche se la SIMA (la Società italiana di Medicina dell’adolescenza) identifica il limite a 21 anni, possiamo affermare che, per questioni diverse, oggi si prolunga anche ben oltre quel limite fino, in alcuni casi, ad eternizzarsi, essendo il soggetto impossibilitato ad effettuare le esperienze necessarie atte a rappresentare oggettivamente il passaggio alla cosiddetta età adulta. Peraltro, entrambi i periodi esistenziali - adolescenza e maturità - manifestano fenomenologie riconducibili alla neotenia, cioè al forzato permanere allo stato neotenico, anche in età post-adolescenziale ed avanzate, determinato non da fattori di natura costituzionale, bensì dovuto alle particolari condizioni ambientali economico-sociali della contemporaneità che configurano il peculiare carattere neotenico dell’uomo: l’incompiutezza, una specifica deficienza di maturazione nelle strutture mentali come nella funzionalità socio-relazionale (rif. P. Virno, Scienze sociali e natura umana. Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubettino, 2003).

Ciò comporta un’inefficace (dal punto di vista dell’adattamento graduale alle forme di vita e d’assunzione di responsabilità sociali), estenuante formazione permanente, disambientamento e flessibilità, tali da non poter mai mettere integralmente a frutto quanto appreso, tali da non riuscire a sperimentare le proprie competenze, da non poter applicare un saper fare coerente con le proprie conoscenze.

Effìmera è, dunque, l’adolescenza, sapendo però che effìmero, etimologicamente deriva dal latino tardo ephemĕrus, dal greco ϕήμερος, composto di πί «sopra» e μέρα «giorno», a significare ciò che dura un solo giorno, come certe febbri. Tuttavia, nonostante che con uso sostantivato, l’effimero designa ciò che è o si considera di breve durata, transitorio, perituro, si può constatare, osservando giovani vite, un nocivo perdurare in uno stato di indefinitezza, in uno “sdraiarsi” anche consapevole, in molti casi, nell’alveo delle incertezze, delle indecidibilità, nel vago bearsi di una “dimensione” privata, intima, quasi non esistesse un mondo da affrontare, “leggere”, seppur con difficoltà, ed interpretare, allo scopo di vivere appieno la propria, unica, vita. Egocentrati in tal modo, rispetto a ciò che appare loro incomprensibile, viene radicalmente ignorato, trascurato, ciò che non è chiaramente percepibile o esprimibile, viene tralasciato, sottoposto ad oblio. Nulla esiste, ai loro occhi, se non quel “mondo” ristretto, concentrato nelle faccende microaffettive, domestico-territoriali, ignari altresì d’essere sempre eterodiretti, nei comportamenti effettivi adottati nell’universo concentrazionario ove agiscono, dalle rappresentazioni sacralizzate della realtà offerta dai media.

Quasi mai s’assiste all’esplosione desiderante di riflessioni, di voglia di leggere (letteralmente) oltre che di consumare, di ribellarsi al giogo degli stereotipi e degli algoritmi sociali, anche nelle componenti più scolarizzate della popolazione adolescente. Un fenomeno disastroso che racchiude l’immane spreco di energie giovanili, una configurazione psichica ispirata alla grettezza di immediate soddisfazioni (prevalentemente di natura materiale), una negazione di progettualità ed impegno, un sopravvivere banalmente, una sostanziale e costrittiva spirale derealizzante, con l’evidente precipitare nell’estesissima povertà lessicale quantomeno per “dire di sé”.

Il termine effìmero, non casualmente, è stato usato tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del Novecento per indicare un insieme di manifestazioni culturali o ricreative, di carattere spettacolare e di breve durata, promosse, nell’ambito di una politica di valorizzazione dei centri storici, dagli assessorati alla cultura di alcune grandi città italiane, accanto e in antagonismo ad attività istituzionali e permanenti.

Bene. Per le ragioni esposte, l’effìmera transizione identitaria - caratteristica dell’adolescenza - in ogni caso non va individualmente lasciata alla deriva, ad un sociomorfismo di tal fatta, esprimendo rassegnazione alla “non cultura”, limitando il proprio ingegno, consegnandosi mani legate all’offerta alienante dei media, alla introiezione di modelli standardizzati buoni a declinare frustrazioni e straniamento.

Gli adulti, gli “esperti”, coloro che possono lasciare un “segno”, che fanno in proposito, cosa mettono in campo per immunizzare i giovani ? Spesso la risposta è “laissez fairelaissez passer”, in perfetta sintonia con lo spirito dell’imperante liberismo economico.

mercoledì 12 ottobre 2022

LA GUERRA e IL DOLORE

Guerra. L’alacre “officina della guerra” non va ridotta a fenomeno collettivo che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi sociali contrapposti organizzati per ottenere la supremazia. Certo, è presente anche questo aspetto che autorizza i poco accorti a distinguere i contendenti in “aggressori” e in “aggrediti”.

In realtà, le trasformazioni cui è stata soggetta la guerra tradizionale nel XX secolo portano a un profondo ripensamento di tutte le categorie con le quali tradizionalmente gli studiosi delle varie discipline hanno affrontato i temi della guerra, delle sue cause, della sua legittimità, del suo contesto, del suo rapporto con la politica e dei possibili modi per costruire la pace attraverso il diritto internazionale e gli organismi sovranazionali esplicitamente preposti.

La guerra nello scenario internazionale ha avuto le sue più significative espressioni negli innumerevoli conflitti tra Stati che hanno costellato l’età moderna e contemporanea e sono culminate nelle deflagrazioni mondiali del Novecento (1914-1918 e 1939-1945). Strettamente legata alla vicenda dello Stato moderno, questa forma di guerra ha conosciuto imponenti mutamenti nel corso dei secoli, i quali in ultima analisi hanno trasformato le ‘guerre limitate’ dell’età moderna nelle ‘guerre assolute’ o ‘totali’ dell’età contemporanea, in cui si è fatto un uso di armi sempre più sofisticate e distruttive, hanno combattuto eserciti di popolo e non più solo o prevalentemente di professionisti, nel quadro di un crescente coinvolgimento dei civili nell’evento bellico; in cui, infine, le logiche tradizionali della politica di potenza si sono sposate con le retoriche di massa della nazione e dello Stato nazionale, del nazionalismo e dell’imperialismo oggettivamente espansionistico e bellicista di matrice capitalista, a tal punto da gradatamente superare il ruolo politico nelle decisioni strategiche degli Stati e dei Governi; essi, fagocitati, le lasciano, inerenti alla dialettica guerra-pace, direttamente nelle mani dei soggetti economici multinazionali, considerando anche che le ‘guerre assolute’ hanno avuto il proprio archetipo nelle guerre napoleoniche e la loro più compiuta manifestazione nelle due guerre mondiali.

Per comprendere appieno la mutata fisionomia del bellicismo novecentesco, si ribadisce l’invito all’utile lettura de “L'officina della guerra - La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale” di Antonio Gibelli (Bollati Boringhieri, 2007), dove l’inestricabile intreccio economia-tecnica-società-condizione umana viene descritto con estrema chiarezza e competenza storiografica. Come viene presentata l’opera, «indagare sul processo di adattamento di milioni di uomini alla realtà della Grande Guerra - una guerra smisurata, radicalmente nuova, la prima guerra tecnologica di massa - è l'obiettivo che si pone l'autore per capire il primo conflitto mondiale e i mutamenti che segnarono l'avvento della modernità. Il libro non si occupa dell'"esperienza di guerra" in senso circoscritto. Ciò di cui milioni di uomini fecero simultaneamente esperienza tra il 1914 e il 1918 non era solo la guerra, ma il mondo moderno: un mondo pienamente pervaso dall'industrialismo e dai principi di efficienza e standardizzazione, in cui lo Stato si insediava capillarmente nella vita privata e nell'interiorità di ciascuno mobilitando sentimenti, immagini, nuove forme di comunicazione. Un mondo in cui si affermavano la scrittura e la fotografia, il grammofono e il cinema. L'esperienza della guerra è perciò vista in stretto contrappunto con quella del lavoro: il lavoro della guerra era una nuova manifestazione delle condizioni del lavoro nella società industriale. Strumenti essenziali per quest'analisi sono le testimonianze scritte (epistolari, diaristiche, memorialistiche) dei fanti e accanto a esse, intrecciate con la memorialistica colta, le testimonianze di medici, psichiatri, psicologi che permettono non solo di esplorare il versante traumatico del conflitto, ma di penetrare nella loro soggettività e di delineare i contorni di quel "mondo nuovo"».

Negare l’integrazione delle dimensioni (economica e politico-militare) intervenienti a configurare la “logica della guerra” è un modo più o meno consapevole di ideologizzare i conflitti, non interpretarli per quel che sono, di banalizzare le sofferenze e di proiettare i propri frustranti  fantasmi su un nemico rimuovendo gli altri, determinanti nemici, auspicando la personale salvezza, quella sorta di dostoevskijana salvezza oltre ogni intendimento; qui, l’intendimento è l’onesto riconoscere che l’unica peculiarità delle guerre attuali è che esse si spiegano a partire dalle convulsioni immanenti al mercato capitalista globale, essendo egemone il modo di produzione e riproduzione capitalista, portatore unico di interessi  economici nella strutturazione delle relazioni internazionali, fino alla capitolazione degli stessi singoli competitori, in questo singolare acquario planetario ove si rischia di morire per decadimento radioattivo.

In effetti, dopo il secondo conflitto mondiale si è aperta una nuova fase nella storia della guerra con l’avvento della contrapposizione tra Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e tra i loro rispettivi blocchi. Le prospettive della guerra si sono sganciate dall’orizzonte tradizionale dello Stato-nazione per svilupparsi in una dimensione sovranazionale o transnazionale, caratterizzata dal confronto-scontro tra due sistemi di alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) cementati dalle due ideologie del capitalismo liberaldemocratico e del comunismo “realizzato”. Questo confronto-scontro ha dato luogo a un’inedita condizione intermedia tra la pace e la guerra definita, in relazione all’età del bipolarismo (1945-91), come guerra fredda. A questo esito ha contribuito in modo paradossale l’avvento dell’era nucleare. Con la creazione di giganteschi arsenali di armi atomiche e poi termonucleari in grado di annientare in pochi minuti la gran parte del genere umano, senza distinzione tra vincitori e vinti, USA e URSS hanno infatti finito per rendere impensabile la possibilità stessa di una guerra generale e per impostare la propria coesistenza su un ‘equilibrio del terrore’. Venendo meno questo tipo di “bilanciamento”, la supremazia mondiale del capitalismo U.S.A. e la subordinazione ad esso dei tanti vassalli, ha fatto si che la voracità e la natura selvaggia, immodficata nei secoli nonostante involucri pseudodemocratici che hanno inteso dissimulare, “costringere” le insite contraddizioni sistemiche, del meccanismo di estrazione di profitti sia l’unica matrice nel XXI delle evenienze storico-sociali a tal punto da alimentare la distruzione di ulteriori suoi interpreti o da non permettere leadership mondiali alternative al comando capitalistico “occidentale”.

Dolore. Il dolore di un popolo, inteso nella sua eventuale identità  collettiva, non può essere descritto. Il dolore, in questa interminabile epoca condizionata dai rapporti economico-sociali improntati dal modo di produzione e riproduzione capitalista, è eminentemente individuale per quanto possa “riconoscersi” per intensità lacerante, annichilente a quello dei propri simili. Il dolore non è intercambiabile, standardizzabile, è intimo, ineguagliabile, di impatto irreversibile sul quotidiano di miliardi di persone. Non è dunque equiparabile, tantomeno esclusivo di questa o quest’altra etnia, soprattutto quando ci si riferisce a quelle tremende sofferenze indotte dalle guerre. L’intelligenza e l’etica dell’osservatore risiedono, dunque, non nel parteggiare, bensì nell’immedesimarsi ed accettare che, date certe condizioni estreme di coscienza, anche dare la morte procura dolore.

“Il dolore è un'esperienza forzata e violenta dei limiti della condizione umana. È una figura aliena e divorante che non lascia requie con la sua incessante tortura. Paralizza l'attività del pensiero e l'esercizio detta vita. Pesa sul gioco del desiderio, sul legame sociale. Altera il senso della durata e colonizza i fatti più importanti della giornata, trasformando la persona in uno spettatore distaccato che fa fatica a interessarsi all'essenziale. Il dolore isola, costringe l'individuo a una relazione privilegiata con la propria pena. Al tempo stesso, è una minaccia temibile per il senso d'identità: lacera la coscienza e schiaccia l'uomo su un senso dell'immediato privo di prospettiva, dandogli l'impressione che il suo corpo sia altro da sé. Incomunicabile, il dolore suscita il grido, il lamento, il pianto o il silenzio, tutti fallimenti della parola e del pensiero. Ma il dolore può anche essere mezzo di espiazione o manifestazione di fede - come nella tradizione religiosa cristiana - o strumento di affermazione identitaria o sociale, ad esempio quando inscrive nella carne la memoria di una filiazione e di una fedeltà alla comunità, come accade agli iniziati di una società tradizionale. Ci sono poi usi del dolore che si alimentano della disparità delle forze tra gli individui: la correzione, la punizione personale, la tortura, il supplizio. L'arte di far soffrire l'altro per umiliarlo o annichilirlo è inesauribile. Il dolore inflitto ne è lo strumento privilegiato, archetipo stesso del potere sull'altro. Il proposito [dell’analisi del dolore] è di approcciare il dolore su un piano antropologico, di chiedersi come influisca sulla condotta dell'uomo e sui suoi valori, sulla trama sociale e culturale in cui è immerso. Tutto ciò, però, senza dimenticare che se l'uomo è una conseguenza delle sue condizioni sociali e culturali, è anche il creatore instancabile dei significati con cui vive” (Fonte:  David Le Breton, “Antropologia del dolore”, 2016).

