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domenica 8 dicembre 2019

Primo scandaglio sul movimento delle "sardine"

Per movimento sociale impegnato nel rinnovamento della “politica” e della “rappresentanza” si può intendere l'insieme dei soggetti – singole persone o associate, gruppi organizzati o spontanei – attraverso cui la “società civile”, a partire dagli ultimi decenni (anni '80) del Novecento, dal momento della crisi irreversibile del sistema dei partiti di massa reduci dell'esperienza politico-istituzionale democratica post-bellica, viene esprimendo frustrazioni, capacità critica, volontà militanti emergenti e un protagonismo comunicativo-sociale (narrazione contrapposta a quella del “potere” costituito) nonché politico competente (allusioni esplicite alla “democrazia diretta”), strutturando la propria azione cosciente, sia a fini di difesa (rivendicazionismo economico-normativo), sia a fini di costruzione identitaria e d'organizzazione politico-culturale.
La storia recente dei movimenti sociali che interpretano diffuse e variegate esigenze di rinnovamento politico è dunque l'evoluzione del continuo processo di ricomposizione politica delle masse, sin dalla radicale espressione di tornare a contare nei riguardi della autoreferenzialità del ceto politico, per giungere – sempre partendo da questa aurorale determinante coscienza -, in alcuni casi efficacemente (le esperienze che datano dal '68 al '77), ad un antagonismo duale, ad una risoluta dialettica con il governo capitalistico dello sviluppo industriale del modo di produzione e della riproduzione delle correlate forme di vita.
Pertanto, due sembrano essere i limiti intrinseci alle insorgenze attuali della società civile nella porzione di mondo occidentale che si riferisce all'Europa.
In Francia una protesta contro il caro carburante, vede la galassia dei gilet gialli continuare dal 17 Novembre 2018 la lotta e guerriglia cittadina, unificando lentamente i soggetti frammentati dello scontento sociale; pur essendosi presentati alle ultime Elezioni europee di fine maggio ottenendo percentuali deludenti, non hanno intenzione di fermarsi neanche dopo i ripensamenti governativi, senza però evolvere positivamente dal “situazionismo” e dalla logica intrinseca alle “rivolte da stakeholders”, privi, come sembrano essere, di una pianificazione politico-organizzativa che agisca da piattaforma necessaria a costruire alleanze e “neutralità” utili ad autentico progetto di irreversibile mutamento sociale, cioè ad una trasformazione prodotta in un dato periodo storico (capitalismo globale) nella struttura della società. A dimostrazione di ciò, infatti, non è per nulla chiara la direzione di tali lotte e guerriglie cittadine oltre il condivisibile discorso trade-unionistico che alimenta.
In questo caso, il lessico è incerto.
Tensioni e processi sociali conflittuali indotti da una cecità strategica – pur avendo caratteristiche tali da poter diventare un'estesa 'rivolta' popolare -, nel lungo periodo, implodono ed autorizzano il potere ad esercitare violente azioni repressive e di controllo conformistico delle nuove leve di “les révolutionnaires, les qualifiant de casseurs et de fauteurs de troubles peu recommandables”, come ebbe a definire i membri di tale movimento francese l'ex Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano.
Per quanto riguarda le manifestazioni delle “sardine” in giro per l’Italia, il movimento nato a Bologna con l’ormai celebre flash mob di 15mila persone in spasmodica replica ed in attesa dell'esito delle Elezioni regionali dell'Emilia Romagna previste a Gennaio 2020, buone quest'ultime per verificarne l'impatto politico-elettorale a sostegno dell'establishment in crisi di fronte alle spallate della destra, il limite principale è di affermare la complessità sociale foriera di alienazione popolare riconducendo però ad un orizzonte intrasistemico il potenziale eversivo delle disuguaglianze sociali.
Il “soggettivismo” delle “sardine” esemplificato dalle pratiche di piazza e dall'ispirazione ecumenica dei promotori autoconfina, purtroppo, il movimento negli angusti ambiti “generazionali” 1 e nella gretta considerazione della «democrazia reale» come luogo esclusivo di retoriche politiche a confronto dal quale potrebbe scaturire un'agognato cambiamento nelle urne.
Ecco, pensare di sconfiggere il liberismo contemporaneo e/o contrastare la pericolosità e le gravi conseguenze, a dir poco apocalittiche, della cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”, in altre parole, della disintegrazione dell’economia reale, anche limitatamante alla metropoli italiana, con il ripristino della corretta ritualità partecipativo-elettorale e con l'enfasi narrativa della “rappresentanza”, dalla quale, con l'immissione di forze fresche (le stesse migliori “sardine” ?), spontaneamente si genererebbe una democrazia sostenibile sorretta dal modo d'espressione della volontà popolare, vuol dire illudersi e non aver capito la lezione di storia che scaturisce dai 74 anni intercorrenti dal risultati del Referendum istituzionale di domenica 2 e lunedì 3 giugno 1946, indetto per determinare la forma di Stato da dare all'Italia dopo la fine del regime fascista e della seconda guerra mondiale.
In quest'altro caso, il lessico è ambiguo.
Altra è la prospettiva della rottura degli ordinamenti statuali e giuridici, sociali ed economici di una società e la riconfigurazione radicale degli stessi attraverso un nuovo potere, strutturatosi nel corso di manifestazioni che inducono – queste si – uno squilibrio fra strutture fondamentali del consenso e del potere.
Giovanni Dursi
Docente M.I.U.R. di Filosofia e Scienze umane


