domenica 24 novembre 2013

… non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù ...

Ciascun individuo è tale poiché instaura relazioni con la realtà circostante. Il costante “riferirsi” all'altro da se, per definire il profilo stesso di soggettività, rende oggettivamente permeabile il confine del cosiddetto “ego” e l'esperienza della connessione scandisce di fatto l'esistenza individuale/collettiva. Nella transizione dal XVIII e XIX secolo la natura dell'interazione sociale storicamente determinata emerge culturalmente a coscienza e grazie a ciò Tocqueville ritenne la “massa” come moltitudine indifferenziata al suo interno, di aggregato omogeneo, in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo. L'industrializzazione e l'urbanizzazione connessa nei paesi occidentali più progrediti sono fenomeni d'esordio della società di massa. Nel XX secolo il quadro si raffina e completa in termini di omologazione: “Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati […]. La moltitudine improvvisamente si è fatta visibile […]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Oramai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro” (Josè Ortega Y Gasset, “La ribellione delle masse”, 1930). La gran parte delle persone vive in agglomerati urbani, medi e grandi. Gli esseri umani sono a più stretto contatto condizionante fra loro. Maggiore disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione pur con discriminazioni economiche d'accesso che ne differenziano sostanzialmente le condizioni di vita. Le relazioni sociali non si basano più sulle piccole comunità tradizionali. Le dimensioni etniche tendono a precipitare nel “globale”. Le relazioni sociali dipendono in una prima fase di affermazione del capitalismo dalle grandi istituzioni nazionali (apparati statali, partiti, associazioni, sindacati …), nella più recente dalle imprese multinazionali che sovradeterminano la vita di ciascuno. La subalternità dell'individuo è totale ed irreversibile.
Le organizzazioni capitalistiche che sovrintendono alla produzione ed al consumo di massa pesano sulle scelte di vita collettive e su quelle individuali. Si passa inevitabilmente dall’autoconsumo al circolo dell’economia di mercato. I valori tradizionali d'appartenenza lasciano il passo a nuovi modelli generali di mentalità e comportamenti eteroprodotti e “venduti” come indispensabili a ciascuno concorrendo a formare nuove dimensioni psicologiche e percettive inducendo alterazione etica ed annientamento del pensiero critico. Oggi il fronte delle innovazioni tecnologiche, di nuovi settori produttivi (informatica ed elettronica in primis, ma anche la chimica) trovano occasioni di imposizione di correlati stili di vita. La Cina s'affianca alla tradizionali potenze industriali, la Germania e gli Stati Uniti. Assistiamo ad uno sviluppo tumultuoso generalizzato della produzione in tutti i settori che devono innovare per sopravvivere nella competizione globale. L’indice di produzione industriale e quello del commercio raddoppiano fino alla fase di finanziarizzazione improduttiva, fino al collasso del sistema d'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta (crisi della fine del primo decennio del XXI secolo). I prezzi dei beni e servizi (compresi quelli erogati dal Welfare), che prima calavano costantemente, cominciano a crescere. Non crescono, viceversa, i salari (assolutamente meno dei prezzi), il PIL dei paesi industrializzati e la popolazione in questi paesi subisce la stagnazione e l'imperio aziendalista. Per conseguenza, l'allargamento del mercato comprime la domanda di beni e servizi di massa, essendo le classi subalterne depauperate (mediante la leva fiscale) ed impoverite materialmente non avendo retribuzioni sufficienti a riprodurre la forza-lavoro. Non nascono cicli di produzione industriale di nuovi beni di consumo e le reti commerciali di vendita e distribuzione (negozi, grandi magazzini, vendita per corrispondenza, rateizzazione e finanziamenti, pubblicità) sono diventati non-luoghi dell'alienazione di massa; la stagnazione della produzione induce una razionalizzazione produttiva che si sostanzia in tagli di servizi e personale. Dal 1913, quando a Detroit, negli stabilimenti Ford nasceva la prima catena di montaggio, ad oggi, si è passati dall'introduzione di nuovi metodi di produzione di massa (parcellizzazione del lavoro, taylorismo di cui in F.W. Taylor, “Principi di organizzazione scientifica del lavoro”, 1911) al neoschiavismo che ha fatto tramontare l'epoca dei consumi di massa, dei prezzi differenziati e competitivi, degli alti salari, del fordismo.
Di quella stagione resta solo la “massificazione”. L'uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali, schizofrenica mobilità e stratificazione sociale. La classe operaia già divisa nella trade-unionistica distinzione fra manodopera generica e lavoratori qualificati (aristocrazie operaie) rifluisce verso zone sempre più ampie di disoccupazione e precarietà aumentando consistentemente l'inadeguatezza nel conflitto organizzato. È soggiogata alla volontà ristrutturativa del capitalismo. Il cosiddetto ceto medio non aumenta la sua consistenza con i lavoratori autonomi e nuove professioni che ci si inventa (la mortalità delle Partite I.V.A. ne è la dimostrazione) per non essere triturati dalla crisi; i dipendenti pubblici e gli addetti del settore privato che non svolgono attività manuali (tecnici, commessi, impiegati…) stanno scomparendo a causa della privatizzazione selvaggia che può fare a meno di dipendenze a tempo determinato e di contrattualizzazione; scompaiono anche i “colletti bianchi” creando fenomeni di contrapposizione tra borghesia impiegatizia e proletariato per reddito “non garantito”, sterilizzando l'autonomia degli individuo in termini di usi, costumi e aspirazioni e organizzazione/progettazione esistenziale.
La contrarietà ai sindacati a in generale alle organizzazioni di massa pare essere l'unica difesa alla spoliazione in atto. L'individualismo, la rispettabilità dell'appropriazione selvaggia di proprietà private (criminalità tout court), la fine del risparmio familiare, il riproporsi virulento di un senso subalterno della gerarchia sociale, forme risorgenti di ignoranza patriottistica diventano forme evidenti, sempre più importanti (poiché incidono nel disegnare opzioni di dominio sulle coscienze individuali), di percorsi personali e collettivi di fuoriuscita dalla “crisi”col crescere della società globale di massa rappresentati da caotici flussi migratori. Destinatari non più di beni di consumo, di diritti politici (elettorato di massa) che ne potrebbero far oscillare le simpatie, ora progressiste ora conservatrici, i diseredati del XXI secolo hanno un'unica alternativa: o soccombere o emanciparsi perseguendo con convinzione l'obiettivo dell’organizzazione ed intraprendendo la battaglia politica collettiva che produce di per sé più diritti; all'omologazione subalterna va opposta la solidarietà e lo spirito di classe, l'internazionalismo, fondamentale coll'espansione dello sfruttamento globale; il proletariato torna ad essere il motore del progresso perché lotta per i diritti collettivi e per la ridistribuzione del reddito si unisce e si concretizza nella lotta per il potere politico conquistato mediante rivoluzione sociale. La società di massa e “democratica” non è lo stesso della società socialista.
L'attuale soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Karl Marx la suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo egli vedrà la piena realizzazione umana. In una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus: “Io, t’assicura, non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù. Meglio d’assai lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero di Giove”. La rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione, ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e di un proletariato cosciente va nella stessa direzione.
La concezione comunista del mondo è, come ogni scienza, opera degli uomini. I comunisti la devono non solo applicare. Prima ancora la devono elaborare e sviluppare all’altezza dell’opera che devono compiere: per costruire un grattacielo occorre una scienza delle costruzioni più sviluppata di quella necessaria per costruire una casetta. Per questo diciamo che essere marxisti non significa fare l’esegesi delle opere di Marx e degli altri dirigenti del movimento comunista (“cosa ha veramente detto Marx”, ecc.). Sono marxisti quelli che elaborano dall’esperienza la scienza della lotta della classe operaia che si emancipa dalla borghesia costruendo la società comunista. Il movimento comunista cosciente e organizzato non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, neanche durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, quando per effetto della prima crisi generale del capitalismo la borghesia stessa aveva sconvolto i suoi ordinamenti nei singoli paesi e il suo sistema di relazioni internazionali e precipitato tutto il mondo in ben due guerre mondiali complessivamente durate più di 30 anni (1914-1945), principalmente perché i comunisti non hanno elaborato la concezione comunista del mondo all’altezza del compito che dovevano svolgere. Gli interessi della borghesia e del clero congiuravano con l’ignoranza naturale (conforme cioè alla loro natura di classi oppresse) in cui le classi dominanti tengono le classi oppresse (“lei non è pagato per pensare”, “qui non si fa politica”, ecc. ecc.) e con la pigrizia e il dogmatismo di tanti comunisti pur onestamente devoti alla causa della rivoluzione che tuttavia riducevano il marxismo all’esegesi dei testi e a una fede religiosa nei dogmi, mentre nell’azione pratica, pur eroica, si orientavano a naso, secondo il senso comune (cioè nei limiti di proteste e lotte rivendicative). Va superata – tra l'altro - l’inerzia teorica del movimento comunista dei paesi imperialisti e il suo venir meno ai compiti suoi propri. Così come è al primo posto dell'ordine del giorno della storia l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario.