Aspettiamo che i sostenitori zelens'kyjani entrino in un ottica di rispetto delle vittime del capitalismo, del dolore forzato, causato dal napalm, dai bombardamenti “convenzionali” e dal vigente ed esclusivo sistema di sfruttamento.

venerdì 26 agosto 2022

“Politica” ed elezioni. Lettera aperta ai “leader” d’opposizione governativa di ”sinistra”

Ancora una volta si procede in ordine sparso. I residui atomi di quello che fu il movimento proletario rivoluzionario, sembrano rianimarsi, con le migliori intenzioni, in prossimità delle Elezioni politiche. Pare che per costoro per costruire una società “nuova” sia utile e doveroso transitare da una elezione all’altra, cercare il consenso necessario (dal termine latino, consensus, "conformità dei voleri"), giocare ai duri e puri, finendo così, in ultima istanza, con il legittimare il regime democratico capitalista. Sembra che la contesa con il comando capitalista si dispieghi esclusivamente nelle proposizioni antiliberiste ed antifasciste, nella comunicazione sociale di una presunta diversità (alimentata da un infinito elenco di diritti negati e dalla contrarietà al non rispetto delle stesse leggi; potrebbe essere altrimenti nella società capitalista ?) che, tuttavia, non allude ad una identità politica-organizzativa antisistema. Anzi. L’indifferenza alle variabili rivoluzionarie di un processo antagonista vengono del tutto riassorbite dalla retorica e dalle buone ragioni, ma senza mai mettere in discussione l’assetto di potere, le contraddizioni di base sulle quali si impone e rinnova costantemente la storica divisione in classi del corpo sociale che vede il proletariato del XXI secolo ancora in catene, subalterno ed impotente. Risulta evidente che ogni concezione comunista nell’edificazione d’una società migliore è stata accantonata, resa effimera, laddove si espunge la variabile organizzativa rivoluzionaria, il fattore politico della difesa di classe, quindi non solo giuridica e tradeuninista.

A queste obiezioni minime, si ripeterà - volendo giustificare l’agire militante in un ambiente democratico capitalista - la giaculatoria secondo la quale “non ci sono le condizioni”. Bleffando, se non mentendo a se stessi, perché le “condizioni” si costruiscono secondo strategie e tattiche, analizzando e valutando le “situazioni”, orientando le coscienze, testimoniando con il “fare”, dirigendo verso scopi condivisi la lotta di classe, mettendo anche a repentaglio quelle misere sicurezze che condannano alla subalternità i proletari, certamente non mendicando “spazi” radio-televisivi, interviste sulla stampa di regime o occupandosi di “costume”, come pare accadere a tal punto che il megafono dell’opposizione governativa oggi è nelle mani degli influencer.

L’idea del consenso ad un programma politico, ad una lista elettorale, ad rassemblement disoggettività plurali, distinte, con annessa “valorizzazione” di personalità tutt’altro che comuniste scelte come leadership ha la lieve consistenza di un perverso gioco che non prevede la vittoria, semmai qualche “tribuno del popolo” baciato dalla fortuna. Questa esperienza elettorale, in verità, viene periodicamente utilizzata soprattutto per definire l'accordo su di un determinato ordine sociale, sulle regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni che lo governano. Benché il consenso elettorale entri in gioco anche rispetto a obiettivi specifici che caratterizzano le politiche (di natura economica, assistenziale, ambientale ecc.), come sempre accade, anche in questa circostanza ci si focalizza soprattutto sulle modalità e il grado di partecipazione popolare che riguardano l'esercizio del potere, il contenimento della violenza nei rapporti sociali, la legittimazione dell'autorità, insistendo particolarmente sui dispositivi politici e istituzionali finalizzati al sostegno dei diversi regimi politici capitalisti, in primo luogo quelli ad impianto democratico, e dando risalto all'opinione pubblica, ai modi con cui si determina, all'influenza dei mezzi di comunicazione di massa.

È un circolo vizioso. Ancora una volta, dunque, qs'assiste allo svogliato risveglio del dibattito pubblico – dopo gli anni dedicati alla pandemia e mesi, ora, ai riposizionamenti geopolitici, alle conseguenti deflagrazioni militari e alle convulsioni per l'accesso alla materie prime – come ideological mainstreamche vuole intendere la “politica”, in Italia, alla maniera di un esclusivo e spettacolare evento elettorale. 

Tutti, come capita ai tifosi delle squadre di calcio, si ringalluzziscono in prossimità della “partita” più importante, quella delle settembrine elezioni politiche per il rinnovo (rinnovo ???) del Parlamento della Repubblica italiana.

Tutti ne parlano, tutti fanno a gara nel fornire la formazione imbattibile, tutti impegnati a scegliere e ad indossare la casacca “stilisticamente” giusta della squadra vincente per favoleggiare nei comizi, nelle convention o in sobrie conventicole. Tutti intenti a scrivere in bella calligrafia (in verità, a riscrivere) programmi ed a confezionare promesse. Dopo l'allenamento delle recenti amministrative, tutti pronti a fare spallucce alle sconfitte subite prevedendo rivincite o quantomeno pareggi. L'importante è giocare, the show must go on.

Addirittura capita che alcuni hanno intrapreso il percorso del cartello elettorale dell’Unione popolare (ma non si era già giunti al “Potere al popolo”?), forse ignari che con la stessa denominazione ha agito un partito politico di orientamento liberal-democratico e nazionalista attivo in Belgio, nella comunità fiamminga, dal 1954 al 2011, ma sicuramente coscienti di operazioni simili effettuate nel passato, di un tristissimo déjà-vu, perché convinti che si possa fare come Jean-Luc Mélenchon in Francia che, con La France Insoumise ha costruito un discreto successo inventandosi all'occorrenza una coalizione di “sinistra” la Nup (Nouvelle Unione Populaire écologiste et sociale) che riunisce momentaneamente coriandoli multicolori estranei al tradizionale establishment economico-politico, subculture politiche eterogenee.

Come tratto unitario delle esperienze in fieri è certamente il rinculo politico-culturale; infatti c'è un evidente smarrimento scientifico-sociale, politico ed organizzativo che porta tutti i contendenti nell'agorà elettorale ad appoggiarsi alla general-generica parola “popolo”.

Il termine, come è noto, fornisce storicamente origine, in campo politico-elettorale, al lemma “populismo” usato per designare tendenze o movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del 20° secolo. Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni, almeno in parte riconducibili a una rappresentazione idealizzata del ‘popolo’ e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite. Infatti, Fratelli d'Italia sta costruendo le sue fortune (stando ai sondaggi) proprio sulla reiterata allusione agli “italiani” (quali non è dato sapere), alla Nazione, alla strategia della xenofobia utile a costruirne un'identità che faccia da collante, bypassando le sussistenti oggettive gerarchie sociali e le fondamentali differenziazioni di classe.

Inoltre, tra questi tratti comuni ha spesso assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa (su questo punto, per certi versi, non ci sarebbe nulla di censurabile in una conseguente e radicale critica alla “democrazia reale”, o “incompiuta”, che dir si voglia, a quanto si è palesato dal 1943 al 1948 con la rottura dell'unità antifascista e, successivamente, con i decenni di degrado civile che portano ai nostri giorni), privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader mediaticamente carismatici a organizzazioni politiche da tempo presenti sulla scena politica ed a esponenti del ceto partitico tradizionale.

Il fenomeno contagia indistintamente ogni attuale “offerta” del mercato politico, indotto da una situazione economico-sociale in rapido mutamento peggiorativo per le masse a causa del passaggio da una economia capitalista incentrata sullo “sviluppo” industriale e tecnico ad una fase economica di perdurante “crisi” e di penuria e da sistemi politici a partecipazione “surrogata” della masse a sistemi che registrano una estesissima estraneità/ostilità civica ed una contestuale sopravvivenza di privilegi che integrano l'astensionismo.

Ecco, dunque, la presentazione di slogan populisti da parte di capipartito che si confezionano addosso l'abito del “portavoce delle esigenze del popolo”, attraverso l’esaltazione dei valori nazionali, senza aver mai reciso i legami con il passato, tanto meno dimostrare di aver intenzione di avviare una autentica revisione (patetiche, a questo proposito, le interviste che vogliono sollecitare il “pentimento” da parte di esponenti di Fratelli d'Italia; quest’ultimi retoricamente affermano non esserci spazio per i “nostalgici del Fascismo” in quanto loro stessi, generazionalmente o no, sono la plastica evidenza che in una democrazia in disfacimento c'è ancor più spazio per la “destra”), di propugnare l’instaurazione con esso popolo di un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni tradizionali; tuttavia, ad elezioni effettuate, “passata la festa, gabbato lo santo”.

La politica non riguarda più da anni il rito folcloristico ed alienante delle elezioni; la mobilitazione coscienziale e pratica delle masse va incentivata ogni giorno, ricostruendo il tessuto comunitario di classe, dotandosi degli strumenti teorico-politici necessari ad agire “contro” il vigente sistema e non per farne parte.

Spesso tale cosiddetta “partecipazione elettorale”, vivacemente incentivata da gruppi e gruppuscoli che fanno campagna promozionale di qualche lista per poi ritirarsi nell'inedia a leccarsi le ulteriori ferite, sollecita il potere, depositario del monopolio delle forza, a consolidare il mantenimento di un elevato, devastante, controllo sociale, anche grazie al "libero voto".

Altrimenti. Altrimenti risvegliare pensieri in ristagno, zampilli di vita rivoluzionaria, integrale, senza remore fuoriuscire dal circo della "politica partitico-elettorale" ... altro che affabulazioni, a suo tempo, vendoliane, bertinottiane ed oggi demagistriane ed affini !

Creare le condizioni della scissione sociale. Ogni mediazione si è palesata come storicamente fallimentare. I cosiddetti “gradualismo” e “riformismo” hanno drammaticamente fallito. Non può esserci compatibilità tra diritti e sfruttamento. Ogni ragionamento geopolitico deve fare i conti con questa oggettività. Inoltre, la “rivoluzione” dei rapporti sociali non è una questione solo per giovani, come se a 60 e passa anni, non si voglia o non si possa più procedere individualmente e collettivamente alla trasformazione sociale. Che i giovani dimostrino di saper effettuate scelte, senza riserve o garantite autotutele. Che gli “esperti” continuino un difficile cammino di liberazione, troppo presto ingombro di passi falsi, da alcuni abbandonato per seguire attraenti menzogne sirèniche.

Certi stolti vedono la critica delle parole qcome unico strumento orientativo per la coscientizzazione di massa ed efficace auspicio (??? ?? .) di cambiamenti. Per costoro questa è “azione politica” ! Stolti !

Viceversa, avviamo seriamente la discussione sul “comunismo possibile”. Un background comune è costituito dall’esperienza storico-politica del proletariato rivoluzionario, dai testi marxiani (in particolare, le opere scritte tra il 1845 e il 1847 e la Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica), leniniani e marx-leninisti sulle tematiche di fondo: “base” (realtà economico-sociale costituita dal sistema materiale di produzione e consumo), sovrastrutture (sistema delle relazioni ulteriori che si generano – bedingt - dalla fondamentale contraddizione capitale-lavoro - ne sono causalmente determinate - a garanzia della riproduzione della formazione economico-sociale dominante), trasformazione collettiva (politica di classe ed organizzazione rivoluzionaria) e fuoriuscita dal modo di produzione e consumo capitalista ed estinzione dello Stato. Questo patrimonio culturale va messo in relazione con l'attuale situazione dell'antagonismo sociale alla “crisi” ristrutturativo-globale del capitalismo delle multinazionali, poiché è sempre in agguato la spinta ideologica degenerativa che vede nella “teoria” un dogma (fantasmi retorici si aggirano tra le fila degli anticapitalisti) e nelle “prassi” sociali della lotta tra le classi una rappresentazione astorica (oscillante tra il poco dignitoso tradeunionismo e velleitarismi insurrezionali). Conseguentemente, saranno approfonditi gli aspetti storici (bilancio del movimento comunista mondiale) e teorico-politici legati alle fasi della transizione, alla “dittatura del proletariato” e al “dominio politico di classe” per meglio definire una strategia politica frutto della convergenza tra conoscenza scientifica e comportamenti sociali coscienti, veicoli realmente efficaci della trasformazione collettiva. Privi di un programma del genere, si realizza solo “cattivo teatro”. Che si parta da uno spazio libero di discussione teorico-politicamente creativa e di condivisione di esperienze antagonistico-sociali e trasformative. Un'impresa collettiva, un invito a fuoriuscire dall'ortodossia democraticista che si auto-riferisce e dalla “miseria della Filosofia”.