1 A questo proposito, va ricordato che la Resistenza al Fascismo nacque in Italia vent’anni prima che negli altri paesi democratici dell’Europa occidentale; lo studio della Resistenza italiana, propriamente detta, e cioè dei venti mesi dell’occupazione tedesca, dal settembre 1943 all’aprile 1945, non può quindi prescindere dall’opposizione al Fascismo nei vent’anni precedenti, in cui essa affonda le sue radici e ritrova i suoi storici precedenti. Ciò evidenzia, inequivocabilmente, che non furono solo i giovani ad opporsi con le armi ai nazi-fascisti, bensì che molti partigiani, sopravvissuti ai conflitti a fuoco, giunsero all'età della maturità con le armi in pugno dedicando l'adolescenza alla Resistenza.

martedì 9 luglio 2019

Articolo censurato - «Da dentro il marxismo – Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo»

Esaminato, da parte dello staff redazionale di una rivista on line con la quale ho collaborato e che “si pone come obiettivo primario la promozione, il sostegno, l’organizzazione e la gestione di iniziative, eventi e manifestazioni culturali e sociali nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto a pari opportunità senza distinzioni di razza, sesso, cultura, religione e salvaguardando l’ambiente” e ritiene di “esserci anche quando il pubblico è una minoranza”, l'articolo che pubblico è stato censurato.

Agendo come una sorta d'ibrida “autorità pubblica” (sul versante della censura politica) e come una “autorità ecclesiastica” (sul versante della censura ideologica), lo scritto non ha trovato spazio nel palinsesto, precludendo il prosieguo della collaborazione, poiché ritenuto eversivo. In questa sede, non intendo replicare; mi limito, per ora, a presentare il testo, al quale ho dato un titolo, minimamente modificato in alcuni passaggi per rendere la lettura più chiara ed arricchito da alcune utili citazioni, ovviamente, senza alterarne i significati teorico-politici, lasciando ad altri il "lavoro sporco" dei sofismi propri dei benpensanti che del capitalismo e dei suoi involucri politici sanno parlarne, ma non osano immaginare come poterlo adeguatamente "criticare" e superare. Sarò grato per ogni eventuale parere. G D

Da dentro il marxismo - Sulla crisi e superamento della "democrazia" e sulla sollecitazione all'organizzazione politica rivoluzionaria per il comunismo