giovedì 24 ottobre 2013

Saggio sulla negazione

Saggio sulla negazione - Per una antropologia linguistica Paolo Virno, Anno 2013, Collana «Temi», Prezzo €16,00, 204 Pagine Contenuto: In ogni momento ricorriamo a una particella grammaticale dimessa e priva di blasone, senza sospettare che nella sua inappariscenza sia all’opera un dispositivo così potente da orchestrare l’intera significazione, e con essa il mondo. Quel connettivo sintattico è il ‘non’, di portata eguagliabile soltanto all’universale dello scambio, ossia il denaro. È la negazione a separare il pensiero verbale dalle prestazioni cognitive taciturne, come le sensazioni o le immagini mentali. Parlando di ciò che ‘non’ accade qui e ora o di proprietà ‘non’ riferibili a un certo oggetto, l’animale umano disattiva l’originaria empatia neurale, prelinguistica, si distanzia dalle prescrizioni del proprio corredo istintuale e accede a una socialità di secondo livello, negoziata e instabile, che istituisce la sfera pubblica. Il parlante infatti impara presto che l’enunciato negativo non è la controfigura linguistica di realtà sgradevoli o sentimenti distruttivi: mentre li rifiuta, dà loro un nome, li include. Effetto di incivilimento sempre esposto ad altre, insorgenti retroazioni antropologiche, secondo Paolo Virno, che sulla costitutiva negatività del linguaggio scrive un saggio-spartiacque. Da una paroletta riesce a dispiegare una inaspettata fenomenologia della coscienza negatrice.
Autore: Paolo Virno insegna Filosofia del linguaggio all’Università di Roma Tre. Tra i suoi saggi: Grammatica e moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (2002), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (2002) e Convenzione e materialismo. L’unicità senza aura (2011). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato: Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico (1999), Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana (2003), Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento (2005) ed E così via, all’infinito. Logica e antropologia (2010). [http://www.sinistrainrete.info/filosofia/3091-francesco-raparelli-il-non-che-fa-la-differenza.html]

martedì 13 agosto 2013

La recessione

La recessione (testo per la canzone, da P.P. Pasolini) Vedremo calzoni coi rattoppi; rossi tramonti su borghi vuoti di macchine pieni di povera gente che sarà tornata da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come poltrone di senatori; e i bambini sapranno che la minestra è poca, e cosa significa un pezzo di pane. E la sera sarà più nera della fine del mondo, e di notte sentiremo solo i grilli o i tuoni; e forse qualche giovane tra quei pochi tornati al nido tirerà fuori un mandolino. L'aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno ogni tanto come in un sogno. Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, con i vestiti grigi e dentro agli occhi una domanda che non è di soldi ma è solo d'amore, soltanto d'amore. Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde della curva di un fiume dal cuore di un vecchio bosco di querce crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera. E gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra soli e chiusi come erano una volta. E la sera sarà più nera della fine del mondo, e di notte sentiremo i grilli e i tuoni e forse qualche giovane tra quei pochi tornati al nido tirerà fuori un mandolino. L'aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno ogni tanto come in un sogno. I banditi avranno i visi di una volta coi capelli corti sul collo e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna e saranno armati solo di un coltello. Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà. La recessione (poesia in friulano di P.P. Pasolini) I jodarìn borghèssis cui tacòns; tramòns ros su borcsvuèis di motòurs e plens de zòvinsstrassòns tornàas da Turin o li Germàniis. I vecius a saràn paròns dai so murès coma di poltronis di senatòurs; i frus a savaràn che la minestra a è pucia, e se c'ha val un toc di pan. La sera a sarà nera coma la fin dal mond, di not si sentiràn doma che i gris o i tons; e forsi, forsi, qualchi zòvin - un dai pus zòvins bons turnàas al nit - a tirarà fours un mandulìn. L'aria a savarà di stras bagnàs. Dut a sarà lontàn. Trenos e corieris a passaràn di tant in tant coma ta un siun. Li sitàs grandis coma monds a saràn plenis di zent ch'a vas a piè cui vistìs gris, e drenti tai vuj 'na domanda, 'na domanda ch'a è, magari , di un puc di bès, di un pàssul plasèir, ma invessi a è doma di amòur. I antics palàs a saràn coma montaglia di piera soj e sieràs, coma ch'a erin ièir. Li pìssulis fabrichis tal pì bièl di un prt verd ta la curva di un flun, tal còur di un veciu bosc di roris, a si sdrumaràn. un puc par sera, murèt par murèt lamiera par lamiera. I bandìs (i zòvin tornàs a ciasa dal mond cussì divièrs da coma ch'a èrin partìs) a varàn li musis di 'na volta, cui ciaviej curs e i vuj di so mari plens dal neri da li nos di luna - e a saràn armàs doma che di un curtìa. Il sòcul dal ciavàl al tociarà la ciera, lizèir coma 'na pavèa, e al recuardarà se ch'al è stat, in silensiu, il mond e chel ch’al sarà. Ma basta con questo film neorealistico. Abbiamo abiurato da ciò che esso rappresenta. Rifarne esperienza val la pena solo se si lotterà per un mondo davvero comunista. La recessione (traduzione in italiano di P.P. Pasolini) Vedremo calzoni coi rattoppi; tramonti rossi su borghi vuoti di motori e pieni di giovani straccioni tornati da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori; i bambini sapranno che la minestra è poca, e quanto vale un pezzo di pane. La sera sarà nera come la fine del mondo, di notte si sentiranno solo i grilli o i tuoni; e forse, forse, qualche giovane (uno dei pochi giovani buoni tornati al nido) tirerà fuori un mandolino. L’aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno di tanto in tanto come in un sonno. Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi e dentro gli occhi una domanda, una domanda che è, magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta. Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce, crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera. I banditi (i giovani tornati a casa dal mondo così diversi da come erano partiti) avranno i visi di una volta, coi capelli corti e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna - e saranno armati solo di un coltello. Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà.

giovedì 1 agosto 2013

Article for http://th-rough.eu/ - For a society without "capitalism”, for a "democracy without parliament"