Prof. Giovanni Dursi

Docente M. I. di Filosofia e Storia

mercoledì 27 luglio 2022

"Politica" ed elezioni

Ancora una volta, s'assiste allo svogliato risveglio del dibattito pubblico – dopo gli anni dedicati alla pandemia e mesi, ora, ai riposizionamenti geopolitici, alle conseguenti deflagrazioni militari e alle convulsioni per l'accesso alla materie prime – come ideological mainstream che vuole intendere la “politica”, in Italia, alla maniera di un esclusivo e spettacolare evento elettorale.
 
Tutti, come capita ai tifosi delle squadre di calcio, si ringalluzziscono in prossimità della “partita” più importante, quella delle settembrine elezioni politiche per il rinnovo (rinnovo ???) del Parlamento della Repubblica italiana.

Tutti ne parlano, tutti fanno a gara nel fornire la formazione imbattibile, tutti impegnati a scegliere e ad indossare la casacca “stilisticamente” giusta della squadra vincente per favoleggiare nei comizi, nelle convention o in sobrie conventicole. Tutti intenti a scrivere in bella calligrafia (in verità, a riscrivere) programmi ed a confezionare promesse. Dopo l'allenamento delle recenti amministrative, tutti pronti a fare spallucce alle sconfitte subite prevedendo rivincite o quantomeno pareggi. L'importante è giocare, the show must go on.

Addirittura capita che alcuni hanno intrapreso il percorso del cartello elettorale dell’Unione popolare (ma non si era già giunti al “Potere al popolo”?), forse ignari che con la stessa denominazione ha agito un partito politico di orientamento liberal-democratico e nazionalista attivo in Belgio, nella comunità fiamminga, dal 1954 al 2011, ma sicuramente coscienti di operazioni simili effettuate nel passato, di un tristissimo déjà-vu, perché convinti che si possa fare come Jean-Luc Mélenchon in Francia che, con La France Insoumise ha costruito un discreto successo inventandosi all'occorrenza una coalizione di “sinistra” la Nup (Nouvelle Unione Populaire écologiste et sociale) che riunisce momentaneamente coriandoli multicolori estranei al tradizionale establishment economico-politico, subculture politiche eterogenee.

Come tratto unitario delle esperienze in fieri è certamente il rinculo politico-culturale; infatti c'è un evidente smarrimento scientifico-sociale, politico ed organizzativo che porta tutti i contendenti nell'agorà elettorale ad appoggiarsi alla general-generica parola “popolo”.

Il termine, come è noto, fornisce storicamente origine, in campo politico-elettorale, al lemma “populismo” usato per designare tendenze o movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del 20° secolo. Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni, almeno in parte riconducibili a una rappresentazione idealizzata del ‘popolo’ e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite. Infatti, Fratelli d'Italia sta costruendo le sue fortune (stando ai sondaggi) proprio sulla reiterata allusione agli “italiani” (quali non è dato sapere), alla Nazione, alla strategia della xenofobia utile a costruirne un'identità che faccia da collante, bypassando le sussistenti oggettive gerarchie sociali e le fondamentali differenziazioni di classe.

Inoltre, tra questi tratti comuni ha spesso assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa (su questo punto, per certi versi, non ci sarebbe nulla di censurabile in una conseguente e radicale critica alla “democrazia reale”, o “incompiuta”, che dir si voglia, a quanto si è palesato dal 1943 al 1948 con la rottura dell'unità antifascista e, successivamente, con i decenni di degrado civile che portano ai nostri giorni), privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader mediaticamente carismatici a organizzazioni politiche da tempo presenti sulla scena politica ed a esponenti del ceto partitico tradizionale.

Il fenomeno contagia indistintamente ogni attuale “offerta” del mercato politico, indotto da una situazione economico-sociale in rapido mutamento peggiorativo per le masse a causa del passaggio da una economia capitalista incentrata sullo “sviluppo” industriale e tecnico ad una fase economica di perdurante “crisi” e di penuria e da sistemi politici a partecipazione “surrogata” della masse a sistemi che registrano una estesissima estraneità/ostilità civica ed una contestuale sopravvivenza di privilegi che integrano l'astensionismo.

Ecco, dunque, la presentazione di slogan populisti da parte di capipartito che si confezionano addosso l'abito del “portavoce delle esigenze del popolo”, attraverso l’esaltazione dei valori nazionali, senza aver mai reciso i legami con il passato, tanto meno dimostrare di aver intenzione di avviare una autentica revisione (patetiche, a questo proposito, le interviste che vogliono sollecitare il “pentimento” da parte di esponenti di Fratelli d'Italia; quest’ultimi retoricamente affermano non esserci spazio per i “nostalgici del Fascismo” in quanto loro stessi, generazionalmente o no, sono la plastica evidenza che in una democrazia in disfacimento c'è ancor più spazio per la “destra”), di propugnare l’instaurazione con esso popolo di un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni tradizionali; tuttavia, ad elezioni effettuate, “passata la festa, gabbato lo santo”.

La politica non riguarda più da anni il rito folcloristico ed alienante delle elezioni; la mobilitazione coscienziale e pratica delle masse va incentivata ogni giorno, ricostruendo il tessuto comunitario di classe, dotandosi degli strumenti teorico-politici necessari ad agire “contro” il vigente sistema e non per farne parte.

Spesso tale cosiddetta “partecipazione elettorale”, vivacemente incentivata da gruppi e gruppuscoli che fanno campagna promozionale di qualche lista per poi ritirarsi nell'inedia a leccarsi le ulteriori ferite, sollecita il potere, depositario del monopolio delle forza, a consolidare il mantenimento di un elevato, devastante, controllo sociale, anche grazie al "libero voto".

lunedì 11 aprile 2022

Belligeranza senza ideali

Belligeranza senza ideali

Pensieri sul “riconoscimento sociale” della lotta di classe e sulla tossicità del pensée unique capitalista

La tragica ed aspra spirale del conflitto bellico paneuroasiatico – che, ad oggi, vede nel territorio ucraino il più recente avamposto - è “coinvolgente”. Interroga tutti gli “uomini di buona volontà”. Terminato il secondo ventennio del XXI secolo, ci sono le condizioni psicologiche, per le giovani generazioni – sia d'ispirazione nerd che “Stúrm und Dráng” - e per le donne e gli uomini nati tra il 1945 ed il 1965 (dai 77 ai 57 anni oggi), per decidere come riorientare anche le proprie esistenze. È giunto il momento di fare i conti con la coscienza e scegliere. Alle stessa stregua di come agirono i partigiani che, per un impulso prepolitico, morale, compirono una scelta di campo e decisero di impegnarsi, mettendo a repentaglio la vita, e combattere con le armi per liberare il mondo dal nazifascismo. Analogamente, è possibile, con consapevole rammemorazione, rievocare il dilemma di Ἀντιγόνη, protagonista della tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C., come utile sollecitazione alla riflessione che si propone ed all'auspicabile agire collettivo.

Si, è indifferibilmente etico intervenire. È una chance che i contemporanei hanno, ob torto collo. Con le armi della “critica”, politicamente e culturalmente. Innanzitutto, dimostrando di comprendere la genesi e l'attuale scenario degli scontri militari in corso. In secondo luogo, perché quando la situazione è atroce, ciò che non si è ancora realizzato, può esserlo. In termini diversi: va esperito il tentativo di affrontare la situazione con un'adeguata disamina ed altrettanto inerente valutazione circa il “da farsi”. Infine, l'auspicata doverosa partecipazione è necessaria anche per contrastare le unilaterali “narrazioni sulla guerra”, le interpretazioni e manipolazioni informative erogate con altrettanta “potenza di fuoco” dal mainstream media subalterno e dagli “utili idioti”, insigni protagonisti del perturbante scenario transdemocratico e al servizio di dissimulate, emergenti cheirocrazie o oclocrazie. (rif. a “L’utile idiota. La cultura nel tempo dell’oclocrazia”, Antimo Cesaro, MIMESIS EDIZIONI, 2020).

Le diverse iniziative socio-culturali correlate al conflitto bellico sono conseguenti alla consapevolezza generale che si dovrebbe possedere avendo memoria del passato, anche recente. In modo esemplare, come è documentato e descritto dal libro di Antonio Gibelli, “L'officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale” (Bollati Boringhieri, 2007), laddove viene detto, tra l'altro, che nel corso della Grande Guerra il flusso della vita e della storia si interruppe almeno per un momento e lì, in quell’arresto del battito cardiaco della storia europea, si poterono cogliere simultaneamente l’agonia del vecchio mondo e l’irrompere del nuovo: l’una non ancora compiuta, l’altro non ancora pienamente dispiegato ma già chiaramente visibile tra i lampi e gli scoppi, tra le montagne di cadaveri, i laboratori fotografici e gli studi psichiatrici.Fu allora che lo specchio della civiltà occidentale andò in frantumi. Fu allora che un «colpo di tuono» squarciò il velo del progresso e aprì le porte alla modernità, disvelandone la micidiale ambivalenza.

Da una parte la Grande guerra utilizzò e potenziò le nuove tecnologie industriali; dall’altra grammofoni, razzi, riflettori, fotografia, cinematografo moltiplicarono l’esperienza della guerra. La modernità entrò, quindi, con un grande impatto nella Prima guerra mondiale e la tecnologia divenne un enorme moltiplicatore dei suoi meccanismi di sviluppo.

Ciò di cui milioni di uomini fecero simultaneamente esperienza tra il 1914 e il 1918 non era solo la guerra, ma il mondo moderno. [...] Ma quali sono i connotati di questa modernità, che la guerra rivela e accelera a un tempo? Sinteticamente essi sembrano ruotare intorno al binomio Stato-industria. La guerra esalta il ruolo dello Stato, facendo di esso una presenza capillarmente insediata nella vita privata e nell’interiorità di ciascuno, un agente di mobilitazione massiccia di forze, sentimenti, immagini. Nello stesso tempo utilizza e potenzia le nuove tecnologie industriali, estende la sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro, di mobilitazione intensiva e di movimentazione coatta di grandi masse umane. Nella guerra si affermano infine una nuova radicale espropriazione del tempo e della vita e un’inedita combinazione tra principio di efficienza-razionalità e principio di distruzione-annientamento. La nuova realtà investe in vario modo la sfera percettiva, disegnando i contorni di un «nuovo paesaggio mentale». Nell’esperienza della trincea e più in generale nell’ambientazione della guerra si palesano il trionfo dell’elemento artificiale su quello naturale (l’elettricità trasforma le notti in giorni, la chimica degli esplosivi polverizza le montagne modificando il paesaggio); la fungibilità di biologia e tecnologia (le protesi sostituiscono gli arti distrutti); il senso del tempo come discontinuità e il suo disancorarsi dalle matrici biologiche, naturali o più semplicemente tradizionali; l’irrompere della nuova morte di massa come prodotto di organizzazione industriale su larga scala e come perdita di confine tra umano e disumano, segno di un anonimato che connota l’esistenza nella società. E ancora, l’esperienza della guerra insegna la moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore del mondo. Grammofoni, razzi, riflettori, ma anche manifesti murali, fotografia, fotomontaggio, cinematografo, che nella guerra sono variamente coinvolti, concorrono al definirsi di questa esperienza mentre attingono da essa i propri linguaggi comunicativi.


La Grande guerra è il primo evento moltiplicato a livello iconografico dall’uso massiccio della fotografia. Non si tratta di una semplice duplicazione, ma appunto di una moltiplicazione praticamente illimitata: ciò è dovuto all’alto numero delle immagini scattate (centinaia di migliaia) e alla loro riproposizione in contesti diversi, alla loro straordinaria circolazione. Un solo esempio: secondo le cifre ufficiali, nel corso del conflitto furono organizzate esposizioni permanenti di fotografie di guerra in tutti i comuni del Regno, mostrando al pubblico 3.000 fotografie in formato piccolo e 25.000 in formato grande. Per la prima volta un evento si presenta ai contemporanei e ai posteri in una rifrazione molteplice: i suoi significati e le sue risonanze. Si propone non come un tutto unico, ma come una serie infinita di immagini. La frantumazione dell’oggetto si accompagna a quella del soggetto. La realtà si incrocia con la sua rappresentazione. I piani si sovrappongono e si intersecano. Non per nulla quella è potuta apparire come una «guerra cubista»” (cit. “L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale”, A. Gibelli, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp.8-11).

La guerra nel bacino del Donec, noto anche come Donbass, il bacino dell'omonimo fiume della Russia e dell'Ucraina, il Donec, affluente del Don, in quella regione storica, economica e culturale, parte del cui territorio nel 2014 si è dichiarato unilateralmente indipendente dall'Ucraina, “non si farà”. “Non si farà”, perché terminando il secondo conflitto mondiale, non si è mai smesso di guerreggiare. In tutte le parti del mondo sono scoppiati conflitti bellici di natura regionale e/o locale. In tutti i continenti, ad esclusione dell’Oceania. “Non si farà” perché non è mai terminata, perché «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» (rif. “Della Guerra”, Carl von Clausewitz, 1832-1837, Mondadori, 1997).