Premesso che l'alleanza sovranista è un ossimoro – non si può dare una solidarietà politica internazionale tra competitor statuali pur in una evidente configurazione globale (empiricamente, non si possono negare affinità “operative” tra Putin, Trump, Erdogan, Orban, Xi Jinping e, via degradando, Bolsonaro e Salvini) e, nel contempo, interpretare in modo esaltato i programmi dei diversi interessi nazionali che rappresentano -, non si può, tuttavia, misconoscere che l'onda nera liberista post-novecentesca, caratterizzata dal sistema post-fordista multinazionale di produzione (organizzato nella forma della serializzazione digitale) e da un'economia biopolitica in grado di manipolare tutte le dimensioni d'espressione dei rapporti sociali (rif. M. Hardt, A. Negri, “Impero – Il nuovo ordine mondiale”, BUR, 2003, con particolare riguardo al Capitolo VI, “La sovranità imperiale”, pagine 175-193), procede indisturbata nel suo consolidamento del potere mondiale e nella sistematica depauperizzazione umana delle classi subalterne.
La “democrazia reale”, svigorita e irreversibilmente logorata, cede la guida della storia a figure marginali, ritenute a torto estinte, altrimenti concrete ed efficaci che scandiscono il passo dell'oca intorno al capezzale del cigno democratico (rif. al balletto di M. Fokine su una composizione di C. Saint-Saens, 1901-1905), agli autoritarismi post-fascisti in grado di vincere gli antichi nemici valorizzando la povertà materialistica e post-materialistica e la massa critica dell'ignoranza, ingredienti indispensabili per le forme legali ed elettorali quanto per le forme illiberali politico-militari d'affermazione e di conquista del potere istituzionale e/o governativo. Il mix delle “forme”, non del tutto storicamente originale, è sotto gli occhi dei popoli assuefatti ad esse e quindi docilmente inclini al “consenso” elettorale ed inesorabilmente piegati alla complicità mistificatoria e violenta: unica alternativa, sul terreno democraticista, si configura l'estraneità e/o ostilità verso il sistema dei partiti. Niente di più.
Considerando la “storia”, frutto di un “disegno razionale”, gli uomini, dopo millenni di adattamento alle forme di vita del capitalismo (ancor prima dell'affermarsi del sistema di produzione industriale del XVIII secolo, prodromi sono le attività dei centri finanziari del Medioevo e del Rinascimento europeo, che lo portarono all’emergere come sistema dominante a partire dal XVI secolo) sono diventati, per dirla con le parole di Umberto Galimberti (rif. a “Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica”, Feltrinelli, 1999; “Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007), funzionari di apparati tecnici o burocratici, i cui valori sono la funzionalità e l'efficienza con cui si devono compiere le azioni descritte e prescritte dall'apparato di appartenenza nella tempistica prevista, in altri termini, dal sistema di produzione e riproduzione della vita.
Un compito immenso, né regionale né continentale, bensì planetario, considerate le vicende storiche alle spalle, irto di difficoltà, di pericoli, di ostacoli e di incognite, eppure portato al successo, quasi senza colpo ferire. Alla “democrazia reale” il sacrifico umano resistenziale ed emancipatorio ha consegnato un'occasione unica, per plasmare la “storia” e servire le popolazioni, che è stata data a poche generazioni di uomini, dopo un itinerario di millenni, eppure ha fallito.
Lo scarno realismo dell'argomentazione porta a concludere che ciascuna generazione ha il suo problema particolare, concludere una guerra, estirpare le discriminazioni, migliorare progressivamente ed irreversibilmente le condizioni di vita, consolidare la dignità umana, esigendo limiti “dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive” pretese senza innescare cambiamenti radicali, considerate oggettive, liberarsi dalle forme di vita dominanti similmente gestite come se fossero ipermercati.
Esigere un sistema politico che conservi il senso della comunità tra gli uomini è oggi fuori dalla portata dal discorso democratico pronunciato dopo i due massacri bellici, fisici e culturali, del Novecento, subito smentito in latitudini non europee. Quel discorso non ha più pregnanza, è un anacronistico, inutile lamento profetico per la generazione attuale che non sa più ascoltare. Lo storytelling della democrazia, non incanta più. La retorica democraticista e la narratologia che ne scaturisce appaiono come obsolescenza dell'organizzazione civile ed istituzionale dei popoli.
Chi ha costruito la caducità della democrazia in Occidente – un albero con radici ammalate - venuta a patti con il capitalismo indefessamente selvaggio, praticato nonostante la legislazione sociale, i diritti civili ed il benessere dinamicizzato (e, proprio per la sua natura negoziabile, cristallizzato in sostanziali diseguaglianze) dalle effimere conquiste salariali, rinculando rispetto all'apertura necessaria di prospettive altre che la storia ha fatto germogliare dal 1917 al 1924 senza repliche universalmente significative, si è assunto la responsabilità di cedere il passo, di deflettere, di cancellare memorie.
È necessario essere capaci di uno sguardo in grado di catturare la vulnerabilità dell'animo umano, in balia di sovrastrutture alienanti, piuttosto che stringerci a coorte, pronti alla morte, è inevitabile considerare l'esperienza democratica un fatto politico “minimo”, “procedurale” (rif. a Norberto Bobbio, “Il Futuro della Democrazia”, Einaudi, 2005 p.4, il quale ammette che “l’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole, primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure”).
Pertanto, si tratta d'assumere (potremmo dire: costruire), abbracciare totalmente il marxismo, potremmo dire da dentro il marxismo, un'autentica prospettiva totalizzante d'adesione sincera ed incondizionata all'obiettivo del comunismo contro un mondo le cui rivoluzioni industriali ed il saggio di profitto hanno fatto intenzionalmente smarrire per sempre la sua essenza umanistica.
Per comprendere la realtà contemporanea ci si deve dotare di un metodo conoscitivo, certo, ma soprattutto di un'articolazione di pensiero risolutivo della crisi di civiltà maturata agli inizi del XXI secolo, di una prassi che sa svincolarsi dai rivoli di sofismi che impediscono ai comportamenti di avere la meglio sulla declamazione di principi morali.

sabato 7 ottobre 2017

Una prospettiva interpretativa dell’indipendenza della Catalogna


Il capitalismo globale pone da tempo [1] la questione della relazione causale tra finanziarizzazione ed interdipendenza subalterna delle economie nazionali ed annientamento delle ultime parvenze della democrazia parlamentare, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati fino all’affermazione del neoliberismo).
Con l’esperienza referendaria catalana (la partecipazione alla consultazione si è attesta sul 42%, su 5,3 milioni di persone aventi diritto: massiccia l’adesione all’opzione indipendentista, a favore della quale si sono pronunciati oltre 2 milioni di elettori, per una percentuale leggermente superiore al 90%; per il ‘no’ si sono invece espressi 176.565 elettori -7,8%-, per quanto ovviamente il fronte anti-indipendentista sia numericamente ben più nutrito e – secondo un sondaggio realizzato a luglio – conti circa il 49% della popolazione; 45.586 sono state le schede bianche e 20.129 i voti nulli) si è giunti ad una fase storica di svolta: quella che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia che fin qui si sono affermate.