The first idea to forget, when you start to deal with the "social transformation" and to live it every day, is that the "policy" can be a quiet craft used to construct buildings perfect for words. The passions that animate the work of transforming the present social reality are not fed by the "necessity of thought", if anything, some fantasies and visions of corroboration as a "thinking game", the concrete path dual-antagonistic of release from atrocity of a material condition that codetermines individual forms of life to deny and socio-economic formations to change radically and irreversibly. The post-twentieth century social antagonism is characterized by typical multidimensional operations - from economic and normative trade unionism vindictive to armed anti-system struggle - whose goal is to originate a "crisis of the political structure" inside of a general "crisis of situation and conscience ", otherwise it is a failure. The surrealism of the self-styled "symbolic" antagonism, conveyed mostly by "flashmob events", does not fit well to the "social transformation." The transformative planning, conversely, is able to organize, shaking mass proletarian energies, a growing public interest to the material-conscience rebellion discovering critically its purpose - political power - for too many decades absurdly marginalized from the core of the class struggle, not case also by the most eminent personalities of contemporary culture that to the surrealism of the so-called "symbolic" antagonism refer legitimizing the dispersion of subversive energies. From Athens to Paris, Rome, Madrid and elsewhere in Europe and in the "worlds" of interrelated "capitalist globalization" the social struggles and the subversive practices, only when they blend with multiform ingenuity of a revolutionary political organization, make the "social transformation" the privileged ground of an extraordinary adventure of human intelligence, freed from manipulative rhetoric of "reformism" and the "spontaneity", from the anesthetizing banality of “compatibility”, by the habits of certain rebellious and aesthetic intelligencija that plays poorly the Marx's concept of general intellect that in the Grundrisse is defined as widespread social knowledge that the "capital" values ​​for its own purposes, in particular for the technical-technological development as a crucial factor in the production (i.e. combination of technological competences and social intellect , or general social knowledge that determines the growing importance of the machines in the social organization) (1). Customs, the latter, humiliating and, sometimes, even annihilating, when even today, every day, there are those who went to the blast furnaces and who at their computer-telematic workstations to write wanting "give form to the formless and coscience to unconscious”. The "social transformation" does not provide for romance, or "natural" evolution of the productive-social system imagining an impending implosion. The "social transformation" is a complex human construction, which dismantles the obvious appearance of reality, perceived as unchangeable and insurmountable, establishes innovative connections between structure and superstructure, captures references and analogies between indefinite accumulation of wealth (economy) and increase of knowledge (culture), that a small part of the "social body" realizes, while on the other side the bulk undergoes intensive and continuous exploitation and alienation, identifies codes in which to express practices that are beyond the capitalist colonization of reason that a priori comes forward in defining the sphere of the existence of the multitudes subjecting them to the despotism of its logic and its "value system". The antagonism goes areas unknown or deliberately ignored and forbidden of the social contradictions that political-partisan conventions and trade union exorcise as "the mystery of things" in order to impose to the mass imaginary and at the same "undefined inner" a reflection, as a parade, as an existential representation from the Truman Show of the human condition in which choke, remove, deny, hide all the "other reality", that of the conflict and possible liberation, remaining ensnared by the "democracy evaporated" inherited from the twentieth century. The concept of "democracy" per se, from the greek δῆμος (démos, the people) and κράτος (cràtos, power), which etymologically means "government of the people," not only of "direct democracy", is a negation and an affirmation: the denial that the "power" can be delegated and the assertion that the "masses" (popular, worker, student) can exercise it as organized forms' meeting where the participation of all people is the institutional physiology of a State so-called democratic. The concept of democracy seems to abide in the first place at the idea not so much of ​​"ownership", how much of the '"exercise of power". In fact, at its base is the belief that the exercise can not be separated from ownership, and when this happens - the exercise delegated - the ownership is lost, mystified and / or sublimated in the mere ritual of "representation" and reconfigured as expropriation of popular power about political decision oriented to "common goods". In addition, deepening reflection it is clear that "democracy" itself contains a specific concept of ownership of power - specificity not only induced by the indissoluble link between ownership and operation - which comes from the intensity of the definition of the democratic quality of the "sovereign body" . This specific quality, positive, of the sovereign body which alludes to a creative power of the community as such, can be traced in a primordial form, typically the modern age (Swiss or Scottish cities before the first Reformation), in the sacred form in which the power of the assembly is depicted in the thought of the Protestant sects. Subsequently, the Rousseau’s Enlightenment conception clarifies theoretically the distinction between the "general will" and "will of all", where the denial of representation is reflected positively in the manifestation of inner political quality of the general will, his way of expressing themselves. The "will of all", on the other hand, is not so characteristic of the "representation", as the precariousness of its formation, being the "sovereign body" which refers to the will of all, internally divided and atomistic disrupted. In the Western capitalist countries soon the subversive potential of state institutions that modern "democracy" contains, is isolated, opposed, sterilized. This does not seem to derive much from the force of old regimes in the process of irreversible disintegration, as in the same internal crisis of the bourgeoisie power, which, after measuring the effects of democratic practices (from this point of view, the original antagonistic impact of the so-called "fourth state" and the same modalities of industrial production, which provided political and cultural identity to the "proletariat", were emblematic) and heterogenesis of the purposes of this specific historical mobilization, rejects, with the consequences to appreciate " variable dictatorship ", the experience itself. Only in the early decades of the twentieth century, the nature of " historical democracy " (created by the bourgeoisie in power), it is clarified definitively. Lenin in "State and Revolution" (written in August-September 1917, published for the first time as a pamphlet in the same year), writes: "The capitalist society, considered in its most favorable conditions for development, offers us in the Democratic Republic a democracy more or less complete. But this democracy is always compressed in the narrow framework of capitalist exploitation, and remains, after all, a democracy for the minority, only for the propertied classes, only for the rich. Freedom in capitalist society always remains about what was in ancient Greek republics: freedom for the slave owners. Today's wage slaves, by virtue of capitalist exploitation, are so suffocated from want and misery, which "have a very different thoughts that democracy", "the policy", so that, in the peaceful and ordered course of events, the majority of the population is cut off from the political and social life. Democracy for an insignificant minority, democracy for the rich: this is the democracy of capitalist society. If we look more closely at the mechanism of capitalist democracy, always and everywhere - both in the "minutes", in the minute details of the alleged electoral legislation (duration of residence, exclusion of women, etc.), both in the operation of representative institutions, both in the obstacles that hinder the right of assembly (public buildings are not for the "poor"!), both in the purely capitalist organization of the daily press, etc.. we will see restrictions on restrictions on democratism. These restrictions, deletions, exclusions, obstacles for the poor, seem minutes, especially to those who have never known want and never have approached the oppressed classes nor the lives of the masses that constitute them (and there are nine-tenths, if not the ninety-nine hundredths of bourgeois publicists and politicians), but, when added together, these restrictions exclude the poor from politics and active participation in democracy. Marx grasped perfectly this essential feature of capitalist democracy, when, in his analysis of the experience of the Commune, said: at the oppressed are allowed to decide, once every few years, whome between the representatives of the ruling class will represent them and oppress them in Parliament!". Nevertheless, the concept of democracy lives in the history of bourgeois political thought and, above all, in the vicissitudes of the struggle between classes, as temptation in social control as an ideal claimed to be decisive, if realized, of social contradictions, as nostalgia of the Periclean age (460-429 BC.), restorative yearning of the polis considered as an example of radical democracy forgetting that it provided in the social body, the presence of slaves. The democratic ideal becomes unbearable of the "progressive" bourgeois ideology and, in his first appearance in the laws for the period up to the present days, the reference universe, unique and indisputable, of the social conflict and the exercise of power, forcibly shifting from the "participation "to" representation". The "liberal constitutions" totally deny the progressive determination of democracy, as Karl Marx in “The Class Struggles in France from 1848 to 1850”, he denounced the trend and advance it urged the antidote. Faced with new control requirements that the "mass democracy" in the capitalistic era of the mature industrialization proposes, in the face of revolutionary threats that the new proletarian forces express (passing from the political trade-unonismo to the political organization), the bourgeois constitutionalism plays the card of the democratic rhetoric acknowledging some dictates of the so-called "government of the people". These are institutions such as the granting of the popular initiative or referendum on the bill (for example, in the Weimar Constitution and the Italian one), in fact subjected to substantial limits and ineffective. In other words, the needs of the concentration of power got the better of any possibility of real democratic debate between classes, ending with functionalize the instruments and institutions of democracy to the preservation of power by the capitalist-bourgeois elite and the suppression of class autonomy and initiatives of social groups excluded even from the forms of institutional representation. It is still Lenin, with clarity, explains: "The Scheidemann and Kautsky speak of "pure democracy" and "democracy" in general to deceive the masses and to hide the bourgeois character of the current democracy. The bourgeoisie continue to hold in his hands the whole apparatus of state power, let a handful of exploiters continue to use the old bourgeois state machine! It goes without saying that the bourgeoisie is pleased to call "free", "equal", "democratic", "universal" elections carried out under these conditions, because these words are used to conceal the truth, serve to conceal the fact that the ownership of means of production and political power remains in the hands of the exploiters and that it is therefore impossible to speak of actual freedom, effective equality for the exploited, i.e., the vast majority of the population. For the bourgeoisie is beneficial and necessary to conceal from the people the bourgeois character of modern democracy, to present this democracy as a democracy in general or as a "pure democracy", and Scheidemann, Kautsky as well as by repeating these things, have virtually abandoned the positions side with the proletariat and line up with the bourgeoisie.".(excerpt from Democracy and dictatorship, written in Moscow December 23, 1918 and published in Pravda, No. 2 of January 3, 1919). Heavily amended by revolutionary working practice (the Soviet experience), "democracy" becomes an instrument of re-appropriation by the exploited masses, of the ownership of the means of production and - simultaneously - the institutional political superstructure that holds the resources, relegating the background of the dual-antagonistic conflict capital-labor the negation of bourgeois formalism of representation, however, "subjectively" expressed that so much damage has caused and continues to provide to the proletariat. It is in the revolutionary practice, from the Paris Commune of 1871 to the onset of the European "council movement", essentially identifiable with the Soviet revolution of 1917, which opens a concrete horizon to escape from harmful logical bourgeois-democratic, political and cultural place to garrison preservation of the existing social hierarchy which aims to establish subordination momentous. The Russians’ Soviet, the Germans rate, the Boards Italians, the British shop stewards are actually a single substance: the "government of the people". Workers' control of production activities and the socio-political life, positions on the basis of terms of reference and revocability of the same are the pins around which rotates the proletarian responsible participation and the need of building the material basis of communism allowing a proper and unprecedented relationship between function of avant-garde and mass control of the same. The "dictatorship of the proletariat" is the inevitable transitional form of power management - the management of which is entrusted to the political party - useful for laying the foundations of the systemic historic defeat of capitalism. For Lenin, in fact, "1. The development of the revolutionary movement of the proletariat in every country, are making desperate attempts of the bourgeoisie and their agents in the workers' organizations in order to find the ideological and political arguments to defend the rule of the exploiters. Among these arguments are put particular emphasis on the condemnation of the dictatorship and the defense of democracy. The falsity and hypocrisy of this argument, repeated in all the tones on capitalist press and at the Conference of the yellow international, held in Bern in February 1919, are obvious to anyone who does not want to betray the fundamental principles of socialism. 2. First of all, this argument employs the concepts of "democracy in general" and "dictatorship in general" without posing the question of what class it is. Set so the problem, outside or above classes, as if it were the whole people, is an outright play of the fundamental doctrine of socialism, namely, its theory of the class struggle, which is recognized in words but forgotten in made by those socialists who have gone to the bourgeoisie. In fact, in no civilized capitalist country does "democracy in general", but there is only bourgeois democracy and the dictatorship of which we speak is not the "dictatorship in general", but the dictatorship of the oppressed class, i.e., the proletariat, over its oppressors and exploiters, i.e., the bourgeoisie, in order to break the resistance of the exploiters in their fight for their domain. 3. History shows that no oppressed class ever did, or could access the domain without going through a period of dictatorship, i.e., the conquest of political power and forcible suppression of the angrier resistance, more desperate, that stops in no crime, which is the one that always offered by the exploiters. The bourgeoisie, whose domain is defended today by socialists who railed against the "dictatorship in general" and will bend over backwards to enhance the "democracy in general", came to power in developed countries at the cost of a series of uprisings and civil wars, with the violent repression of kings, feudal lords, slave owners and their attempts at restoration. The socialists of all countries, in their books and pamphlets, in the resolutions of their congresses, in their propaganda speeches, explained to the people thousands and millions of times the class character of these bourgeois revolutions, and this bourgeois dictatorship. And so, when the present defense of bourgeois democracy with talk about "democracy in general", and the present cries and cries against the dictatorship of the proletariat pretending to cry out against the "dictatorship in general", that does not betray socialism, in fact go to the bourgeoisie, the proletariat denied the right to own proletarian revolution, defend bourgeois reformism in the historical moment in which it has failed all over the world and the war created a revolutionary situation "(excerpt from Lenin," Theses and report on bourgeois democracy and the dictatorship of the proletariat ", March 6, 1919, Collected Works, vol. 28, p.461-462). ____________________________________________ 1) It is in this regard that Paolo Virno writes (in "General Intellect" in post-Fordist Lexicon - Dictionary of ideas of the mutation, Milan, Feltrinelli, 2001), adapting the concept to the current post-Fordist era of immaterial labor: «Living labor embodies, therefore, the general intellect or "social brain" of which Marx spoke of as "the main pillar of production and wealth." The general intellect no longer coincides today with the fixed capital, ie the knowledge congealed in the system of machines, but it is one with the linguistic cooperation of a multitude of living subjects».