Vecchie e nuove guerre si sono intrecciate fino ai nostri giorni nei quali lo spettro sembra essere più vicino e far più paura.

Per quasi mezzo secolo, dopo il 1945, il mondo ha temuto che il sistema politico internazionale configurato in modo bipolare – e puntellato da armamenti atomici – avrebbe potuto essere messo in discussione solo da una grande guerra generale nucleare: quella stessa guerra che le due superpotenze, USA e URSS, segretamente e quotidianamente preparavano. Né la decolonizzazione dei grandi imperi europei d’Africa e d’Asia, né la conseguente apparizione di un movimento di Stati non allineati modificarono molto i termini della questione. Il sistema politico della “Guerra fredda” a livello militare si fondava su due pilastri interconnessi: 1) prevedeva sul fronte principale europeo-sovietico un contraddittorio sistema di minaccia e contemporanea dissuasione del rischio bellico, sia pur in un crescendo tecnologico e di distruttività, e 2) tollerava una serie assai ampia di conflitti limitati alla sua periferia, nel Terzo mondo. Lo spazio della guerra, in questo sistema politico segnato dall’epocale novità della minaccia nucleare, sembrava dividersi fra grande guerra generale atomica preparata e minacciata, e guerre limitate – non di rado internazionalizzate, anche micidiali e atroci ma contenute – nel Terzo mondo. Per quasi mezzo secolo le regole e lo spazio della guerra, la sua grammatica, furono queste.

Oggi s’assiste all’inerzia delle precedenti fasi storiche, all’acuirsi delle lotte per la supremazia economico-politica planetaria, connessa a quella energetica, ed alla riproposizione di un’estremizzazione della “balance of power” che può evolvere 1) verso reciproci annientamenti, certo, ma può anche 2) disinnescare le tensioni militari dando continuità a relazioni internazionali tra le potenze - esattamente come hanno fatto le politiche estere dei diversi contendenti, perseguite nella storia non solo europea, a trazione statunitense - per impedire l'emergere definitivo di una potenza egemone tale da sconvolgere la “pace capitalista” e l'equilibrio globale commerciale per sua natura perennemente instabile, incompiuto.

Il multilateralismo, forse, non è all’ultimo step; può rappresentare la vera e propria “de-escalation”, nel lugubre senso fornito dalla paradossale dimensione dell’impossibilità/possibilità di una Cina silente ed equidistante oppure interventista. Questa situazione di perenne conflittualità internazionale e di relativa incertezza nel posizionamento cinese rappresenta la via di uscita dal cul-de-sac ucraino (a questo proposito, si rinvia a “Capitalismo e globalizzazione”, Nerio Nesi, Ivan Cicconi, Prefazione di Luciano Canfora, Bibliografia a cura di Giovanni Dursi, Koinè Nuove edizioni, 2002; “Per una forza nuova”, Gianfranco La Grassa, Gianni Petrosillo, Presentazione di Giovanni Dursi, Solfanelli Edizioni, 2021).

Quindi, evitando il pacifismo di maniera e, al contempo, d’essere fagogitati dal gendarme statunitense, come sempre, l’impresa è trasformare le guerre imperialiste in un assalto al cielo, in una guerra sociale rivoluzionaria.

La parte “occidentale” del fronte di guerra

L’attuale Governo italiano abroga l’art. 11 della Costituzione (“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”) inviando contingenti di migliaia di soldati, potenziando la propria presenza militare in Romania e Lettiona, raddoppiando il numero dei mezzi aerei già operanti, a supporto dei dispositivi NATO che presidiano il conflitto armato Russia Ucraina; inoltre, il Governo italiano contribuisce al clima di alta tensione con la cessione di mezzi ed equipaggiamenti militari all’Ucraina; l’Unione europea decide di finanziare e dotare di armamenti lo Stato ucraino con evidente innesco di recrudescenze europeiste per la costituzione di un esercito comune dell’Unione; la Germania provvede ad incrementare le potenzialità belliche del suo esercito, per la prima volta dal secondo dopoguerra; gli USA fomentano il passaggio da una sterile attività diplomatica e sanzionatoria di stampo economico all’evocazione della “terza guerra mondiale”. Questa, in sintesi, l’architettura sicuritario-bellica che - con la sovradeterminazione politica della NATO sulle “politiche estere” dei singoli Stati (secondo il principio di continuità politica-guerra) che ne fanno parte, incapaci d’abbracciare la strategia del “non allineamento” - sta precipitando il mondo verso l’irreparabile, non prevedendo più la contrapposizione (ma anche meccanismi di regolazione) fra due superpotenze, in cui l’Europa era spaccata in due secondo linee ideologiche e aveva quindi un ridotto peso politico, in cui il resto del pianeta era ancora afflitto dal colonialismo e in cui, in genere, l’eco politica dei soggetti sub-statuali era ancora piuttosto limitata, bensì una eterogenea e multilaterale belligeranza dovuta al pieno dispiegamento dei processi di globalizzazione politica ed economica, assieme al succedersi di ondate di involuzione autoritaria dei singoli Stati sullo scenario europeo ed internazionale. Di fatto, il post-bipolarismo non sembra escludere la minaccia di un annichilimento generale atomico, fra tutti i protagonisti e comprimari in lotta, che aveva caratterizzato lo scontro bipolare. Se la situazione di due imperi supernazionali e tendenzialmente universali, destinati a fronteggiarsi con armi di distruzione convenzionale oltre che atomica, si è storicamente dissolta, la crisi attuale dimostra che è esponenzialmente ampliata ed anche degenerata la conflittualità armata multilaterale che spinge nella direzione di non risparmiare più alle proprie società civili gli orrori derivanti da un’esperienza diretta della guerra anche sui suoli nazionali o confinanti.

Al di là delle percezioni rimane una realtà che nel frattempo risulta però sempre più semplice da definire come estrema, autolesionista battaglia per acquisire un eventuale “dividendo di guerra”; essendo inceppato il meccanismo mercantile di “generazione del valore” si è in presenza del pericoloso slittamento sistemico verso l’opzione belligeranza al oltranza, variamente sollecitata dal capitalismo globale.

Nel frattempo, le quotazioni in Borsa di Leonardo S.p.A., un'azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell'aerospazio e della sicurezza il cui suo maggiore azionista è il Ministero dell'economia e delle finanze, schizzano a +13,61%, spinte dall'annuncio dell'UE di inviare armi e finanziarne l'acquisto in Ucraina. Lucrosi “dividendi di guerra”.

Tuttavia, vanno ricordate le notti dei bombardamenti NATO di Belgrado di 23 anni fa. Anche in quella dannata circostanza i complessi militari-industriali occidentali e le istituzioni che presiedono ai PIL nazionali e alle politiche di potenza hanno realizzato distruzione e morte e tentato di riavviare, in queste guisa, il “ciclo economico”, riorientando in forma profittevole il fluttuante svolgimento dell'attività di produzione dei paesi interventisti coinvolti nelle loro totalità strutturali, andamento quale appare da indici quantitativi globali come quelli riguardanti la produzione nazionale, l'occupazione totale, il livello generale dei prezzi, i fatturati aziendali ed altro.


Il punto d'osservazione che, però, fatica ad emergere è un altro. Quando l'ingiustizia e lo sfruttamento si fondono con la mancanza di risorse materiali e postmateriali socialmente condivise, con la frammentazione sociale, con le malattie fisiche e mentali, con la sofferenza strutturale indotta dalla lotta di classe permanente, si instaura sempre verosimilmente una condizione di oppressione. In definitiva, il benessere generale dipende dalla giustizia, così come il benessere individuale, relazionale, organizzativo, di comunità ed ambientale dipendono dalla giustizia sociale, una esperienza storica su cui dovrà fondarsi ogni comunità effettivamente libera. Il suo alto compito è considerare le tematiche quali il potere, l'oppressione e la liberazione come processi in divenire che vanno analizzati nelle diverse forme, strutture e sistemi a livello di comunità, di nuove istituzioni popolari e di società “allargata”.

Le “condizioni” per una base negoziabile Russia Ucraina credibile e le “anime belle”

Abbiamo trovato alcuni punti su cui è possibile trovare un terreno comune", ha detto il negoziatore russo Vladimir Medinsky, citato da Interfax. Vladimir Putin si è impegnato oggi a "sospendere tutti gli attacchi contro i civili e le abitazioni". Un accordo Russia Ucraina sarà possibile solo dopo la "smilitarizzazione e de-nazificazione" di Kiev, "quando avrà assunto uno status neutrale", e con il riconoscimento internazionale della Crimea come territorio russo. Queste le “condizioni” per porre fine al conflitto in Ucraina.

Le anime belle, contestualmente, disquisiscono sulla guerra e sulla pace. Addirittura, isolandosi nel proprio mondo interiore, pensano all’immanenza della pace, ad un “qui e ora” della convivenza civile che, di fatto, si trasforma in un’indecente evocazione del trascendente, mentre, dopo aver proferito il sermone quotidiano, mestamente tornano agli “affari” propri, al quieto laissez faire, senza vincoli morali alle attività.

L’idea di “anima bella”, è già presente in Plotino (con questa espressione egli intende l’anima che ritorna in sé stessa), viene ripresa dai mistici spagnoli del Cinquecento e da Rousseau nella “Nuova Eloisa” (1761). Ma l’espressione acquista un significato più preciso nel saggio di Friedrich Schiller “Grazia e dignità” (1793). «Un’anima bella – dice il poeta – non ha altro merito che quello di esistere. Con facilità, come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità, e il sacrificio più eroico, che essa strappa all’istinto naturale, appare come libero effetto di quel medesimo istinto». Schiller descrive dunque, con l’espressione, un’anima ispirata bensì dal dovere, ma nella quale gli impulsi sensibili si accordano spontaneamente con la legge morale. Goethe dedicò all’anima bella il sesto libro delle “Esperienze di Wilhelm Meister” (1795-96), dove a proposito di essa dice: «Io non mi ricordo di nessun comando, niente mi appare in figura di legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto; io seguo liberamente le mie disposizioni e so così poco di limitazione come di pentimento». Ma l’idea di anima bella ha acquistato rilievo soprattutto per la raffigurazione che Hegel ne ha dato nella “Fenomenologia dello spirito” (1807). In quest’opera si insiste sul carattere mistico e contemplativo dell’anima bella; essa è la soggettività elevata all’universalità, incapace tuttavia di uscire da sé stessa, e di trasformare, attraverso la propria azione, il proprio pensiero in essere.

L’anima bella è «questa fuga davanti al destino, questo rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé». L’anima bella è, quindi, pura e incontaminata, ma completamente incapace di agire nel mondo, e di influire sul suo corso con il proprio impegno e con la propria operosità.

Le anime belle sono indaffarate. Pontificano contro le autocrazie guerrafondaie. Sognano d’essere in una democrazia, «il regime dell'eguaglianza», nascondendosi dietro la foglia di fico di un Parlamento che consente di discutere, sempre approvandole, le indiscutibili decisioni di un Governo - presieduto da “alieni” che hanno poteri assoluti - che violano la carta costituzionale e si predispongono alla guerra, sospingendo i cittadini verso un’ennesima emergenza, riorganizzando le attività economiche e sociali in modo ottimale per aiutare lo sforzo bellico.

La fase politico-militare, successiva al crollo del muro di Berlino, avvenuto il 9 Novembre 1989, consegue in questi giorni un’ulteriore messa in questione degli attuali assetti raggiunti, riparametrando le “zone di influenza” e “neutralità”. Il diluvio anticomunista del dopo ’89 e l’ipertrofia capitalistico-planetaria con l’11 Settembre 2001 hanno tentato di unificare il mondo dentro il modello unico di produzione e riproduzione della vita con l’invenzione del “terrorismo”, frutto di un non ben identificabile “integralismo ideologico”. Successivamente, la crisi del ciclo economico capitalista del 2008 (innesco: crisi del mercato immobiliare statunitense e la correlata bolla finanziaria), e peculiarmente le ricorrenti recessioni che ha generato, con lunghi periodi di contrazione economica significativa e duratura al punto da causare un iniziale shock esogeno (tra cui si annovera anche la sovrapproduzione), con effetti diretti sulla domanda aggregata, ovvero sulla somma della domanda per beni e servizi prodotti all’interno di un’economia che implode, effettuano una sorta di “salto di specie”: i meccanismi di persuasione alla conformità capitalistica planetaria cedono il posto alla repressione delle “devianze” rappresentate dai residui della lotta di classe novecentesca, tradizionale, che, inopinatamente, instaurano alcuni legami, pericolosi per la ristrutturazione “globale” del mercato, con emergenti neoprofili di sfruttati, per loro natura antagonisti. Infatti, è subdolamente introdotta nella gestione biopolitica del potere, da parte dello stato imperialista delle multinazionali, l’arma - auspicata letale - del contagio pandemico di massa su scala planetaria.