Bisogna, conseguentemente, ricordare che il processo d’autodeterminazione di un popolo può avere per fine la modifica della composizione della società internazionale, per costruire un nuovo ente o rafforzare un ente già esistente, ma non ancora dotato di una posizione sufficientemente indipendente. Questa è la chiave di lettura di quanto sta accadendo in Catalogna: non si tratta né di «una messinscena, un ulteriore episodio di una strategia contro la convivenza democratica e la legalità» (M. Rajoy), né solo del protagonismo dei cittadini catalani che «hanno conquistato il diritto ad avere uno Stato indipendente che si costituisca sotto forma di Repubblica» (Presidente della Generalitat C. Puigdemont); trattasi, bensì, di una consultazione referendaria che – anche al di là delle intenzioni dei promotori – può veicolare una chiara, irreversibile rottura con quanto previsto dall’ordinamento e dalla Costituzione spagnoli dello Stato monarchico plurisecolare, e prefigurare elementi di progresso economico, sociale e politico-istituzionale. Se così non fosse – un laboratorio di sperimentazione di nuove istituzionalità popolari e di riorganizzazione solidaristica ed antimercantile della produzione -, se il pronunciamento referendario catalano non alludesse ad una contestuale battaglia contro la ristretta visione nazionale e nazionalistica, la tendenza all’isolamento autarchico avrebbe il sopravvento.

Nell’affermare l’esigenza della Catalogna all’autodeterminazione, il movimento propulsore, per essere internazionalmente efficace, deve rendere evidente che i vincoli caratterizzanti il gruppo sociale indipendentista si esprimano in relazione ad un’autonomia regionale rispetto allo Stato spagnolo che parli lo schietto linguaggio di fuoriuscita dalla logica rivendicazionista identitaria sociopoliticamente compatibile con il capitalismo globale e di sfruttamento territoriale in proprio di benefit economici. Da questo punto di vista, la brutale repressione del gendarme monarchico spagnolo – paradossalmente – è un segnale d’allarme significativo.

Infine, il balbettio formale dell’UE. serve solo a sottolineare come, ai sensi della Costituzione, il referendum non possa considerarsi legale, ribadendo che lo scontro tra Madrid e Barcellona è questione interna alla Spagna e va risolta in linea con l’ordine costituzionale spagnolo; da Bruxelles, la Commissione europea non manca retoricamente ed ambiguamente di evidenziare come oggi più che mai siano necessarie unità e stabilità: serve dialogo, senza ricorrere alla violenza, ma è evidente come l’enfatizzazione conservatrice europea dello status quo spagnolo si configuri come un’ingerenza, interferenza esterna in modo talmente sfacciato da precludere ai catalani l’effettiva partecipazione alla vita politica dei propri territori foriera di decisioni correlate alla volontà popolare.
[1] Cfr. Alfonso Gianni, “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale“, MicroMega, 18 Novembre 2013

domenica 22 gennaio 2017

Conferenza di Roma sul comunismo - 18 / 22 Gennaio 2017

Ognuno degli assi tematici che articolano le 5 giornate di discussione sarà introdotto e informato da una serie di domande. Le domande scandiranno il ritmo tanto delle conferenze quanto dei workshop.

Comunismi

C’è una storia del comunismo, anzi dei comunismi. Comunismi realizzati, partiti comunisti scomparsi o ancora vivi, processi rivoluzionari sconfitti, interrotti. Modificazioni genetiche dei comunismi che hanno contribuito alla temperie del ‘900. Con questa storia, e non solo con l’idea del comunismo, è necessario fare i conti. Per conquistare al comunismo una nuova possibilità.

Critica dell’economia politica 

Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e […]

Chi sono i comunisti?

Chi sono i comunisti oggi? Quale il vettore organizzativo che, per dirla con Marx ed Engels, può favorire la «formazione del proletariato come classe»? Ancora: quale il rapporto tra lotte economiche e lotte politiche? E quali le pretese di una nuova politica economica che metta al centro il Comune? Un’indagine a tutto campo sui processi […] 

Comunismo del sensibile 

Ciò che è in primo luogo Comune è l’«Essere del sensibile». Sensibile nel quale siamo immersi; sensibile della nostra prassi; sensibile delle relazioni, nelle quali siamo sempre gettati. Riflettere sul sensibile significherà anche e soprattutto mettere in tensione il Comune del comunismo con l’estetica, con la costruzione del sensibile, dei suoi orientamenti. Ancora: sarà un […]

Poteri comunisti

Si chiedeva Foucault alla fine degli anni ’70: è possibile una «governamentalità socialista»? Oggi che la governance globale definisce una nuova articolazione dello Stato e delle sue funzioni, la domanda di Foucault si fa non solo attuale ma urgente. Altrettanto: è possibile immaginare o costruire istituzioni che non convergono nella macchina statale? L’ipotesi federalista, il […]

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martedì 25 ottobre 2016

N O perchè ...