mercoledì 17 luglio 2013

La contraddizione

L’attuale dimensione entro la quale si sviluppa gran parte della conflittualità sociale e che trova nella “globalizzazione” una peculiare riconferma – essendo struttura portante del sistema sociale – fa riferimento, con inevitabile pregnanza ad ogni latitudine planetaria, alla contraddizione capitale lavoro. Per Karl Marx (la sua trattazione sull’argomento s’avvale già di “Lavoro salariato e capitale”, del 1847-1849, una raccolta di cinque conferenze che Marx tenne nel 1846 presso l'"Associazione degli operai tedeschi", poi pubblicate singolarmente sulle pagine della "Nuova Gazzetta Renana" (1849); furono diffuse in tutto il mondo da Friedrich Engels, dopo la morte di Marx, sotto forma di "opuscolo di propaganda" per la lotta di classe; successivamente, la critica dell’economia politica del “Capitale” spiega come il saggio di plusvalore rappresenti il rapporto fondamentale di “sfruttamento” alla base della valorizzazione di capitale; inoltre, “la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica – si legge in un passo dell’Anti-Dühring F. Engels 1878; 291 – si riproduce come antagonismo tra l’organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l’anarchia della produzione nel complesso della società”), la crisi economica nella società moderna è determinata innanzitutto dalla contraddizione, che ciclicamente si ripete, tra lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e i rapporti sociali di produzione ad essa sottostanti. Il rapporto tecnico fra la macchina e l’uomo, fra il lavoro morto e il lavoro vivo, permette di produrre sempre di più a parità di tempo o con meno dispendio di forza lavoro impiegata. Tuttavia, la ricchezza prodotta non trova sempre sul mercato la domanda sufficiente e in grado di ripagare i costi di produzione. Se la produttività aumenta, si liberano lavoratori, si creano i cosiddetti esuberi, insomma i disoccupati.
Il capitale risparmia sul fattore lavoro per aumentare relativamente i propri margini di profitto. Aumenta con ciò la forza contrattuale del datore di lavoro, che tende ad abbassare i salari, in un mercato del lavoro a lui tendenzialmente favorevole. Sul mercato del lavoro si forma infatti un esercito industriale di riserva di lavoratori che, anche inintenzionalmente, si pone in concorrenza con la forza lavoro occupata. La conseguenza più immediata è che si verifichino crisi da sovrapproduzione (e/o da sottoconsumo), poiché la domanda di beni da parte della classe lavoratrice diminuisce e le merci permangono nei magazzini invendute, con il che il capitalista vede diminuire i propri margini di profitto o addirittura non ricostituisce il capitale anticipato. La teoria del valore (lavoro incorporato) che Marx riprende dai classici (Smith e Ricardo), trasformandola radicalmente onde mettere in evidenza tutta la tematica del plusvalore (pluslavoro) in quanto profitto capitalistico è strumento teorico atto a cogliere la continua riproduzione del rapporto "essenziale" del modo di produzione capitalistico, decisivo dunque per comprendere il movimento peculiare dell'intera società capitalistica. Tale rapporto è, per Marx, quello tra proprietà dei mezzi di produzione e lavoro salariato, cioè forza (capacità) lavorativa venduta come merce da chi altro non possedeva se non il suo cervello e/o il suo braccio. La teoria del valore e plusvalore spiega come, ad ogni ciclo della produzione capitalistica, viene riprodotto tale rapporto con il costante accrescimento del lato proprietario (grazie al profitto/plusvalore), mentre il lavoro salariato può vedere certo aumentare il suo tenore di vita (salario reale) ma sempre nell'ambito di una non proprietà, dunque un non controllo, dei mezzi necessari all'attività produttiva. I termini Struktur/Überbau nella Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” (1859) sono utilizzati da Marx per esporre in termini sintetici la concezione materialistica della storia alla quale era pervenuto in seguito alla sua revisione critica della filosofia hegeliana del diritto. Al centro di tale concezione sta l’idea secondo la quale «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato» non possono essere compresi né per sé stessi, né mediante «la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell’esistenza», cioè nei rapporti di produzione; «l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale ». La reiterazione nella dimensione globale della contraddizione capitale lavoro come contestualizzata dall’analisi marxiana, ha determinato una considerevole proliferazione di variabili in gioco che possono rappresentare un’opportunità della quale tentare d’avvalersi (si pensa, ad esempio, alla comunicazione sociale, alla pervasività della I.C.T.) o, alternativamente, una variabile indipendente se non una vera e propria minaccia alla quale tentare di contrapporre – per il buon esito di pratiche antagoniste – un’accorta gestione del potenziale eversivo della lotta di classe. La consapevolezza dell’ambivalenza dell’antagonismo antisistema porta ad una corretta interpretazione del vissuto stesso delle contese sociali, poiché da essa discendono eventi modificativi diventati un’irrinunciabile leva operativa della trasformazione sociale da orientare con metodo, tempestività e competenza rivoluzionaria. È in tale prospettiva che va recepita – a livello di massa, ma anche del “quadro politico militante” disperso in tante realtà, ognuna delle quali portatrice di ispirazioni teorico-politiche che mostrano la corda, improduttive di eventi efficacemente(strutturalmente) modificativi – e collocata con priorità assoluta nell’agenda politica dei movimenti d’insubordinazione sociale e delle soggettività riorganizzantesi, dopo la sconfitta del comunismo novecentesco, la gestione dell’imprevedibilità antagonistico-duale conseguente al disegno di confini dettagliati entro i quali muoversi politicamente, agire per fare breccia, a fronte dell’evoluzione dell’ambiente economico sociale e politico globale. È necessario, altresì, che l’organizzazione politica dei comunisti non restringa il proprio intervento a quella che potrebbe definirsi come una mera conduzione tecnico-operativa delle attività realizzative di mobilitazione, propaganda e rivendicazione (come sembra emergere da residuali, antiche o recenti appartenenze partitico-sindacali che – ancora – guardano alla “rappresentanza”, alla presenza nelle istituzioni “pubbliche”). Al contrario, l’organizzazione politica dei comunisti è chiamata a riservare la massima cura alla pratiche di contropotere effettivo, appuntando costantemente l’attenzione sugli eventi politici modificativi (non simbolici) che concretizzino conquiste irreversibili sul terreno dell’agibilità politica e di processo rivoluzionario di lunga durata, rideterminando effetti decisivi per il risultato finale: la conquista del potere politico. Per esercitare un’azione di controllo e di guida dei movimenti d’insubordinazione sociale sostenendo la fuoriuscita dalle secche del trade-unionismo, d’altra parte, la partecipazione sincera alla vertenzialità sociale è ineludibile, lo sforzo ideativo e pratico di costituzione di comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva altrettanto importante – come obiettivi relazionali immediati – non demandando però al capriccio, all’inventiva tout court o alla solerzia individuale. La sedimentazione di coscienza costitutiva (per neoistituzionalità proletarie e popolari) è di vitale interesse per la rivoluzione. Infatti, la partecipazione alla conflittualità sociale, la condivisione delle responsabilità di destrutturazione delle forme di dominio – oltre a tratti d’identificazione chiara, quantificazione delle “risorse” necessarie, pianificazione delle iniziative territoriali, verifica degli esiti e della “tenuta” – devono essere in grado di condurre le azioni con approccio sistematico ed organizzativo, strategico, prevedendo il ricorso a metodologie specificamente leniniste. Da molti, troppi decenni, nel secolo trascorso, il capitale ha utilizzato “progetti” d’emancipazione per rideterminare le forme di dominio sociale. Ciò è servito a consolidare la formazione economico-sociale entro la quale esplicare il “comando” riproducendo gerarchie, sfruttamento, disuguaglianze, avvalendosi di fondamentali contributi della “sinistra comunista” togliattiana e socialista, revisionista e “riformista”, e tutto questo è fin troppo chiaro. In tempi recenti, tuttavia, le operazioni di soppressione d’ogni idea o pratica tendente ad obiettivi rivoluzionari per la conquista dittatoriale del potere politico da parte del proletariato organizzato dal partito comunista – il riferimento è al PdRC e al PdCI, in particolare, protagonisti della fuoriuscita anche dalla tribuna parlamentare d’una parvenza rappresentativa di classe – sono state evidentemente cogestite, anche all’insaputa di generosi militanti, con le forze capitalistico-borghesi perché il neoliberismo non ammette opposizioni di sorta (il “primo governo Marchionne”, in Italia, ne è la dimostrazione). Questo scenario sollecita quella turbolenza ambientale - indotta dall’egemonia dei “mercati” sulle forme di vita delle moltitudini – per giustificare derive autoritarie e repressive. La sopravvivenza del “comunismo” è data da pratiche rivoluzionarie come presupposto irrinunciabile per evitare l’estinzione o l’integrazione assassina tra lo stesso processo rivoluzionario di lunga durata – autonomamente condotto – e l’artificializzazione di mete politiche, integrazione coatta che porta fuori strada i comunisti ed avvelena la matura esperienza dell’autovalorizzazione proletaria.