L’evidente scacco circa l’intento di controllo sociale (rif. al Capitolo VI inedito de “Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie“ di Karl Marx che introduce la categoria di sussunzione al capitale sdoppiata in “sussunzione formale” e “sussunzione reale”) mediante una drastica contrazione demografica mondiale, induce, conseguentemente, a riutilizzare con maggior efficacia l’opzione “guerra”, del resto mai accantonata dal 1945 e mantenuta attiva anche nel territorio europeo 1) con la pulizia etnica nei Balcani che venne attuata durante la guerra scoppiata tra i Paesi che componevano la Jugoslavia federale (Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia), ricca di violenze e tensioni politico-istituzionali che insanguinarono l’area tra il 1990 e il 1999 e 2) dalla metà del secondo decennio del XXI secolo proprio con la guerra dell'Ucraina orientale o guerra del Donbass, ufficialmente iniziata il 6 Aprile del 2014.

L’apocalisse non è dunque oggi cominciata. E il diavolo non risiede al Kreml′. Dobbiamo renderci conto che nella società civile contemporanea l’uomo postmoderno ha sempre vissuto un tragico travaglio dal quale - evitando la logica binaria tipica delle tifoserie da stadio - dovrà intercettare domande costitutive dell’esistenza possibile, che, senza velleità, si pongono preliminarmente in questi termini: come fuoriuscire dall’ordine mortifero mondiale creato dal capitalismo ?

I negoziatori per la pace in terra ucraina, per interrompere la guerra iniziata nel 2014, ciurlano nel manico. Vacillano, tentennano, si dimenano, avanzando rivendicazioni sostanzialmente interlocutorie, se non inutili, perpetuando l'orrore. Non c'è traccia alcuna della soluzione che prevede la neutralità dell'Ucraina, stante la dinamica geopolitica che si è generata dopo il 1989.

Non c'è visione, non c'è consapevolezza pragmatica circa una oggettiva de-escalation e ci si sottrae, con abili raggiranti narrazioni, ad impegni che prefigurano essere fermi nelle proprie, concordate convinzioni e condotte a garanzia della convivenza civile. Sembrano (sembrano) esservi solo contrapposti propositi. Ricordiamo che in Ucraina, il 17,3% della popolazione è etnicamente russo e più del 40% degli ucraini usa il russo come lingua madre. Nella regione del Donbass, quasi il 40% degli abitanti si dichiarano russi.

L’Europa ha avuto un periodo di “pace” durato 46 anni, fino alla guerra dei Balcani, durata a sua volta 10 anni e che ha finito per coinvolgere la NATO, che ha bombardato Belgrado per due mesi e mezzo lasciando sul terreno tra 1.200 e 5.000 morti a seconda delle fonti.

Oggi, mentre i produttori di armi pregustano l’aumento del loro giro d’affari, la Russia sta esercitando la superiorità militare convenzionale in Europa oltre che il ruolo di fornitore di energia a tutta la parte occidentale del continente. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea sembrano invece essere attori di un insensato riarmo e fronteggiamento in questa trama che sta portando all’esito fatale dove, come sempre, i più colpiti sono i civili, prime vittime di ogni guerra.

Potrà sembrare riduttivo, ma balza agli occhi il fatto che ogni giorno qualcuno cerca di vendere qualcosa. Ciò accade secolarmente, a partire dal 16° secolo, non solo utilizzando mezzi tradizionali, la vasta gamma di attività promozionali e di linguaggi pubblicitari nel corso del tempo adottati. Oggi le modalità più diffuse di sollecitazione sono le ossessive telefonate a tutte le ore ricevibili, l’occupazione radio-televisiva e dei social network da parte della cosiddetta informazione commerciale, gli ormai desueti “consigli per gli acquisti” evoluti sottoforma di suadenti influencer che si prendono la briga di pensare al nostro posto, di diventare pseudo opinion leader.

Perché ? Perché tutto è fagocitato dal sistema di produzione di beni e del loro consumo ricorrente, persistente. Pertanto, anche un evento culturale, una mostra, un concerto, i libri sono considerati dei prodotti. Prodotti che in questa guisa dismettono le loro peculiarità e mutano in eventi di compra-vendita mainstream, rivolti ai pubblici non di nicchia (e questo è un bene), ma all’universo degli acquirenti, genericamente intesi. Accade quanto il buon vecchio Herbert Marshall McLuhan ebbe a dire “the Medium is the message”, regola aurea dell’Inbound Marketing, che vede sempre più spesso protagonisti, accanto ai soliti imbonitori, abili affabulatori nella commercializzazione dei materassi, - indifferentemente - scrittori/scrittrici che con espressioni compite e accettabili faccine simil sbarazzine sintetizzano, come fossero superficiali “quarte di copertina”, i contenuti di volumi che presentano sui cosiddetti “canali social”, dopo averli “digeriti” (intendendo dire: letti; si auspica); esattamente come accade ad altrettanto disinvolte signorine seminude che, con brevi video postati, ad esempio su Instagram, stimolano l’acquisto di “completini” presso il consueto sexy shop di riferimento, anche grazie ad esplicite movenze di gambe, glutei, seni e mimiche facciali. Del resto, anche “con il culo” si saluta, come canta il gruppo musicale La Rappresentante di Lista, “Ciao (ciao, ciao, ciao, ciao, ciao, ciao, ciao)”.

In qualche modo, la specificità del prodotto viene smarrita, diviene indifferente, prevalendo il “modo” e il “canale” e i contenuti culturali vengono assimilati a merci, ad oggetti di consumo, seguendo acriticamente le strategie di marketing più attuali, preferite dal “mercato”, piuttosto che impostare creativamente raffinate forme di informazione/comunicazione culturale. Ad esempio, la coraggiosa, sperimentale modalità di Cordelia Stagno.

Considerata la quotidiana immersione di tutti nel web, l’ecosistema online offre un panorama desolantemente monotono d’attività di persuasione al consumo da rendere ormai indistinguibile se si è esposti alla profferta di culatello o dell’ultima replica teatrale de “Il malato immaginario” di Molière, se si sta per comprare capsule di picosolfato di sodio oppure l’ultimo volume della serie “L’amica geniale” pubblicato dall’anonima scrittrice Elena Ferrante.

Il cuore di tutte le attività di digital advertising è la vendita, qualsiasi sia il “bene” di cui si tratta.

Tuttavia, continuo a chiedermi perché mai dovrei seguire uno spot per recarmi in libreria ad acquistare un libro o vedere un trailer di un film per poi recarmi al cinema . . . Preferisco conoscere, preferisco scegliere, preferisco decidere, preferisco rischiare, preferisco conversare.

Questo, nondimeno, è il milieu socio-culturale entro il quale si dispiega nell'immaginario di massa l'ennesimo conflitto bellico.

Quello che si pretende dai media sono informazioni e intrattenimento. Ma, non rimuoviamo, anche i media esigono qualcosa da noi. Che si creda loro. Oggi, con il consistente e, per certi versi, inarrestabile processo di disintermediazione nell’ambito dell’informazione sociale, le “fonti” sono proliferate a dismisura creando, consapevolmente o meno, l’overload informativo e, spessissimo, la sovrapposizione tra fake news, anche artatamente “confezionate”, e narrazioni corrispondenti al “vero”. Siffatto milieu è l'architrave del “pensiero unico”che opera influenzando tutti i fattori che determinano i processi politici, sociali, artistici e letterari, inaridendo la ricerca disinteressata di “verità” (al plurale) e la facoltà conoscitivo-interpretativa dei “fatti”.

Morto, o quasi, il giornalismo d’inchiesta (ci sono segnali confortanti circa una nuova leva di professionisti, ad esempio Jacopo Ottenga; seguire il suo servizio, il podcast «La Congiura del silenzio» dedicato ad Antonio Russo), venuto meno il metodico ricorso a intermediari affidabili (come agenzie-stampa e media indipendenti) nella fruizione di beni conoscitivi e di servizi giornalistici di pregevole fattura, in seguito alla diffusione di InterNET, che facilita l’amalgama tra “vero”, “verosimile” e “falso”, il contatto diretto tra fruitori e produttori di “notizie”, si precipita nel perverso gioco delle interpretazioni (a volte “liberamente” uscite di senno) corrispondente all’evidente strategia politica di controllo sociale che tende a lasciar interdetti, confusi, disorientati gli interessati ai fatti del mondo con lo scopo di preparare la loro psicologia a qualsiasi evenienza politico-legislativa, politico-militare, antropologico-politica.

A mio modesto parere, il padre-fotografo, Oleksii Kyrychenko, costruiti o meno la location e il “messaggio”, avrebbe fatto meglio a non esporre su Facebook sua figlia in armi, pare sia una bimba ucraina di 9 anni, tantomeno armare sua figlia minore. Ha senz’altro contribuito ad un’ulteriore strumentalizzazione e abbrutimento dell’infanzia.

Sul fronte del dolore e della tragedia, se l’esistenza è teatro del transeunte e di oblio, e tutto ciò che più vi risplende, perfino le forme stesse della bellezza nelle più alte espressioni, è posto in scacco dalla disgregazione sociale e dalla dimenticanza – ovvero, in un’unica parola, dalla «morte» –, solo la volontà può agire da antidoto a questa dinamica e fare sì che ciò che è stato vivo resti vivo ancora, conservando nitidi ricordi. Sul piano della politica volta alla conservazione dello status quo, dunque solo l’intenzionale ribellione può apportare cambiamenti e recare nocumento alle rilevanti figure del potere e del vivere quieto.

Avviamo, pertanto, la discussione sul “comunismo possibile”. Un background comune è costituito dai testi marxiani (in particolare, le opere scritte tra il 1845 e il 1847 e la Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica), leniniani e marx-leninisti sulle tematiche di fondo: “base” (realtà economico-sociale costituita dal sistema materiale di produzione e consumo), sovrastrutture (sistema delle relazioni ulteriori che si generano – bedingt - dalla fondamentale contraddizione capitale-lavoro - ne sono causalmente determinate - a garanzia della riproduzione della formazione economico-sociale dominante), trasformazione collettiva (politica di classe ed organizzazione rivoluzionaria) e fuoriuscita dal modo di produzione e consumo capitalista ed estinzione dello Stato.

Questo patrimonio culturale va messo in relazione con l'attuale situazione dell'antagonismo sociale alla “crisi” ristrutturativo-globale bellica del capitalismo delle multinazionali, poiché è sempre in agguato la spinta ideologica degenerativa che vede nella “teoria” un dogma (fantasmi retorici si aggirano tra le fila degli anticapitalisti) e nelle “prassi” sociali della lotta tra le classi una rappresentazione astorica (oscillante tra il poco dignitoso tradeunionismo e velleitarismi insurrezionali). Conseguentemente, potranno essere approfonditi gli aspetti storici (bilancio del movimento comunista mondiale) e teorico-politici legati alle fasi della transizione, alla “dittatura del proletariato” e al “dominio politico di classe” per meglio definire una strategia politico-organizzativa frutto della convergenza tra conoscenza scientifica e comportamenti sociali coscienti, veicoli realmente efficaci della trasformazione collettiva.


Cóntro. Essere cóntro

Già. Milioni di persone dichiarano, esplicitamente o simbolicamente, d’essere cóntro. La preposizione è utilizzata come prefisso in molte parole composte nelle quali indica opposizione (contraereo, controsenso), movimento o direzione (“ostinata”) contraria (contropelo, controvento), reazione, replica, contrapposizione (controffensiva, controquerela, contrordine), controllo, verifica (controprova, contrappello), rinforzo, aggiunta (controcassa, controfodera); con significato più particolare, affine a quest’ultimo, nei termini di marina controvelaccio, controfiocco, contrammiraglio. In questo frangente, il termine manifesta, nel diffuso incalzare retorico di massa, una evidente, inevitabile curvatura ideologìca. Ricordiamo che nel pensiero marxiano, l’ideologìa sta ad indicare l’insieme delle credenze religiose, filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica sono proprie di una determinata classe sociale, informandone il comportamento, e che dipendono dalla collocazione che questa ha nei rapporti di produzione vigenti (ad esempio l’ideologìa borghese); in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire espressione del pensiero scientifico, ha la funzione di esprimere e giustificare interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o di aderire a un preteso corso naturale degli eventi storici.

Ebbene, chi è solo “cóntro”, dimostra de facto, un’incapacità, una discrezionalità, una mancanza di volontà nel proporre; dimostra una carenza nella critica dialettica dell’esistente, una adialetticità che genera passività, uno ”stare alla finestra” in attesa che si modifichi il “panorama”.

Che si cominci ad essere propositivi, ad essere “a favore”, a “fare”, perché è ideologico dire d’essere “cóntro” !!! Il capitalismo ha continuato a prosperare non grazie alla sua intrinseca energia, o per la forza della «società incivile» da essa generata, ma soprattutto per il contrasto incerto e fiacco messo in atto da chi dovrebbe combatterlo nell’ambito della lotta di classe. La politica, i poteri espressi dalla dialettica Stato/impresa, anche quelli più forti, non hanno mostrato invincibilità; le forze antagoniste, semmai, sono implose, hanno ceduto di fronte all’incalzare dell’ideologia “democraticista” perdendo “coscienza”, energia e qualità politica e determinazione organizzativa per combattere, oppure si sono alleate con il capitalismo stesso facendo scempio delle conquiste storiche del movimento operaio che appartengono a tutti: la sicurezza del lavoro, l’ambiente, le libertà civili elementari, il diritto al futuro delle giovani generazioni. Oggi le classi subalterne si leccano le ferite inferte dai tradimenti subiti. La corruzione partitica o sindacale è capillare, l’associazionismo civile è precario, la partecipazione politica è scarsa, e le elezioni sono fasulle perché i consensi non sono liberi e si “comprano”.