No perché gli interessi in gioco - territorialmente, economicamente e socialmente vasti - sono "gestiti", paradossalmente, da entrambi gli schieramenti referendari, ridefinendoli in termini di interessi politicamente ristretti. Basta sapere come si è giunti - parlamentarmente - a questo Referendum confermativo  e da chi è sponsorizzato. Ecco perché va riletto il libro "Senza tregua - La guerra dei GAP" di Giovanni Pesce.

Prefazione [kb 8 HTML]
Capitolo Primo Alla macchia [kb 33 HTML]
Capitolo Secondo Nelle Brigate Internazionali [kb 30 HTML]
Capiitolo terzo Come nasce una bomba [kb 44 HTML]
Capitolo Quarto Quanto vale un gappista? [kb 47 HTML]
Capitolo Quinto All'assalto di Torino [kb 42 HTML]
Capitolo Sesto Morte e trasfigurazione [kb 83 HTML]
Capitolo Settimo
Addio Torino [kb 34 HTML]
Capitolo Ottavo Milano[kb 34 HTML]
Capitolo Nono La battaglia dei binari [kb 44 HTML]
Capitolo Decimo Spie, carnefici e giustizieri [kb 32 HTML]
Capitolo Undicesimo Un elemento sicuro [kb 44 HTML]
Capitolo Dodicesimo Valle Olona [kb 40 HTML]
Capitolo Tredicesimo Reazioni a catena [kb 52 HTML]
Capitolo Quattordicesimo A ritmo serrato [kb 60 HTML]
Libro intero [kb 267 ZIP]

Nella Gazzetta Ufficiale del 15 Aprile 2016 è stato pubblicato il testo della Legge costituzionale approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti. La riforma dispone, in particolare, il superamento dell'attuale sistema di bicameralismo paritario, riformando il Senato che diviene organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali; contestualmente, sono oggetto di revisione la disciplina del procedimento legislativo e le previsioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle competenze dello Stato e delle Regioni. E' altresì disposta la soppressione del CNEL. 
A seguito della presentazione di richieste di sottoposizione della legge a referendum costituzionale, ai sensi dell'art. 138 della Costituzione, l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione ha dichiarato la legittimità del seguente quesito referendario: «Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Il 4 Dicembre 2016 si svolgerà il referendum popolare confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione sulla suddetta legge costituzionale.
* * * * *
Resistenza e Costituzione.

di Alberto Berti

Questo è un discorso che voglio fare soprattutto ai giovani amici di Recsando sapendo che nelle nostre scuole certi problemi che dovrebbero contribuire alla loro formazione di cittadini di una repubblica democratica raramente vengono affrontati e se affrontati lo vengono con estrema superficialità dando loro scarsissima importanza.

Credo che pochissimi conoscano la nostra Carta Costituzionale e che ancora meno siano coloro che si rendono conto di vivere in un paese che ha una delle costituzioni più avanzate fra quelle esistenti.

In Austria, in Svezia, negli Stati Uniti, già in quelle che sono le ultime classi delle scuole elementari, i maestri cominciano a spiegare la Costituzione che regola i rapporti fra i cittadini ed i poteri dello stato in cui vivono. Negli Stati Uniti i ragazzi vengono educati a conoscere anche gli “emendamenti” della loro Costituzione e richiamarsi ad essi.

In Italia, fra qualche settimana, il 22 dicembre festeggeremo (?) i cinquant’anni dell’approvazione a grandissima maggioranza della Costituzione avvenuta nel lontano 22 dicembre 1947 da parte dell’Assemblea Costituente eletta dal popolo italiano il 2 giugno 1946 assieme al referendum che spazzava via la monarchia savoiarda.

L’approvazione della Costituzione ha segnato una svolta fondamentale nella storia del nostro paese, non soltanto per i principi che essa ha posto alla base dell’ordinamento della società italiana, ma anche per le garanzie di cui li ha rivestiti e che hanno il loro perno nella qualificazione della Costituzione stessa come Costituzione rigida.

Cosa vuol dire Costituzione rigida? Vuol dire semplicemente che i “princìpi” in essa enunciati non sono modificabili con procedure legislative ordinarie e, dall’altro lato, che le leggi che sono incompatibili con quei principi non hanno alcuna validità. Sono da ritenersi nulle. Anzi, la dottrina costituzionalista e la giurisprudenza della Corte Costituzionale (anch’essa introdotta nel nostro paese per la prima volta con la Costituzione) hanno messo in luce la regola secondo la quale esiste un nucleo di “principi supremi” che non sono suscettibili di modificazione neppure attraverso i procedimenti di revisione che la Costituzione stessa prevede. Infatti in questi ultimi tempi si è parlato molto di revisione della Costituzione, da parte della Commissione bicamerale appositamente designata, ma se fate caso, leggendo i giornali, vedrete che essa si è occupata dell’ordinamento dello Stato, sul sistema delle elezioni di deputati e senatori, sui compiti attribuiti alle due Camere, sull’elezione del Presidente della Repubblica, sulle funzioni pubbliche attribuite a comuni, provincie, Regioni e Stato, eccetera, quindi la commissione è intervenuta sulla seconda parte della Costituzione e non sulla prima che enunciava i principi fondamentali del nostro vivere civile.