lunedì 15 luglio 2013

Vedere la grande quercia nella ghianda

“Vedere la grande quercia nella ghianda”, il sottotitolo di un libro (Intelligenza valorizzativa, Tojo Thatchenkery e Carol Metzker, FrancoAngeli, 2007) che, sulla base degli ultimi non trascurabili risultati della psicolgia cognitiva e delle neuroscienze, scopre la nuova dimensione dell'intelligenza dietro alla creatività e al successo circa le innovazioni non solo produttivo-mercantili, ma anche nei comportamenti sociali. Percorrere nuove vie è (al di là delle intenzioni degli autori), quindi, possibile, rispetto al pensiero omologato, convergente, non in grado di ricontestualizzare la realtà, incapace di rilevare le possibilità non conosciute ed orientato ad abbandonare le situazioni apparentemente meno promettenti.
Non si tratta però solo di mettere in valore un talento, di guardare le cose sotto inedite angolazioni o di cogliere intuitivamente opportunità dietro ogni situazione problematica. Piuttosto, la cosiddetta “intelligenza valorizzativa” ricodifica il reale, ne disegna nuovi contorni ed identità, può fondare il linguaggio necessario a definire il senso nuovo: fa concentrare su scale di priorità sociale inespresse storicamente, consente d'affrontare la complessità senza l'ansia della conservazione dello status quo, sollecita l'acquisizione personale e collettiva di modalità espressivo-comportamentali ed abitudini prive dell'annichilente retaggio di arcaiche forme di vita, consente d'imparare a selezionare le informazioni di natura vitale discriminandole dalle distorsioni a manipolazioni, permette d'organizzare lo spazio-tempo sociale secondo inusitate necessità, riacquistando il controllo su di se, testimoniando l'autonomia e autentica collaborazione, estirpando il disvalore di rapporti sociali tutt'uno con attività competitive di business quotidiane. Agire secondo una vision alternativa all'ideologia vigente in ogni situazione rappresenta quel coinvolgimento ed integrazione di soggettività che affrontano antagonisticamente, dualmente, la relazione con lo stato presente di cose; dalla ricerca del reddito alle espressioni artistiche, dalla soddisfazione dei bisogni alla matura esplosione dei desideri, dall'alienazione alla gestione del potere. Rappresenta un'incombente minaccia per le posizioni politico-culturali negoziali, compromissorie, orientate alle “compatibilità di sistema”, all'eternizzazione delle gerarchie sociali di comado. Come progettare un percorso di cambiamenti sociali radicali, irreversibili ? Trasformare il modo d'essere, evolvere assertivamente, valutando lo stato attuale del sistema rispetto agli obiettivi di evoluzione, definendo gli ancoraggi ideali futuri, gli stati ottimali cui tendere, valutando i passaggi, stimoli o operations che possono portare alla trasformazione, selezionare gli interventi centrandosi sugli effetti (effect-based operations), evitando la dispersione di azioni asincrone o portatrici di risultati non precisati o poco chiari, aleatori, ma – soprattutto – cercare più angoli d'attacco allo status quo, esercitare focussing depurando il percorso dalle analisi errate e da revisioni degli obiettivi da raggiungere, “ricentrare” le energie umane nel protagonismo antagonistico-duale, senza riserva alcuna. Le condizioni che ne consentono l'esito sono date dalla fuoriuscita da ogni appartenenza sociale preesistente e dall'autonomia politico-culturale che tale soluzione di continuità comporta. L'applicazione dell'intelligenza valorizzativa alla questione sociale comporta un “salto di paradigma”, un protagonismo storico della radicalità operativa centrata sulla volontà di cambiamento e sulla rottura dello schematismo strutturale, economico-produttivo, di riferimento precedente. L'approccio delle regie d'avanguardia consapevole del ruolo, offre strumenti alle nuove generazioni di antagonisti che intendono agire in modo rivoluzionario, lottare contro prassi statiche demotivanti, proporsi il traguardo del potere, promuovendo esclusivamente strategie organizzative e ripudiando l'idealistica “infinita” teoresi.
Pensieri di Giovanni Dursi dedicati ad Antonio Gramsci, morto il 27 Aprile 1937 - … Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico....La cultura è una cosa ben diversa. E' organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri ... e anche un avviso a tutte le nostre "ghiande": ..Ogni ghianda può pensare di diventare quercia. Se le ghiande avessero una ideologia, questa sarebbe appunto di sentirsi "gravide" di querce. Ma, nella realtà, il 999 per mille delle ghiande servono di pasto ai maiali e, al più, contribuiscono a crear salsicciotti e mortadella ...

sabato 13 luglio 2013

Progettare la rivoluzione

Sviluppare una riflessione di critica sociale ed emancipazione a partire dalle condizioni attuali delle contraddizioni capitale-lavoro, nella consapevolezza che le dinamiche sociali in corso richiedono un ritorno/approdo consapevole e riflessivo alla nozione di critica e una rinnovata attenzione sulle condizioni che consentono di pensare il progetto di emancipazione collettiva e di rivoluzione sociale. I processi di globalizzazione, infatti, da un lato rendono sempre più manifeste le tensioni create da un capitalismo diversamente aggressivo sul piano economico e omologante sul piano culturale; dall’altro, sembrano poter aprire spazi per una nuova capacità di incrementare i potenziali di liberazione impliciti non solo in una possibile universalizzazione dei diritti umani e dell’autorealizzazione degli individui, ma soprattutto di rivoluzione sistemica.