Oggi abbiamo addirittura il “reclutamento” dei corpi e delle coscienze individuali per la guerra …

La routine economico-politica-bellica continua fino a notte fonda, fino all’ecatombe. Pensare che sia tutta responsabilità di un uomo “solo al comando” è fuorviante.

Anche se siamo tutti esausti e preoccupati per le scontate ripercussioni globali dell’indomani, comunque vada a finire, a nulla serve stigmatizzare l’individuo come artefice di ogni nefandezza. Volenti o nolenti siamo dentro una struttura relazionale, prigionieri o carnefici. Non c’è duce senza agrari ed industriali a sostegno, non c’è assistenzialismo fascista senza “fabbrica del consenso”.

Non può realizzarsi il Terzo Reich, senza che i vari Hermann Göring si siano assunti la responsabilità d’essere colpevoli per la maggior parte dei crimini di cui sono stati accusati nel processo di Norimberga, così come Otto Adolf Eichmann, nel processo del 1961, si difese dichiarando a proposito dei Konzentrationslager: «Non lo nego. Non l’ho mai negato. Ricevevo degli ordini e dovevo eseguirli in virtù del mio giuramento. Non potevo sottrarmi e non ho mai provato a farlo. Ma non ho mai agito secondo la mia volontà».

Non è mai - il terrore -, da quello robespierriano (1793-1794) ai nostri giorni, partorito dalla mente perversa o disturbata di un solo individuo; le abiezioni sono compiute grazie alla complicità e all’aberrante azione di gruppi sociali, ristrettì o meno, che attorniano il leader, all’agire di una ampia fascia di burocrati ligi al dovere, rispettosi delle leggi e delle regole, cittadini esemplari (tale si è definito Eichmann), divenuti strumenti del potere e trasformati in ingranaggi indispensabili della macchina totalitaria e guerrafondaia.

Isolando ed enfatizzando il valore dell’azione individuale, prerogativa che caratterizza e rende non del tutto comprensibile gli accadimenti, preclude all’analisi una strada non accidentata che rileva l’oggettività del fenomeno dell’allineamento e dell’omologazione, della compartecipazione, della correità. Il mito psicologizzante della personalità è inutile a dare risposte sensate alle tragedie e deresponsabilizza i più, siano essi parte dell’intelligencija oppure espressione dell’ignoranza dei popoli.

'I fatti sono fatti e non spariranno per farti un piacere' (Jawaharlal Nehru)

Da oltre un mese, seguendo il flusso informativo quotidiano e il pubblico dibattito sull’andamento del conflitto bellico in Ucraina, è agevole notare che si stanno ingrossando le fila degli adepti del persiano Mani (Sec. III) e dell’adesione acritica alla sua dottrina basata sull'identificazione di due principi assoluti, il Bene e il Male, in perpetuo e insanabile contrasto tra loro. La cattiva coscienza e la logica “binaria” del mondo capitalistico-borghese euro-atlantico producono insani incubi ed oscurano anche le “migliori intelligenze” (il mio amico Eugenio Agus, ad esempio) che affastellano riflessioni antropocentriche grazie alle quali partoriscono mostri retorici e geopolitici.

Oltre ad un moto di ripulsa per questa semplificazione metafisica, penso debba essere contrastata una deriva concettuale che nasconde notevoli e diverse contraddizioni. La prima risiede nell’esplicitare un manicheismo (nella fattispecie: Occidente vs “Grande sacra Russia”) foriero di idee, analisi e atteggiamenti di rigida e radicale contrapposizione sul piano delle ideologie o delle prassi civili che storicamente non hanno fondamento.

In realtà, la “Russia è da sempre al centro di rappresentazioni ingannevoli, esoticizzanti e fuorivanti nell'immaginario collettivo occidentale, radicate al punto tale da divenire veri e propri ostacoli per il dialogo e il reciproco incontro. Soprattutto in tempi di difficili relazioni politiche e diplomatiche come quelli attuali, fortemente caratterizzati dalle conseguenze della crisi in Ucraina, appare quanto mai necessario educare alla decostruzione degli stereotipi e a un nuovo atteggiamento di apertura” (Dott. Federico Zannoni, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione, dell’Università di Bologna).

Tuttavia, è antropologicamente vero che i russi (non tutti, ovviamente) chiamano la loro terra “Santa Madre Russia”, una sorta di personificazione mistica della nazione, un’immensa pianura bianca di neve d’inverno e bionda di grano d’estate, che rievoca l’antico archetipo pagano di Demètra, la Terra Madre; al legame con la terra fanno riferimento anche le icone delle Madonne Nere: nero è il colore della fertile terra. Madre è colei che nutre e protegge i suoi figli. E quando crescono fino all’età adulta, i suoi figli e figlie, a sua volta, la proteggono e si prendono cura di lei. Così il concetto di Madre Russia suscita sentimenti di amore, lealtà e protezione che vanno molto, molto oltre le concezioni occidentali. I russi vedono la Russia come loro madre e le daranno per difenderla la vita stessa che essa un tempo ha dato a loro.

Attualmente, ad alimentare sempre più il sentimento patriottico dei russi, contribuisce in modo rilevante l’allargamento della NATO verso est. A Mosca, è vivo il ricordo della contrapposizione tra la Russia, allora Unione Sovietica, e l’Occidente che significa, soprattutto, NATO, in assenza - è corretto affermarlo - del Patto di Varsavia, che a suo tempo ha lungamente rappresentato un’efficace strumento di “balance of power”. Concretamente configurato come un vero e proprio equilibrio del terrore atomico, è stato deciso politico-diplomaticamente a garanzia storica di una duratura quiete bellica in territorio europeo nelle relazioni internazionali con l’URSS che, però, è sfociata in altre regioni disastrando altri continenti. Come detto, dunque, in un sistema di interdipendenze economico-politiche globale in cui vi è una molteplicità di attori (statuali e aziendali multinazionali) autonomi che competono tra loro per il potere che deriva dalla presenza sul “mercato”, la ricerca dell’equilibrio tra questi diviene la logica, oltre alla spontanea, conseguenza. Altrimenti subentra la guerra, nelle forme ardite: commerciale e militare.

Un “equilibrio” si crea al fine di mantenere la stabilità del sistema senza, nel contempo, distruggere del tutto la molteplicità degli elementi che ne fanno parte. Infatti, se lo scopo fosse la sola stabilità, questa potrebbe essere raggiunta con il sopravvento di un attore su tutti gli altri. Ma siccome l’obiettivo non è solo la stabilità, ma anche la preservazione degli elementi del sistema bisogna evitare che un qualsiasi attore del sistema accresca troppo la propria forza al punto da poter spezzare l’equilibrio e sconfiggere gli altri attori, come pare, a volta, di vedere. Pertanto, non si può addossare il “passaggio alle armi”, ad un solo attore, psicologizzandone a piacimento, per convenienza dialettica, il profilo della leadership interna, frantumando la modalità multilaterale dei legami attuali che vedono ancora oggi, in queste ore, per quanto esigui possano essere, stare ancora in piedi non solo aspetti diplomatici, bensì scambi di merci (prodotti energetici e derrate alimentari) pur dentro il pantano di un allargamento del conflitto e coinvolgimento belligerante di altre parti (“neutralità” presunte che gettano la maschera …).

Ricordiamo che nel mondo sono prodotte 749.467.000 tonnellate di grano all’anno. La Cina è il più grande produttore di grano al mondo con un volume di produzione di 131.696.000 tonnellate all’anno. L’India è seconda con 93.500.000 tonnellate di produzione annuale. La Russia è terza con 73.294.000 tonnellate. L’Ucraina è settima con 26.099.000 tonnellate. Inoltre L’Ucraina – ricorda Confagricoltura – è il terzo esportatore di cereali a livello globale. La Federazione Russa è al primo posto, anche se ha attuato già dallo scorso anno una limitazione delle esportazioni per contenere l’aumento dei prezzi all’interno. Per ora tutto l’apparato relativo al business agricolo ed energetico non si è interrotto. Del resto, durante la crisi missilistica cubana del 1962 che richiama le contemporanee velleità NATO ai confini russi, le due superpotenze si accordarono per installare una linea telefonica diretta tra Washington D.C. e Mosca e il conseguente vero e proprio embargo del grano non lasciò traccia alcuna. Conclusivamente, la dimensione geopolitica multilaterale - strutturalmente presente anche nei precedenti periodi storici pur caratterizzati da relazioni definite “bilaterali” - certo può far degenerare il conflitto, ma bisogna comprendere bene la ragione strategica per la quale 39 paesi hanno votato contro o si sono astenuti alla mozione ONU di condanna della Russia per la cosiddetta “operazione militare speciale” in terra d’Ucraina, Russia che oltre al gas, petrolio, alluminio ed altri metalli gestisce il 20% del l’export mondiale di grano. Il manicheismo Occidente vs “Grande sacra Russia” è, quindi, una formula superficiale utile per fare da paravento alla cattiva coscienza borghese che anima il capitalismo mondiale nella sua configurazione euro-atlantica contemporanea.

C’è una seconda contraddizione da smascherare. Una eco fortissima nel pubblico dibattito odierno riguarda il tentativo di discreditare (con il pretesto del conflitto russo-ucraino, si “dice a nuora perché suocera intenda” …) il ruolo storico dell’URSS e l’ispirazione comunista, marxista e leninista che è alla base dell’edificazione del primo Stato socialista nella storia dell’umanità. Ricordiamo, innanzitutto, ai detrattori, il compito assunto responsabilmente dall’URSS nel combattere e sconfiggere il Nazismo. In secondo luogo, evitiamo di presentare l’edulcorazione della civiltà occidentale - il cui nucleo fondante non è un astratto valore quale è la “libertà”, ma il concreto modo capitalistico di produzione e riproduzione - come se fosse presentabile in veste di uno scenario idilliaco, quasi bucolico che esclude alternative, che è descrivibile come un’accettata, indiscutibile evoluzione “naturale” senza sbocchi se non un’inevitabile ulteriore autoconferma. Non ritengo di dover qui smentire questa inaccettabile “visione” con dovizia di dettagli tragici che la storia del capitalismo ha registrato e che ha visto negli USA il “miglior interprete”, certo non l’unico.


Viceversa, è necessario prevedere - stante la perdurante “crisi” ultradecennale della sua struttura economico-produttiva che ha compromesso lo “sviluppo” umano e l’habitat - che stia semplicemente portando ad un passo dall’abisso (il rif. a Friedrich Nietzsche può essere legittimo, ma va ben contestualizzato) ove rispecchiarsi per ottenere sostanzialmente una compensazione territoriale a favore di una potenza - gli USA - in seguito all’acquisizione di territori da parte di un’altra potenza; acquisizione quest’ultima che crea ovviamente un disturbo dell’equilibrio preesistente e che necessita di un riequilibrio tra le forze. La storia presenta esempi di compensazione territoriale illuminanti come, ad esempio, il Trattato di Utrecht del 1713.

In effetti, l’oracolo Friedrich Nietzsche ha scritto: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te"; la frase è contenuta nella quarta parte di “Al di là del Bene e del Male” (1886), un saggio filosofico in cui Nietzsche esamina la mancanza di senso critico dei contemporanei. Ci sono molte interpretazioni dell'aforisma, e non è scontato che una sia migliore delle altre. Due possono essere correttamente accreditate: 1. L'abisso è la pretesa volontà di trovare una morale oggettiva nella quale inquadrare le azioni dell'uomo. I mostri sono i bias della conoscenza. Il mostro che si rischia di diventare è un uomo dogmatico il quale impedisce la nascita del “superuomo”. 2. L'abisso è l'ambiente che ti circonda. I mostri sono gli uomini senza conoscenza. Se stai a lungo in un ambiente malsano, rischi di diventare tu stesso uno di quei molti uomini che, secondo Nietzsche, non diventeranno mai “superuomini”.

Ecco, il “superuomo” che non c’è è il tema. L’uomo - definizione general-generica - che, se non muta le condizioni oggettive di vita, le sue “forme”, finisce con il diventare la carta da parati di un ambiente economico-sociale da lui stesso costruito che lo ha reso privo di coscienza, passivizzato a tal punto che non è più in grado di emancipazione, di liberazione dal gioco mercificante e consumistico che la vita di miliardi di persone è divenuta a partire dal XVI secolo, periodo che la storiografia ritiene essere l’origine dell’economia capitalistica. In realtà, solo nell’impresa scientifica di Karl Marx è rintracciabile quella rottura epistemologica (rif. a Gaston Bachelard, ma soprattutto a Louis Althusser che con tale espressione indica la svolta che dal 1845, l'anno delle “Tesi su Feuerbach” e della “Ideologia tedesca”, si realizza nel pensiero di Marx giungendo al “Capitale”, nel 1867, ed ai “Grundrisse”, 1857-58, come frutto conclusivo di una sopraffina, compiuta ricerca inter-transdiscilinare che mostra la realtà per quella che autenticamente è), prima, e nell’impresa leninista, poi, una lettura adeguata della condizione umana.