Sarebbe opportuno, senza che io li ripeta qui di seguito, che i miei giovani lettori leggessero i primi articoli della costituzione in modo da poter percepire e comprendere, la portata pratica dell’affermazione dei valori della libertà, dell’eguaglianza e della democrazia. Il catalogo delle libertà che la Costituzione enuncia, comprende, insieme con i classici diritti civili e politici, un complesso di diritti economici e sociali i quali concorrono a qualificare la forma di Stato, oltre che come forma di stato di diritto, anche come stato sociale.

Queste enunciazioni sviluppano, in particolare, i due princìpi, certamente “supremi” che troviamo scritti negli articoli 2 e 3, che fondano la libertà umana e l’esigenza di promuovere in ogni modo possibile l’eliminazione delle discriminazioni - sia di diritto che di fatto - che ostacolano la realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini.

Adesso, care sandonaute e sandonauti, occorrerebbe stabilire come la Costituzione italiana sia nata e perché. Ed allora bisogna riandare a quel meraviglioso fenomeno popolare che è stata la Resistenza.

Per dare un significato politico, per stabilire un collegamento tra Resistenza e Costituzione, penso che sia necessario iniziare ricordando il discorso di Piero Calamandrei ai giovani milanesi tenuto nel 1955 che si concluse con la forte immagine secondo la quale la Costituzione veniva presentata come un “testamento”: il testamento dei caduti della Resistenza.

Calamandrei con il suo mirabile discorso voleva tenere viva l’attenzione dei giovani sui valori che la Costituzione aveva codificato e che le vicende politiche successive rischiavano in qualche modo di appannare.

A più di cinquant’anni di distanza mi sembra necessario accentuare non tanto il fatto militare, quanto il forte spessore politico che danno valore alla Resistenza e alla guerra di liberazione.

Se ci volessimo limitare a ricordare la Resistenza come un solo fatto militare saremmo oggi ridotti a celebrarla come vecchi compagni d’armi che si ritrovano, consumano assieme il rancio, ascoltano qualche ricordo, si salutano augurandosi di ritrovarsi l’anno successivo.

Se la guerra di liberazione e la lotta partigiana consistessero soltanto in un evento di carattere militare, terminata la guerra, il 25 aprile 1945, si sarebbe potuto dire missione compiuta, non ne parliamo più. Invece bisogna parlarne, perché la lotta di liberazione del nostro paese non è stata soltanto un fatto di carattere militare, è stata un fatto politico, nel senso nobile della parola, e non partitico: cioè nell’interesse della collettività, del bene collettivo. Infatti nei territori occupati dai nazisti, diciamocelo francamente, l’unica vera forma di rappresentanza dell’Italia era data dai partigiani e da coloro che combattevano per la Libertà.

L’esercito non esisteva più, si era liquefatto come neve al sole, il paese era in mano ai nazisti oppressori e chi veramente rappresentava il paese erano i partigiani, i comitati di liberazione nazionale tant’è vero che furono costituite delle repubbliche partigiane Carnia, Montefiorino, Val d’Ossola, dove i loro governi provvisori emanarono addirittura delle leggi.

Durante quei governi ci fu una distinzione tra giurisdizione civile e quella penale; ci fu una distinzione tra reati comuni e reati politici; ci fu una polizia alle dirette dipendenze della magistratura: tutte cose che hanno servito a quello che si doveva costruire nel nostro paese. E' da ricordare che la costruzione politica derivante dalla Resistenza è stata difficilissima fin dal tempo della Resistenza stessa, perché i partigiani non avevano alle spalle quello che avevano gli altri resistenti e combattenti in Europa. I grandi avvenimenti, come la rivoluzione russa, hanno avuto dei precedenti di carattere culturale e filosofico. Per la rivoluzione francese abbiamo avuto tutto il periodo dell’illuminismo, per la rivoluzione russa abbiamo avuto tutto il marxismo, le sue implicazioni, le culture diverse intorno al marxismo, le discussioni. In Italia dietro le spalle non c’era nulla.


Ci fu chi battezzò la Resistenza come il nostro Secondo Risorgimento. Non sono d’accordo con quel grande storico che fu Luigi Salvatorelli. Anzitutto perché al Risorgimento partecipò, anzi lo portò alla vittoria la monarchia sabauda che non parteciperà alla Resistenza. Il Re che aveva già tradito lo statuto albertino, che non seppe ripudiare il fascismo, che non si tirò indietro né davanti alle leggi razziali ne alla dichiarazione di guerra, di fronte al movimento di Resistenza rimase freddo ed assente ed i motivi li conosciamo sin troppo bene. Pensava di rifarsi una verginità e di far dimenticare le sue malefatte avallando la dichiarazione di guerra alla Germania nazista presentatagli da Badoglio nell’ottobre del 1943.