Ma, al momento, è soprattutto sul primo aspetto che occorre soffermarsi. Le crisi economiche e finanziare internazionali hanno pesanti ripercussioni sociali: mettono a repentaglio le politiche di Welfare nei paesi più industrializzati – che vedono l’emergere di nuove e vecchie forme di povertà, di disoccupazione, di emarginazione sociale, ecc. mentre i giochi di borsa e le acquisizioni multinazionali d'impresa proseguono senza battute d'arresto –, e cercano, d’altro lato, di scaricare gli effetti più pesanti della crisi sui paesi più poveri e in via di industrializzazione e – prioritariamente – sulle classi subalterne presenti in ogni ambito nazionale devastandole, creando un vero e proprio genocidio generazionale. Sul piano culturale, nonostante sia ormai evidente la difficoltà intrinseca di un modello di produzione incentrato sull’idea di uno sviluppo senza limiti finalizzato al profitto d'impresa che risponda a mere esigenze produttive, il modello di una società dei consumi sembra essere senza alternative reali e, nonostante ciò, si impone come unico referente possibile e auspicabile. La stessa fuoriuscita dalla crisi viene così proposta solo nella prospettiva di una ripresa produttiva, dell’aumento del Pil, dei consumi, in una direzione che non può fare altro che riproporre le patologie da cui vorrebbe sfuggire. da questo punto di vista, i sacerdoti del "mercato", gli economisti "di sinistra" e "di destra", non divergono affatto, avanzando "ricette" buone solo per rigenerare il sistema d'appropriazione privata di beni e servizi socialmente prodotti. In questa situazione, la riflessione critico-sociale-politica – ma non solo – deve porsi l'inevitabile questione di quali siano le condizioni, i temi, i soggetti capaci di rompere questa spirale perversa e riaprire il fronte di una prassi sociale non ingenua, bensì lungimirante, rivoluzionaria, efficacemente antisistema. Si possono porre qui almeno tre questioni. 1. La contemporaneità come “luogo di manifestazione” delle contraddizioni capitalistiche, l’unico nella storia dell’umanità nel quale sia stato posto con forza il tema dell’emancipazione antisitema. La prospettiva illuminista di una liberazione sulla scia di uguaglianza, fratellanza e libertà non può dare alcun frutto poiché, tenendo ferma l’idea di una possibile liberazione di massa, non si può evitare la consapevolezza degli errori commessi dalla”sinistra tradeunionistica” in questi secoli di modernità capitalistico-borghese, e va considerato “falso sapere” non solo il fanatismo religioso e l’irrazionalismo mitologico, ma anche – il pronunciamento della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno è chiaro, in proposito – la presunzione delle classi dominanti di porsi come depositarie di sapere assoluto e definitivo, astorico, presunzione che ha assunto nel Novecento forme diverse e terribili, come le ideologie assolutizzanti, il totalitarismo nazi-fascista, l’assolutizzazione del ruolo sociale dell'impresa, ecc., sia sul piano concreto delle forme e delle esperienze sociali sia sul piano culturale e della formazione e riproduzione delle forme di vita sociali. Nonostante questi aspetti deleteri, e partendo proprio dalla necessità di evitare ogni assolutizzazione, rimane aperto il compito di “una critica della ragione attraverso la ragione” e quello di “stabilire prospettive da cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe” (Adorno). Occorre quindi una ripresa critica della critica interna alla prospettiva borghese, che sappia andare oltre una possibile resa davanti ai drammi che la modernità stessa ha prodotto, oltre il lavacro etico, poiché anche i proletari sono fagocitati e si muovono nell'universo unico dell'esitenza come il capitale vuole sia vissuta. 2. Il mantenimento – critico – delle prospettive di emancipazione presenti nel progetto rivoluzionario antisistema implica in prima battuta il superamento della retorica post-moderna e l'attualizzazione del marxismo-leninismo. La fine delle grandi narrazioni è anch’essa una grande narrazione. E, in quanto tale, ha prodotto essa stessa una “ideologia”. L’idea di un individuo riflessivo, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di scelte – e di contraddizioni – che il sistema sociale non sa più affrontare, può costituire la premessa per una nuova fuga dalla libertà, d'una eternizzazione delle forme di vita capitalistiche. La deregolamentazione e la privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della Società/Impresa può costituire un onere tragico per la gran parte dei soggetti subalterni e un eccesso di individualizzazione può produrre il peggior conformismo sistemico. Anzi, se finisce con l’essere la base per nuovi modelli sociali e di consumo – per lo più irraggiungibili –, costituisce un nuovo modello di conformismo. Dobbiamo perciò essere consapevoli che queste forme di disintegrazione sociale producono un vuoto alle volte più pericoloso del pieno che lasciano alle loro spalle; che la società dell’effimero e della disgregazione, del momento e della contingenza, è la condizione e il risultato di una nuova forma di potere e di dominio. Nessun rimpianto per un pieno al quale non bisogna assolutamente tornare, ma, al tempo stesso, nessuna indulgenza per un vuoto che annichilisce le stesse capacità di resistenza e di cittadinanza attiva. 3. Un elemento perciò fondamentale di analisi può essere costituito dal concetto di legame sociale. Oggi – sulla base forse di quanto sopra detto – assistiamo ad un ritorno di comunità, ad un nuovo bisogno di appartenenza, ad una rinnovata necessità di radicamento e di radicale trasformazione sociale. La “crisi” è madre di tutto ciò, come opportunità di autentica trasfomazione sociale. Accanto a situazioni di tipo reattivo – come possono essere nuove le forme di comunitarismo religioso, localistico, etnico, ecc. – emergono però al tempo stesso forme di comunità – e di legame sociale – che tentano di costruire momenti di solidarietà sociale non esclusiva e totalizzante, ma soprattutto embrionali forme organizzate di antagonismo anticapitalista. Possiamo fare gli esempi di nuove forme di movimenti sociali per i "beni comuni", di comunità di consumo equo e solidale, di associazioni di quartiere e di volontariato e servizio civile, di partecipazione collettiva, tutte portatrici, in modo più o meno esplicito e consapevole, di momenti di critica sociale e di emancipazione. Accanto ad essi si sta coagulando, aggregando una intenzionalità di lotta rivoluzionaria per il potere politico guidata da coscienti avanguardie comuniste. Una riflessione sulla natura e sulle condizioni del legame sociale nell'attuale situazione storica appare dunque il miglior modo per porre la questione della critica al capitalismo nell'epoca della globalizzazione. In questa prospettiva, non vorremmo riproporre il tema della critica alla prima esperienza stocia dell'accumulazione capitalsistica, che diamo per acquisita. Neppure riproporre una riflessione sul ruolo che vecchi soggetti (partiti, sindacati, ecc.) possono avere in chiave critica. Attualmente, il compito di costruire un ordine sociale nuovo e migliore deve ancora conquistare il centro dell’attuale agenda della maggior parte del mondo antagonista che trascura di “tematizzare” appropriatamente la questione del “potere”. Occorre invece riproporre con forza questa prospettiva in una nuova direzione, consapevoli che nemmeno un’ora del nostro lavoro sarebbe utile se non servisse in qualche modo alla rivoluzione sociale per il comunismo, alla socializzazione comunista.

domenica 2 giugno 2013

«Spazio pubblico e desiderio»

Venerdì 7 Giugno 2013, alle ore 18:00, presso la Libreria LIBERNAUTA di Pescara (Via Teramo 27), verrà presentata, per la collana editoriale “A lume spento”, «Spazio pubblico e desiderio» (Tabula fati, Chieti, Maggio 2013), silloge poetica di Giovanni Dursi. Il volume gode della prefazione dell'artista Pascal Iulianetti. La presentazione del libro sarà introdotta dall'editore, Dott. Marco Solfanelli [http://www.edizionitabulafati.it/ Tel. 0871561806 - Fax 0871446544 edizionitabulafati@yahoo.it]. Il commento critico è del poeta e scrittore, Prof. Giancarlo Giuliani, che “intervisterà” l'autore. Ilaria Federico leggerà alcuni componimenti poetici di «Spazio pubblico e desiderio». Brindisi finale con l’autore che donerà ai presenti un componimento inedito. 65121 Pescara - Via Teramo, 27 - Tel. e Fax 0852056090 – http://librerialibernauta.blogspot.it/ info@libernautalibri.it -
«Spazio pubblico e desiderio» è – in campo poetico - l’opera prima di Giovanni Dursi, nato a Lanciano cinquantasei anni fa, il quale, dopo trentacinque anni di migrazioni metropolitane, torna a vivere e lavorare nella sua terra abruzzese d’origine. «Spazio pubblico e desiderio» contiene componimenti poetici che indagano – tra il dolore avvertito ed il piacere ricercato nel quotidiano e nella storia - il “senso” ed i “sensi”, la “coscienza dell'esistenza” ed il “desiderio di cambiamento”, l'immaginario di massa ed il “simbolico trasformativo”. Ne risulta l’accettazione transeunte della propria identità poiché sottoposta a rigenerazione nel rapporto costante con gli “altri”. Ne risulta, ancora, l'oggettiva necessità d'una ricodifica della realtà umana, originando, tale nuova cifra esistenziale, da una lacerazione.
Per la Collana di poesia "A lume spento" delle Edizioni Tabula fati (Pescara www.edizionitabulafati.it) © Maggio 2013 si presenta la silloge densa di suggestioni "Spazio pubblico e desiderio" di Giovanni Dursi. L'evento avrà luogo presso la Libreria LIBERNAUTA di 65121 Pescara - Via Teramo, 27 - Tel. 085.2056090 - Fax 085.4415547 - info@ libernautalibri.it