È importante accostarsi al sapere leniniano che non va occultato, un’elaborazione teorico-politica che genera un’esperienza organizzativo-sociale inedita, dando luogo ad una sperimentazione rivoluzionaria per un assetto economico-sociale “collettivista” che può datarsi, come fase esemplificativa, dal 1917 al 1924. La storia si è voltata da un’altra parte, certo, ma sappiamo che la lettura geopolitica non autorizza nessuno ad autoproclamarsi avanguardia civile poiché “vincitore”, in particolar modo quando la “vittoria” riguarda una plurisecolare macelleria sociale generata proprio dal sistema delle diseguaglianze, dello sfruttamento e del potere oligarchico del capitalismo globale.

Forma mentis e comportamenti “occidentali” e le “pietre d'inciampo” del pensiero critico

Spazzar via tutti i mostri!", così s’annuncia in Cina, negli anni 1969-1962, il lancio di una immensa ondata rivoluzionaria che toccherà i livelli della cultura (nel senso di comportamenti sociali) per sradicare i vecchi usi e costumi e crearne di nuovi. L'agente auspicato allo scopo è il pensiero di Mao Tsê-tung, che come "arma spirituale" opererà una "trasformazione mai vista nella storia dell'umanità".

Il cosiddetto Occidente, meditabondo e sede storica della sedicente δημοκρατία, forma di “governo” in cui il potere dovrebbe essere esercitato dal “popolo” tramite rappresentanti liberamente eletti, vede la sua società civile, in gran parte, assisa davanti ai monitor dei pc dai quali viene narrata la storia, ed attonita e virtualmente loquace, assiste al war game e, con il culo al caldo (per ora), con vibranti emozioni artatamente sollecitate, si predispone a prender parte al gioco fatale, tronfia e certa di stare dalla parte giusta della scena, quella del rassicurante potere economico-politico che tutti include, purché d’accordo con esso.

Ecco su quali gambe e testa si rinnovano le “magnifiche sorti e progressive” delle genti di questa parte (parte) del mondo, assuefatte a non saper distinguere il grano dal loglio, brave ad indossare occhiali dalle lenti verdi beandosi della monocromatica veduta, incapaci ormai di cogliere sfumature e, altresì, propensi a trascurare i veritieri dettagli, troppo faticosi da scoprire.

Tutti sappiamo cosa sono le “pietre d’inciampo”, queste mattonelle incastonate nel selciato di alcune particolari strade cittadine che attirano l’attenzione dei passanti. Sono piccoli blocchi quadrati di pietra (10×10 cm), ricoperti di ottone lucente, posti davanti la porta delle case nelle quali ebbe ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti: ne ricordano il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data della morte. Pare che in Europa ne siano state installate già oltre 70.000; in Italia, le prime furono posate a Roma nel 2010 e attualmente se ne trovano a Bolzano, Genova, L’Aquila, Livorno, Milano, Reggio Emilia, Siena, Torino, Venezia oltre ad altri numerosi centri minori.

L’iniziativa delle “pietre d’inciampo”, creata dall’artista Gunter Demnig, delle “Stolpersteine”, in tedesco, determina una rammemorazione che si presta ad ulteriori simbolizzazioni possibili ed invitanti.

Le “pietre d’inciampo”, simbolicamente intese, fanno pensare al contingente fallimento della cosiddetta intelligencija, l’insieme coeso e battagliero di alcune figure professionali - scienziati, artisti d’ogni specie ed uomini di teatro, critici d’arte, educatori, accademici, professionisti di variegati rami, esperti e detentori di elevate competenze, alcuni editori ed alcuni giornalisti, affabulatori - che svolgono storicamente un lavoro prettamente intellettuale in una qualsiasi nazione, ma che, avendo spento ogni velleità per “giuste cause, si impegnano esclusivamente per realizzare la “pacificazione sociale” cercando di neutralizzare le ragioni del conflitto ed adagiandosi comodamente “alla destra” dell’onnipotente autorità costituita, a difesa degli interessi delle élite economico-politiche alle quali appartengono occupando serenamente appagati o in modo frustrato i gradoni d'una gerarchia sociale da altre soggettività organizzata.

Di fatto, tale intelligencija opera come vero lacchè ad ogni piè sospinto dedito a servile interessato ossequio nei riguardi del “potere”. Lungi dall’essere un’efficace impedimento alla straripante deriva del “potere”, lungi dall’effettuare analisi critica dell’esistente e dal portare coscienza all’interno delle classi subalterne, agisce come gruppo di pretoriani della conservazione, gestendo arbitrariamente conoscenze e precetti morali. Nell’edificazione della Russia sovietica, in modo lungimirante Lenin fu molto critico nei confronti della possibilità di dare un carattere unitario di classe all’intelligencija, ovvero uomini perlopiù borghesi nati e cresciuti sotto il potere reazionario zarista. Lenin, infatti raccomandava la crescita delle “forze intellettuali degli operai e dei contadini che depongono la borghesia e i loro complici, gli intellettuali, i lacchè del capitale che pensano di essere il cervello della nazione“ (rif. “Letter from Lenin to Gorky”, 1919, Library of Congress, Washington, 2010).

Quindi, nessuna identità da “pietre d’inciampo” può essere attribuita a chi detiene ed accumula in modo indefinito il sapere, in analogia con il meccanismo d’accumulazione di capitale, quel processo in virtù del quale la quantità data dei fattori produttivi (mezzi di produzione e forza lavoro) non è soltanto sostituita, ma anche incrementata, attraverso il reinvestimento nel processo produttivo della parte di reddito sociale, individuale o dell’impresa, non destinata al consumo, assumendo tuttavia una determinazione specificamente capitalistica quando l’incremento dei fattori produttivi è direttamente funzionalizzato all’espansione del capitale e alla crescita del profitto.

Il lavoro, quieto e subdolo, di tale intellettualità diffusa è funzionale al mutamento di stato complessivo biopolitico, in corso, del sistema planetario di produzione e riproduzione sociale, non solo come novella governance autocratica dell’assetto politico-istituzionale, bensì anche nella ridefinizione antropologica tendente ad escludere sine die e sistematicamente le moltitudini popolari dalla sfera concernente decisioni di rango collettivo, mai impegnandosi a rappresentare un vero “inciampo” storico per il capitalismo globale, avendo smarrito i contatti con la dignità.

Si ha bisogno di persone le quali, in seno ad ambienti “social”, rivestono ruoli di capi carismatici con pedigree morali tali da interpretare la voce del “Verbo” e scagliare dardi infuocati contro chi osa “criticare” (non tanto i “contenuti”, facile impresa …), bensì la sicumera ? Mai fare uso del suadente linguaggio dei “santoni” considerato che, per essere tali, dovrebbero vivere da eremiti, essere veri asceti o avvolti da un’aura di magia, meglio se provenienti dall'Oriente, specialmente dall'India. Li vedo passeggiare sulla battigia concedendo al loro miglior amico la possibilità di scorrazzare in libertà, abbaiando la sudditanza, mentre gustano un sigaro … che si dedichino a queste forme di relax è cosa buona e giusta, meglio farebbero se abbandonassero il campo del Πόλεμος …

Si presti attenzione alla “cancel culture” di regime, (dalla Università “Bicocca” di Milano a quella statunitense della Florida …). In psicoanalisi, la “rimozione” è un meccanismo psichico inconscio che allontana dalla consapevolezza del soggetto (G.E.Vaillant , 1992), nel senso quasi fisico del termine, quei desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe ansia ed angoscia. Il risvolto psichico della lotta ideologica tra le classi contrapposte . . . che evolve anche verso le forme di “caccia alle streghe” . . .

I cani di Ivan Petrovič Pavlov ed i filoyankee a difesa dell’ordine mondiale

Rivendicare pari dignità tra i punti cardinali, tra i fondamenti dell'orientamento ovvero tra le direzioni fondamentali, oggi sembra impossibile. La struttura mentale etnocentrica tende a fare dei chiaroscuri storici un semplice impaccio. L’unilaterale “vision” - naturalmente adialettica - offusca le funzioni cognitive e la capacità di vedere. Idee cartesianamente “chiare” e “distinte”, innate, hanno il sopravvento sulle “avventizie”, esperenziali, e sulle “fattizie”, frutto di immaginazione, creatività.

In questa guisa, alcuni si sentono latori di “verità”, commossi e compiti testimoni di pace, interpreti di un “pensiero unico” che non prevede smentite e contestazioni, a tal punto da sovrapporre per comodità affabulatoria diversi periodi storici, come se fosse possibile identificare la Russia post 1989 con l’URSS. Non si avvedono dell’imbroglio. Non ascoltano. Sono genuflessi di fronte al Mōlek incarnato paradossalmente dall’Occidente.

Come realtà storico-politica, l'Occidente è l'ambito definito dall'appartenenza alla civiltà e cultura europea, precisamente romano-germanica e cristiana, il cui motore realizzativo è la barbarie capitalistica che, dal XVI secolo in poi, trova, tappa dopo tappa, successivamente, nel continente americano colonizzato, ulteriore spazio d’affermazione. Tale appartenenza si è soliti contrapporre a quella dei popoli del Medio ed Estremo Oriente. In particolar modo, nel periodo della “guerra fredda”, i paesi a democrazia rappresentativo-parlamentare e a economia liberistica sono stati in contrapposizione ai paesi comunisti dell'Europa orientale e dell'Asia e ai loro caratteri culturali, economici e sociali.

La democrazia sovietica (il focus concerne gli anni 1917-1924) non esiste più, si è inabissata, nulla pertanto può avere a che fare con la congiuntura economica globale di questi giorni, con l’atrocità di neoposizionamenti geopolitici e mercantili. Nonostante questi dati incontrovertibili, bizzarri esponenti della “civiltà occidentale”, pretoriani del capitale, non azzardano nemmeno una lieve critica alla direzione intrapresa nel passaggio da un assetto - l’economia-mondo, secondo l’assetto del XVI secolo, il Mediterraneo (rif. allo storico francese Fernand Braudel) - ad un altro - il dominio mondiale del modo di produzione e riproduzione capitalistico che prevede il combinato disposto di affari, devastazioni ambientali e guerre per la supremazia universale dei suoi protagonisti, gli Stati e le imprese multinazionali.

Il citato storico francese, su questo punto e con l’approccio storiografico “longue durée”, così si esprime: “Il capitalismo vive di questa regolare suddivisione in piani verticali: le zone periferiche nutrono quelle intermedie e, soprattutto, le aree intorno al centro. Ma cos'è il centro se non la punta estrema della piramide, la superstruttura capitalistica dell'intera costruzione ? E siccome esiste una reciprocità di prospettive, se il centro dipende dai rifornimenti della periferia, quest'ultima, a sua volta, dipende dai bisogni del centro che le impone la sua legge”.

Eppure, il benpensante di turno cerca di incasellare gli eventi storico-politici nelle anguste categorie morali del “bene” e del “male”, della “giustizia” e del suo contrario, della “violenza” e del “martirio” come se lo Spirito (hegelianamente inteso) smaterializzasse le vicende umane per realizzarsi nell’Assoluto compimento, nell’annichilimento della dialettica, incasellamento categoriale utile per collocarsi poi, senza dubbio, dalla parte dello status quo. Ciò che non ancora si è realizzato, conseguentemente, ontologicamente non è, per costoro.

Come nel caso dei cani di Ivan Petrovič Pavlov che studiò il “condizionamento rispondente o classico” partendo dall’osservazione e dallo sviluppo di ricerche scientifiche inerenti il funzionamento fisiologico dei processi digestivi nei cani attivati a partire dalla salivazione, così sembrano comportarsi intellettualmente i difensori filo yankee dell’ordine mondiale.

Allo stimolo - pace capitalistica mondiale - iniziano a vomitare sulla storia, iniziano a temere il peggio per la “conservazione” revocata in dubbio.

Pavlov comprese come, secondo uno stimolo ambientale, venivano generate risposte comportamentali riflesse e non precostituite, definite anche come stimoli incondizionati, ossia non appresi in precedenza. Pavlov comprese che uno stimolo era in grado di provocare una risposta incondizionata e che quindi si poteva far apprendere al cane un determinato comportamento se il suo sistema nervoso veniva sottoposto più volte alla presenza dello stimolo.

La Russia sul campo militare fa salivare tanti che non sono cani, ma facilmente condizionati e al guinzaglio del gendarme capitalista mondiale.

Sulla tossicità del capitalismo globale contemporaneo - vera e propria “officina della guerra” - e la retorica dei “pacifici” pacifisti

La franchezza e l’onestà intellettuale, in questi frangenti drammatici ed apparentemente senza soluzione di continuità, sono obbligatori per sottrarsi al mainstream media e per contribuire alla presa di coscienza popolare delle contraddizioni sistemiche, grazie alle quali si conosce davvero la reale posta in gioco, la rinnovata configurazione del modello storico egemone che comporta la Subsumption dei rapporti sociali alla struttura economica internazionale.