La differenza tra Risorgimento e Resistenza è notevole: i due movimenti sono paragonabili su un solo piano, quello di liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Per il resto, idee, contenuti, esercito, lotte, partecipazione, ecc. sono diversissimi.

Il Risorgimento discende direttamente dalle idee della rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche che fanno balenare nelle menti più aperte degli italiani la possibilità e la necessità di riunire dopo tanti secoli l’Italia in un solo Stato. Quelli che sentono questa necessità e si prodigano per propagandarla costituiscono un'élite minoritaria rispetto al resto della popolazione. Si tratta di nobili, intellettuali, professionisti e studenti. La classe operaia e quella contadina non sentono e da quei problemi non vengono affascinate. Anzi, per quel poco che sanno, li odiano. Per loro l’unità d’Italia significa guerra, carneficine, lutti e miserie di cui loro, contadini ed operai sono costretti a portarne il peso. Infatti essi costituiscono la cosiddetta carne da cannone, quella che deve sacrificarsi sui campi di battaglia. Da ciò deriva il loro odio per i Bandi di mobilitazione generale, le cartoline precetto di richiamo alle armi ed in una parola di tutto ciò che ha attinenza con la guerra.

La Resistenza è una cosa diversa: non esistono né Bandi di mobilitazione, né cartoline precetto. Si va in montagna liberamente, spinti da ideali diversissimi, quando addirittura non saranno i Bandi della repubblica di Salò a costringere i giovani ad una scelta decisiva.

Ci si ritrova in montagna giovani e vecchi, operai e contadini, uomini e donne, comunisti, socialisti, GL, monarchici e persino i cattolici che durante il Risorgimento erano stati col cuore dalla parte del Papato. Per la prima volta nella storia d’Italia contadini ed operai partecipano attivamente alla costruzione del loro futuro e non lo subiscono. Troviamo formazioni partigiane costituite quasi completamente da contadini, come nel cuneese, oppure da operai dei cantieri navali nella Venezia Giulia.

Le donne s’impegnano in tutte le forme possibili: reperimento di viveri in pianura per portarli con le gerle in montagna, cucendo indumenti per il parente o l’amico partigiano, facendo la staffetta da una formazione all’altra, portando ordini e notizie sia dalla pianura che dalla città. Come sarebbe stata possibile altrimenti una Resistenza senza l’aiuto delle donne?

La Resistenza fu infatti, come la definì Salvemini, una guerra di popolo, né più, né meno di quello che aveva dichiarato Parri ai primi di novembre del 1943, quando con Valiani attraversò il confine svizzero per incontrarsi con i delegati angloamericani i quali dal movimento partigiano si aspettavano solo sabotaggi ed informazioni e rimasero strabiliati quando egli affermò ripetutamente che puntava su una guerra del popolo italiano, condotta da una esercito del popolo: i partigiani. A quel tempo i partigiani che erano saliti in montagna ammontavano si e no a qualche migliaio.

Alcuni fatti mi sembrano importanti da chiarire in quanto di solito vengono dimenticati o sottovalutati. Man mano che la lotta partigiana aumentava d’intensità nei territori occupati dai tedeschi essa si conquistò l’ammirazione ed il rispetto dei comandi alleati, specie dopo l’insurrezione di Firenze che pose fine alla lotta sanguinosissima combattuta in Toscana. Nello stesso mese di agosto del 1944 la brigata Rosselli, comandata da Nuto Revelli, impedì per alcuni giorni nella battaglia della Val Stura alla 90° divisione corazzata tedesca di accorrere da Acqui, dove si trovava, a Tolone, valicando il passo della Maddalena, per bloccare lo sbarco angloamericano avvenuto tra Nizza e Marsiglia. Nello stesso tempo i garibaldini di Arrigo Boldrini con i mazziniani di Biasini e Libero Gualtieri combattevano contro i tedeschi sulla linea gotica.

La guerra di liberazione nazionale fu senza alcun dubbio una lotta armata contro l’invasore nazista e contro il fascismo nostrano messosi al suo servizio, ma fu anche una lotta politica che cominciò al Sud nel territorio già liberato dagli angloamericani i quali tardavano a ripristinare le libertà democratiche. In ciò vi era senza alcun dubbio l’interesse di Churchill che voleva difendere la monarchia sabauda e che la riteneva un possibile futuro baluardo contro una eventuale minaccia comunista.

Il congresso del partito d’azione tenutosi a Bari nel gennaio del 1944, che si espresse in modi durissimi all’unanimità contro la monarchia sabauda aveva profondamente turbato Churchill che neanche l’arrivo di Togliatti dalla Russia nel successivo marzo e la conseguente “svolta di Salerno” riuscirà a tranquillizzare.