[http://librerialibernauta.blogspot.it/] - Nota di presentazione di Pascal Iulianetti.
" È sempre la mente l’alcova dei pensieri espliciti, attoriali, ma anche di pensieri intimi, pregni di sapori.autentici, forse i più arditi, quelli che solo nella prosa poetica si possono descrivere e comunicare. Pensieri che osano danzare nell'immaginario, mai soggettivo, e nella danza svelano l'uomo, l'arcano di universi, non solo linguistici, relazionali, sociali, che ancora possono essere realizzati. Danzano sotto forma di parole, dapprima, per diventare, in seguito, respiro, pulsioni, azioni. Una vera e propria ricostruzione di senso. In un mondo umano cinico come il nostro, queste parole sembrano quasi fuori dall'epoca contemporanea, come se l'autore di “Spazio pubblico e desiderio” fosse riuscito ad "evitare" lo squallore che ci circonda guardandolo negli occhi. A tratti, le parole in uso nella silloge riescono a farci sognare, quindi vivere una vita altra, sono capaci, sollecitando l'onirico, di dormire senza morire (Amleto, Shakespeare), di distanziarci dall'attuale, ma, non per questo, di cadere in un improponibile romanticismo patetico. Piuttosto, s'avverte lo sforzo autentico che riesce ad inventare per sé e per gli altri un altro mondo.
Basta poco, girare l'angolo, all'improvviso. Guardare da un parte altra. Mettere a fuoco la visione con ulteriori tecniche e perizie. Come un umile artigiano, intento a fabbricare parole richieste, quando decide di generare l'inedito resoconto. Ne scaturisce una sorta di nuovo progetto esistenziale, prima ancora che letterario. Concepito da tempo, spesso accantonato, ma non rimosso, il disegno vitale matura, quindi, insopprimibilmente e s'annuncia presente, a volte sommessamente a volte impetuosamente, secondo le circostanze date dai rapporti umani, nei gesti e sguardi quotidianamente prodotti, utilizzati, consumati. Un nuovo definitivo inizio. Un gioco originale, una sfida tra parole preannunciate e quelle inventate.
Giovanni Dursi parla ancora di odori quando oggi l'omologazione olfattiva, anzi, l'insieme stesso della percezione sensoriale umana, è stato privato delle stesse sensazioni descritte. Riesce in un certo senso a far crescere fiori nell'asfalto, vede ancora, meglio, riesce a vedere ancora, spiagge deserte in un epoca che lascia poche speranze, concepisce e parla di desiderio, sente "caldo" e, sopratutto, ottiene di farlo sentire in un momento cosi freddo, cosi buio.
L'autore di “Spazio pubblico e desiderio” è una mente sedotta dalla nascosta e alienata armonia della vita, una mente che richiede di vivere in antitesi alla vita così come essa è comunemente narrata ed inghiottita da ciascuno, attimo dopo attimo, freneticamente ed in modo omologante. La seduzione porta al canto che è controcanto.
Questo controcanto origina dalla mente, calmo, lento, dai toni quasi lievi, ma passando dai sensi alla parola, se ne gusta – quasi preludio sensibile del bene inaccessibile (Filebo, Platone) - il già "dentro" di un'idea corporea (Fedro, Platone). Questo controcanto è tumulto del divenire trasformativo privo di suoni manieristicamente poetici, che non può essere semplicemente ascoltato eppure è un'ode, una creazione, una produzione dall'interno, un parto («tokos», Convito, Platone). Poesia, in fondo, è procreazione, per cui nessun particolare requisito si chiede, eccetto che sia generatrice ed inventrice. Gli aedi di regime sono avvertiti.
Leggendo la raccolta “Spazio pubblico e desiderio” un’eco muta avanza nei nostri pensieri di lettori abbagliati, talmente lenta e silenziosa da stordire cuore e mente, da rigenerare ritmi e indurre a cambiare strada, a fuoriuscire da spazi artefatti, da legami artificiali. Emulando, forse, i tempi della natura piuttosto che della storia umana, la bellezza del testo è compendiata davvero in ciò che piace all'autore che, in un improvviso assalto corpo a corpo, trasparentemente appare facendosi accogliere.
Il testo offerto all'attenzione delle curiosità umane, di per sé testimonianza preziosa di coraggiosi abbandoni di porti sicuri, è fuoco ch’arde nei meandri della memoria. L'opera è un ginepraio di parole dette nel tempo, apparentemente cristallizzate da comode e rassicuranti derive semantiche, che nelle pagine riemerge ora come veleno che ammala ed ammalia, ora come esortazione niente affatto retorica. Immergendosi convinti nella prosa poetica, il silenzio scoppia tra le dilatate grida dell'autore che giungono al lettore. Può accadere che forse in una notte esploda un dolore, allora che importa se muore il cuore e nel contempo il pianto cessa ? In quel momento, più nulla sia da piangere o con-piangere. È attesa, concreta illusione di pace, silente sospensione. Nulla, ora non siamo nulla, solo un corpo che s’illude di non aver ferite in campo di battaglia riportate. Questo è ciò che punge, più delle immagini che trasportano la sofferenza vissuta nelle terapeutiche parole.
Posta la dinamite, il boato annunciò la frammentazione della parola. Così la troviamo, slegata, volutamente nuova perché nuova è la pena che allontana l'autore da consueti suoi muti atteggiamenti di un tempo speso nel credere. Parole. Parole pensate, anelate emergono, echeggiano e vagano nella mente, transitano nello scritto; diventano pietre aguzze, schegge acuminate, spigoli taglienti, frantumi che feriscono. Preamboli di morte sotto un cielo senza voce. In quella fotografia incantata, la confessione biografica si raggela e diventa un grumo di sostanze. Veleno che corrompe la carne e frantuma sul nascere qualsiasi pensiero altro. Il desiderio – ora è detto chiaramente - è il persistente desiderare. Solo parole altre possono proteggere ed emancipare, parole chiare e limpide prive di rumore. Parole quasi sussurrate da un “noi” alla portata di tutti, ma che solo alcuni accettano. Parole accettate, accolte ed inviate a lenire mente e corpi. La parola che salva dalle parole, troppe, incessanti, che saturano. La parola innesca improvviso il fuoco, simbolo di elevazione e saggezza, che tutto arde, tutto sgretola, tutto scioglie e tutto rinnova, a partire dalle sofferenze primigenie, costitutive. L'inizio non può non essere lacerazione. Nel silenzio dei cauti passi di parole nuove si nasconde un ordito, una sottile trama che accoglie ogni pensiero, e prima ancora, ogni sussulto, che sia di ansia, di greve sincera ossessione o di libertà assoluta. È lì nella quiete senza oblio che prende forma la cifra dell'esistenza: un'identità recente, inaspettata, ricavata da un abisso di gesti inconsulti, di insensate speranze, di corteggiate follie, che si ripiegano tutte, mano a mano, in una sola direzione, nell'attonita danza delle parole alla fine trovate. Il silenzio – ci dichiara l'autore - è il nostro primo approdo alla vita activa, e sarà sempre il primo luogo dove covano le nostre risposte: come la notte che inghiotte ogni sospiro di bocche avide per consegnarci poi un dono sul far del mattino. Splendido ascoltare la voce del silenzio che dice !
Come le vigne rosse s’accendono d’ebbrezza e il  osto del desiderio si squarcia nei profumi d'autunno, travalicando labbra assetate, così l'autore intende dare peculiare espressione alla bellezza fondandola anacronisticamente sull'inseguita integritas, sulla smarrita proportio, sull'anelata claritas. In alcuni componimenti, tutti senza titoli, inutili recinti nati per confinare e racchiudere, si apprezza l'eros commisto alla generazione creativa (tokos) che danno vita all'entusiasmo lirico (manìa), mai da confondere con bucolica spensieratezza poiché la più funesta sorte del dolore è quando esso si trasforma in riso e commercio. A tal margine spesso altrove, non in questi testi, si giunge se vien meno la voglia di un riscatto o se si cede al sollazzo che compiace. Poco rimane tra le mani quando incombe cupo il curvo cristallo del cielo. Altro è, come l'autore sa fare, entrare come vino nella mente.
Cosa c’è nello sguardo rapito d’un figlio alla madre immediatamente dopo il lutto ? L’assenza ! In quei momenti la natura realizza la sutura e la scissione operata dalla mente si ricompone. Non predomina più il nous, il λόγος e l’animale-uomo primigenio torna intero. Pensiero, figlio, madre e, poi, padre, è un tutt’uno inscindibile. È amore infinito, un sudore condiviso, una sofferenza mai più avvertita come tale quand'anche ci si accorge che gli specchi, oltre che belli, son taglienti. È quella danza che si cheta nella vita desiderata che si realizza. Uno spazio pubblico degno dell'uomo che lo abita ottenendo la salvezza del dettaglio. Come Clinton Eastwood in tutte le recite filmiche, l'autore impara a soppesare non solo le parole, ma gli attimi, in tutti gli estetismi cercati con la coda dell'occhio, sopratutto dei silenzi, finalmente raggiungibili, generabili".
Gennaio 2013 Pascal Iulianetti
NOTA sull'autore - Perché i poeti nel tempo della povertà?” chiede Holderlin nel suo poema “Pane e vino”. E commentando questo verso, Heidegger dice: “Forse siamo nel momento in cui il mondo va verso la sua mezzanotte”.
La premessa del pensiero è la realtà. Ustionante e viva. Come l’emozione del parto. Cinquantacinque anni or sono. Il corpo accresciuto nella tenzone del precariato cognitivo con lo specchio della realtà. Ciò che colpisce sono i predatori che possano espandere la loro insensata ricchezza inghiottendo risorse materiali ed intellettuali e creare il vuoto, territori programmati per la quiete.
Si tratta di uscire dalla sfera dell’underground e proiettarsi verso l’alto. Si nasce nuovamente, nella semiosfera, per contendere il pensiero all’organizzazione di morte. Lo studio perpetuo delle filosofie, la loro tras-missione costante, proprio nei luoghi ove non arriva. Poi, quasi miracolo, la scrittura, tra la pianura padana ed il litorale adriatico. La scrittura, uno spazio vuoto restituito alla collettività, per evitare quel pieno di denaro che la rende lavoro astratto privo di significato. L’autonoma semioproduzione, unico tassello dell’antialienazione, resistenza e contrasto all’ignoranza ed alla trivialità. Rifiuto permanente, creatività vera.
L'aggressività d’una identità, così facendo, non è più voluta. La relazione tra linguaggio ed appartenenza è scossa. La disidentificazione avanza e si riattiva la sensibilità, il desiderio».
http://edizionitracce1981.blogspot.it/2013/03/giornata-mondiale-della-poesia-giovedi.html#more
http://www.edizionitabulafati.it/spaziopubblico.htm