La contemporaneità è dominata dai mutamenti, spesso impetuosi che discendono non solo da variabili contingenti (come è accaduto, ad esempio, per la crisi pandemica), ma anche e soprattutto da fattori strutturali. Tra questi ultimi, un posto di rilievo deve essere riconosciuto ai modi di produzione di beni e servizi e correlata riproduzione dei rapporti sociali, mediante anche interventi innovativi (tecnologie digitali) in tutti gli ambiti in cui si sviluppa l’esistenza umana: dal lavoro alla mobilità, dalla cultura alle comunicazioni, dall’ambiente agli spazi urbani, dalla pubblica amministrazione al gioco commerciale della “domanda” ed “offerta” che riguarda anche lo stesso individuo umano (forza-lavoro).

Si dischiudono così, di fronte a noi, grandi scenari storici di sviluppo materiale, forse indefinibile, ma non in grado di affrontare i nodi della tutela ambientale, della giustizia sociale, delle diseguaglianze e della qualità della vita nella dimensione globale. Infatti, tale “sviluppo” è stato concepito ed imposto attraverso un sistema articolato di funzioni ed operazioni che è stato denominato “capitalismo”, oggi foriero dell’interdipendenza economico-politica degli Stati surrogati dalle aziende multinazionali.

Tuttavia, la percezione comune - di chi non ha pregiudizi - del capitalismo globale (attualmente, senza alternative) è quella di trovarsi in un’epoca di crisi e di instabilità, a causa sia delle implicazioni sociali dei cambiamenti economici e tecnologici a svantaggio esponenzialmente più consistente delle classi subalterne, sia delle profonde trasformazioni geopolitiche, indotte dalla competizione per il dominio territoriale planetario, che stanno disegnando nuovi scenari regionali e globali, all’interno dei quali i Paesi capitalisti europei, subalterni agli U.S.A., rischiano di non intercettare le linee di tendenza.

La sfida che attende l’umanità consiste perciò nel far convivere nuove forme di gestione del potere (livello neoistituzionale) con la fuoriuscita definitiva dal capitalismo (socializzazione delle ricchezze) ben al di là degli ambiti trade-unionisti di giustizia sociale, sperequata competitività per il benessere materiale e graduale (!!! !! !) sostenibilità ambientale: solo uno sforzo di comprensione delle origini, dell’evoluzione e delle conseguenze determinate dai processi d’affermazione mondiale in atto del capitalismo - molti dei quali ambivalenti, come del resto lo sono tutti i processi umani, come, ad esempio, l’involucro pseudodemocratico interclassista che sembra assolvere ogni aspetto di sfruttamento ed asservimento mercantile alla logica del profitto – potrà aiutarci a interpretare in profondità il presente e insieme a immaginare scenari più inclusivi e irreversibilmente diversi per l’avvenire di chi oggi non ha nelle proprie mani un futuro, essendo espropriato della stessa possibilità di “leggere” criticamente la realtà stessa che pur lo riguarda. È evidente che la cosiddetta intelligencija è consistentemente interessata al mantenimento dello status quo.

Pertanto, le retoriche giaculatorie e i dogmi pacifisti o di chi si dichiara “pacifico” (ma solo con chi la pensa in modo analogo …) usati pubblicamente come lavacri coscienziali affermando improbabili equazioni adialettiche (“essere contro Putin vuol dire essere GIÀ contro la guerra, contro il bavaglio alla stampa, contro la violenza, contro le deportazioni, contro l’eliminazione dei dissidenti e in una parola contro il totalitarismo, toutcourt” … !!!), menano vanto di errori teorico-politici e di pratiche psicologicamente contorte e storico-socialmente inefficaci laddove nulla dicono, al contempo, di quella particolare “officina della guerra” che è stato ed è il capitalismo (novecentesco, in particolare, ma anche post XX secolo, evidentemente …) anche quando ha dichiarato la “pace” ad esso confacente e che, indifferentemente, usa, per i suoi scopi di dominio sociale e di garanzia di profitti, sia la leva dell’autoritarismo atroce che quella della “democrazia reale”, che implica il continuo vanificarsi, di generazione in generazione, di aspettative di benessere, che provoca sentimenti di disorientamento e impotenza popolari, che genera bisogni per alcune classi impossibili da essere soddisfatti, che alimenta pulsioni egolatriche e aggressive, che torna ad indicare il “male assoluto” negli avversari competitori, trovando nelle campagne mediatiche e nella censura gli strumenti idonei per non far capire la tossicità del capitalismo globale contemporaneo.

Ebbene, costoro, in buona o cattiva fede, di fatto lavorano per perpetuare il museale sistema dell’esperienza capitalistica universale. La battaglia delle idee e del riscatto sociale non può essere lasciata sguarnita e va smontato ogni tentativo di connivente inferiorizzazione delle classi subalterne da parte degli agenti ideologici del capitale.

Per una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza parlamento (scritto nell'Aprile 2013)

Il concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος (démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di “democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche) possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di uno Stato sedicente democratico.

 Il concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene – l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre, approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia” contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere – specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti. Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della “volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi, essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato.

Nei paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo delle istituzioni statuali moderne che la “democrazia” contiene, è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento, quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale, dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della “democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione” (scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi.

Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia.

Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi, come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di schiavi.

L'ideale democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia “progressista” borghese e, nella sua apparizione negli ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento, unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e dell'esercizio del potere, forzosamente traslando dalla “partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica dell'industrializzazione matura propone, di fronte alle minacce rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il costituzionalismo borghese gioca la carta della retorica democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di rappresentanza istituzionale.

È ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia" in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire "libere", "eguali", "democratiche", "universali" le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.» (brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23 dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919). Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia (l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque “soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e continua a procurare al proletariato.

È nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza europea del “movimento dei Consigli”, identificabile sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della costruzione della base materiale del comunismo consentendo un corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato” è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi sistemiche della sconfitta storica del capitalismo.

Per Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo. 2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti di "democrazia in generale" e di "dittatura in generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta. Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi, come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la "dittatura in generale", ma la dittatura della classe oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto, quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla "democrazia in generale", quando oggi si grida e si strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria» (brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol. 28, pagg. 461-462).

Lo scenario della “democrazia reale” va indagato

Da alcuni anni sto conducendo una ricerca sulla “democrazia reale”. Il conflitto economico, politico e militare oggi in corso, a livello globale, sulla poderosa spinta espansiva del mercato capitalista a livello internazionale, venuto meno (alla fine degli anni ‘80 del Novecento) il modello cosiddetto “collettivista” di produzione e riproduzione sociale, si riverbera sulle dinamiche interne ai singoli Stati ed aggregati statuali (ad esempio, l’UE) e, ulteriormente, tra le forme organizzate della “rappresentanza” (partiti e sindacali). In altri termini, il conflitto di natura strategica al quale s’assiste, è oggi definibile come palese manifestazione della contraddizione tra “democrazia reale” e democrazia sostanziale, tra pragmatismo populista ed amministrazione tecnocratica delle risorse e bilancio partecipato. In sintesi, la “democrazia reale”, ad oltre 75 anni dal termine della seconda guerra mondiale, ha costretto i popoli ad una subalternità mascherata da libertà tout court, essendo quest’ultima, viceversa, “libertà capitalistico-borghese” storicamente determinata in una fisionomia che velleitariamente, ma con successo evidente, si è imposta nell’immaginario di massa, anche grazie a partiti, sindacati, apparati del controllo sociale, mainstream media, come la “naturale”, indiscussa ed insuperabile forma di convivenza civile e di mediazione dei rapporti sociali. In questa “trappola” interpretativa sono caduti anche insigni “analisti”, generando un’inarrestabile deriva di fraintendimenti, di congetture e di superficiale ermeneutica.

Nel corso del tempo, l’opera di omologazione socio-culturale e di coazione politica alla “integrazione subalterna”, soprattutto proletaria, al comando capitalistico-borghese, ha fatto sì che si espropriasse la soggettività antagonista del potenziale teorico-politico rivoluzionario, della capacità politico-organizzativa d’esprimere un’autonoma “visione” del conflitto sociale e di consentire all’avanguardia cosciente di guidare la lotta di classe oltre le logiche concertative e miserrime del trade-unionismo, del rivendicazionismo economico-normativo e della difesa del Welfare “concessivo”.

Di fronte allo stato delle cose presenti, che vede i neofascisti - dentro e fuori dal Parlamento - inclusi nelle ritualità “democratiche” (in forza di lontane decisioni legate alla mancata epurazione e condanna penale dei fascisti sopravvissuti al crollo del regime ed alle armi della Resistenza), non può che essere revocata in dubbio una pseudodemocrazia “liberale”, per dirla alla Montesquieu, in quanto involucro politico, in quanto dimensione sovrastrutturale del comando capitalista che riesce ancora, mistificando i dati di fatto, a combinare il principio della evocata (retoricamente) “sovranità popolare” con la tutela degli esclusivi diritti liberali di chi detiene il potere economico, piuttosto che quello legislativo (attualmente al servizio del primo) con la persistente divisione gerarchica delle classi. In una “democrazia reale” di tal fatta, libertà economica e libertà politica sono inscindibilmente connessi alla subordinazione economica delle classi; logorandosi e cedendo quest’assetto “naturalizzato” dei rapporti sociali subalterni, verranno a mancare l’una e l’altra “libertà” e si potrà aprire un’epoca di radicale trasformazione sociale ispirata a quanto realizzato, in modo alternativo alla “democrazia reale”, dal 1917 al 1924 in Russia, nell’ambito di un modello di democrazia sociale, come transizione al comunismo. Nuove istituzionalità popolari sono, dunque, storicamente possibili.


Ecco, in breve, la “trama” della mia argomentazione. Il ragionamento che desidero condividere necessita di una occasione di confronto pubblico, onesto e rigoroso, e di un editore coraggioso che mi consenta di pubblicare un lavoro di ricerca interdisciplinare, documentato, che vede privilegiare il linguaggio della filosofia politica, della critica dell’economia politica e della sociologia.

Per rispondere alla domanda cruciale: Democrazia, che cos’è ? La parola “democrazia” è una delle più abusate da politici, giornalisti, studiosi e nelle discussioni pubbliche. La si utilizza con tale frequenza e spesso a sproposito al punto da alimentare il “ragionevole” dubbio che sia assente un significato comune cui il termine possa far riferimento. Basti ricordare che democratiche si definivano le Repubbliche socialiste dell’est europeo così come quelle dell’Occidente liberale. Oggi nessuno si proclama “antidemocratico”. È questo il punto. Nemmeno i fascisti. Un’ambivalenza semantica del termine che si attua nelle più contraddittorie, disparate forme storico-sociali, mai accompagnate da capacità critica, tantomeno da volontà di verifica di quel perverso intreccio tra struttura economico-produttiva e sovrastrutture politico-istituzionali delle società sedicenti “democratiche”.

Non possiamo però rassegnarci a un uso strumentale del termine e a una conclusione meramente scettica come se la democrazia fosse semplicemente un “nome” dietro cui si nasconde una molteplicità di sistemi politici molto differenti tra loro. È bene dunque iniziare con alcune precisazioni per delimitare il significato del termine “democrazia” aggiungendo al sostantivo - di necessità, per meglio avvicinarsi all’oggetto di indagine - l’aggettivo “reale”, in modo tale da non essere portati a concepire la “democrazia”, come condizione naturale della vita associata, una “categoria”, un concetto astratto inteso ed utilizzato come “misura” di rapporti sociali che palesemente ne contraddicono la rappresentazione teorica.

Grazie a tutti coloro che vorranno sostenermi e dialogare su questi temi.

Conclusioni, provvisorie, sulle “verità”

Sulla “verità” - αλήϑεια - poco si può dire di “vero”. Sulle “verità”, “a kontràrio”, molto si può discorrere.

Nella storia il concetto di verità è stato concepito in almeno due diverse prospettive, l’una ontologica, l’altra strettamente connessa al discorso umano. Nella prospettiva ontologica la verità è considerata come una proprietà intrinseca dell’essere. Nell’altra prospettiva, che è decisamente la più influente, il concetto di verità è stato variamente elaborato e le analisi vertenti su esso devono essere suddivise in due categorie, a seconda che intendano fornire una definizione o un criterio di verità. La ricerca di un criterio di verità è parte integrante del problema gnoseologico, cioè di quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva, deduttiva) possa costituire la garanzia di un’autentica conoscenza.

Tuttavia, sulla scia dello svolgimento della contrapposizione αλήϑεια / δόξα, risulta possibile dare un significato autentico all’idea del «non-nascondimento», se la concepiamo, esercitiamo ed operiamo considerandola unicamente “al plurale”. In tale considerazione delle “verità” entrano di diritto la vita, la storia, la multiforme e multidimensionale realtà, il materialistico e progressive disvelamento che si attua nell’esistenza autentica.

Le “verità” sono (lo sono sempre per esser “vere”) “partigiane”.

Un sistema madrepòrico di conoscenze inter-transdisplinari è oggi indispensabile per comprendere la fenomenologia sociale.

Tale sistema non è dato a tutti padroneggiare.


Prof. Giovanni Dursi

Docente M. I. di Filosofia e Scienze umane