Il fatto politico più importante fu senza dubbio la creazione dei CLN, i Comitati di Liberazione Nazionale, che consentirono di dare alla Resistenza italiana un unico indirizzo politico, un unico comando generale della lotta partigiana e s’imposero, con loro unitarietà, sia di fronte alle forze partigiane che li riconobbero come loro emanazione, ma anche rispetto alle autorità militari angloamericane.

I CLN che discendevano a grappolo dal centro, Milano, sino al più sperduto paese dove si lottava per la libertà, vennero riconosciuti dagli alleati, ma l’azione politica più importante si svolse a Roma.

Qualche giorno prima della liberazione di Roma, il CLN centrale chiese in forma ultimativa le dimissioni del generale Badoglio da presidente del consiglio, di dare pieni poteri legislativi al governo che si sarebbe formato, di esentare i ministri dal giuramento di fedeltà al Re e di farli giurare invece nell’interesse supremo della nazione e stabilire con un decreto legge che al termine della guerra il popolo italiano avrebbe potuto scegliere la forma statuale che più gli aggradava: monarchia o repubblica.

Liberata Roma, Badoglio fu costretto a dimettersi ed il suo successore, Bonomi, ex presidente del CLN romano, si fece dare pieni poteri legislativi e sulla base degli stessi emanò il 25 giugno 1944 il decreto che stabiliva sia l’elezione di una Assemblea Costituente che la scelta istituzionale, a guerra conclusa, tra Monarchia e Repubblica. Calamandrei commentò:” siamo usciti dalla legalità statutaria e siamo entrati nella legalità precostituente.”

A fine estate, sbalordito dell’opera delle brigate partigiane e dei CLN, il toscano in particolare e dell’importanza assunta dal movimento partigiano che era riuscito a creare tre zone libere ed aveva bloccato una intera divisione corazzata che si stava precipitando a dare manforte alle guarnigioni tedesche che tentavano di impedire lo sbarco, il Comando delle truppe alleate, chiese un incontro con il CLN alta Italia (CLNAI). La delegazione del CLNAI (formata da Parri, Pizzoni, Paietta e Sogno) che si recò a Roma già da mesi liberata, ebbe dagli incaricati del generale Wilson e del Maresciallo Alexander il riconoscimento del diritto di condurre la lotta partigiana, che costituiva un invito alle popolazioni di sostenere il movimento partigiano e fu anche firmato un protocollo di accordo col quale le autorità militari alleate s’impegnavano ad avallare le nomine dei responsabili amministrativi (Prefetti, sindaci, questori, provveditori agli studi,ecc.) effettuate dai CLN.

Il successo della missione romana degli esponenti della Resistenza nel Nord, ancora occupato dai nazisti fu completato dalla promessa Alleata di intensificare i lanci paracadutati di armi ed aiuti di vario genere alle formazioni partigiane.

Il tutto venne raccolto in un protocollo firmato da entrambe le parti. L’importanza politica di questo protocollo è notevolissima: eccetto che nel caso della Jugoslavia, gli alleati avevano sempre trattato con i governi in esilio delle varie nazioni occupate dai tedeschi. In questo caso invece trattavano e firmavano documenti direttamente col movimento partigiano operante nella zona occupata dai nazisti ed ebbe sentore di quelli che erano i motivi ed i programmi del movimento partigiano.

Udirono Parri dichiarare senza mezzi termini che si combatteva per costituire una repubblica democratica che bandisse in quella che sarebbe stata la sua nuova carta costituzionale ogni tipo di guerra di aggressione, che non ci sarebbero più state in Italia discriminazioni dovute a razza, fede religiosa od altro, che l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi dello stato non avrebbe avuto limitazioni, eccetera; tutte cose che noi poi troveremo scritte tra i principi della nostra costituzione.

Altro aspetto politico importante della Resistenza italiana fu l’organizzazione degli scioperi dei primi di marzo 1944 che bloccarono l’attività di moltissime fabbriche e di intere città. A Milano si fermarono i tram, lo sciopero bloccò anche Il Corriere della Sera. Non era possibile per i nazifascisti nascondere la gravità che da tali scioperi emergeva. Inoltre fu attraverso l’attività dei propagandisti politici nelle fabbriche, negli uffici e dappertutto che in molti cittadini, sino a quel momento disinteressati, si manifestò il desiderio e la necessità di seguire attentamente le vicissitudini della politica.

Le fucilazioni e le deportazioni di scioperanti, operate dai nazisti, i manifesti affissi nelle strade che annunciavano condanne a morte ottennero solo lo scopo di fare odiare ancor di più dalle popolazioni fascisti e nazisti.

Un altro aspetto che non bisogna dimenticare è l’apporto di idee e programmi che la Resistenza ha elaborato e consegnato ai futuri reggitori della politica nazionale. E da quelle idee e da quei programmi che sono usciti i valori, i principi che sono alla base delle nostra Costituzione che il 22 dicembre compirà cinquant’anni. Ricordiamocelo.

San Donato Milanese, 20 Novembre 1997

Senza tregua - La guerra dei GAP