domenica 28 aprile 2013

Dare altre risposte alla "morte sociale"

Abbiamo assistito a tanti episodi simili, causati dal massacro sociale in corso indotto dalla “crisi” del sistema capitalistico di produzione: persone che si suicidano. Lavoratori disoccupati, piccoli imprenditori senza “mercato”, pensionati logorati dalla povertà, studenti senza presente né futuro, in modo autolesionistico, mettono fine alla dolente esistenza, afferrati dal letale vortice dell'ingiustizia sociale, in preda al depauperamento materiale e relazionale. Si precipita nella condizione d'anomia nella società occidentale ove l'opulenza dei pochi è a discapito dei molti sfruttati, resi indigenti ed isolati nella vicenda tragica che piace definire “privato” e che, in realtà, rappresenta l'altra faccia della coatta socialità capitalistico-borghese. Quando anche oggi si compie il previsto rito autodistruttivo, impattando con i custodi in divisa del potere costituito, lambendolo, la ristrutturazione capitalistica arma la mano individuale del designato kamikaze, dando modo alla sovrastruttura politico-istituzionale di riprendere forza organizzativa nel rideterminare forme di dominio a difesa. Il dominio assume le sembianze del “nuovo Governo” pronto a recepire gli ordini provenienti da istanza superiore. Infatti, negli stessi istanti dei colpi di pistola esplosi ad altezza d'uomo per andare oltre, per colpire altri, i “politici”, e saldare il conto immolandosi, l'attore salito alla ribalta d'una narrazione cronachistica distorcente, è sovrastato dal diktat del gran regista dello spettacolo, il potente coacervo di imprese e finanza multinazionali che detta il copione agli Stati nazionali: migliorare il PIL e la “crescita” della produzione e del consumo garantendo la sostenibilità del debito pubblico. Come se nulla fosse accaduto nel secolo intercorso dal 1929.

martedì 2 aprile 2013

Per una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza parlamento

Il concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος (démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di “democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche) possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di uno Stato sedicente democratico. Il concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene – l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre, approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia” contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere – specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti. Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della “volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi, essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato. Nei paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo delle istituzioni statuali moderneche la “democrazia” contiene, è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento, quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale, dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della “democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione” (scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi, come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di schiavi. L'deale democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia “progressista” borghese e, nella sua apparizione negli ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento, unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e dell'eserzio del poetere, forzosamente traslando dalla “partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica dell'industrializzazione maturapropone, di fronte alle minacce rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il costituzionalismo borgehse gioca la carta della retorica democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di rappresentanza istitutzionale. È ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia" in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire "libere", "eguali", "democratiche", "universali" le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.» (brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23 dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919). Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia (l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque “soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e continua a procurare al proletariato. È nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza europea del “movimento dei Consigli”, identificabile sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della costruzione della base materiale del comunismo consentendo un corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato” è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi sistemiche della sconfitta storica del capitalismo. Per Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo. 2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti di "democrazia in generale" e di "dittatura in generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta. Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi, come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la "dittatura in generale", ma la dittatura della classe oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto, quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla "democrazia in generale", quando oggi si grida e si strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria» (brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol. 28, pagg. 461-462). Aprile 2013

sabato 9 marzo 2013

Tra Umstülpung, Umkehrung e Hybris – Nota di sconnessione dal dibattito M5S, Wu Ming, “Bifo” ed altri

Il termine – rovesciamento – appartiene al lessico filosofico hegeliano: indica il passaggio dall'idea all'esistenza. Nella marxiana Critica della filosofia hegeliana del diritto (1843), “rovesciamento” è denotato negativamente ed indica uno scambio tra reale e ideale. L'esempio del rapporto tra idea di Stato (come autodeterminazione della volontà) e monarca chiarisce la connotazione negativa; «in primo luogo – scrive Karl Marx – il rovesciamento del fine rappresentato in esistenza è qui immediato, magico. In secondo luogo, il soggetto è qui la pura autodeterminazione della volontà, il semplice concetto stesso; è l'essenza della volontà che è determinata come soggetto mistico; non è alcun volere reale; individuale, cosciente, è l'astrazione della volontà, che si rovescia in esserci naturale, è l'idea pura che s'incarna in un individuo». In direzione feuerbachiana, Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, sottolinea come il “rovesciamento” soggetto-predicato rappresenti il centro teorico della dialettica hegeliana. In essa il soggetto concreto, rappresentato dall'uomo e dalla natura reale, diviene il semplice predicato (un'attribuzione oggettuale) del vero soggetto astratto. Quest'ultimo si svela al termine del processo dialettico, dopo aver negato come alienato, cioè come predicato esteriore, il soggetto reale (l'uomo e la natura). «Il soggetto e il predicato si trovano quindi fra loro nel rapporto di un rovesciamento assoluto, mistico soggetto-oggetto o soggettività prevaricante l'oggetto». Il rovesciamento soggetto-predicato conferma quindi, secondo Marx, l'omogeneità della filosofia di Hegel all'alienazione dell'uomo reale. Viene scambiato il “concreto” con l'”astratto”: l'allontanamento dell'uomo dalla natura e viceversa viene concettualmente oggettivato nella negatività del loro ruolo in quanto esteriori rispetto ad un principio assoluto. Sarà la loro negazione (negazione della negazione) a sopprimere l'alienazione. Il tema del “rovesciamento”, solo assimilandosi al tema teorico-politico della dialettica materialistica, può esprimere il significato autentico. Infatti, nel poscritto alla seconda edizione del Capitale, Marx rivendica la necessità di operare un rovesciamento della dialettica hegeliana per liberarla dalla sua religiosità di fondo: «La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel … » di mostra che essa è capovolta; pertanto, «bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico». La legge economica, interna alla storia umana, inesorabile o meno, non può essere soppressa, né sottovalutata. Se una forza predomina sulle altre, nasce una “crisi” che ha una funzione positiva in sé perché può portare a quell'equilibrio esigibile ed attuabile solo fuoriuscendo dalla precedente contraddizione insita nella formazione economico-sociale generatrice della “crisi”. Non esistono “mani invisibili”, tanto meno “eccessi sostenibili”; esistono contraddizioni. Non considerare Hybris, figura divina che incarna la violenza, qualsiasi pratica che ecceda rispetto all'equilibrio voluto da Zeus e ritenuto da tanti inevitabile condizione umana retta da Dike, significa trascurare la natura ontologica della “crisi” attardandosi ad osservare il deretano di chi sembra correre più veloce divertendosi a commentarne le movenze. Non sono gli scandali a far crollare le istituzioni, lo Stato capitalistico-borghese, altrettanto esiziale la presunta “eticoterapia” somministrata, alle stesse Istituzioni, da una pattuglia di “rappresentanti del popolo” che hanno invaso le trincee ormai sguarnite del potere dedito al laido conservatorismo. Il sentimento irreversibile antipartito non ha nelle sue previsioni il rinnovamento, quella rifondazione necessaria della società capace di destrutturarne la contraddizione principale, non codifica la novitas, unica ed indispensabile, della rivoluzione politica, non sa parlare della prospettiva. Trattasi di un inedito capitolo d'una favola archetipa, d'una narrazione che esprime con linguaggio rinnovato un vecchio copione.