venerdì 21 maggio 2010

Questo governo deve cadere, questo stato non è il nostro


“Conti pubblici: il Governo taglia i redditi e accelera sullo smantellamento del welfare, inducendo sacrifici ulteriori ai dipendenti pubblici e pensionati”. Nel frattempo, altri due soldati italiani uccisi da un ordigno in Afghanistan. Questo, in sintesi, il quadro della situazione sociale e politica non solo italiana. Dalla turbolenta coazione della Grecia (debito del 115%), con le finanze pubbliche in evidente squilibrio riguardanti anche Portogallo (imposta straordinaria “anticrisi”) ed Irlanda (“risparmio” sui costi del welfare), alle direttive della Bce che determina i flussi di credito, alle manovre spagnole (tagli delle spese correnti e di assunzioni), inglesi ed italiane di riduzione del deficit che perferzionano il massacro sociale già in corso (disoccupazione, precarietà/flessibilità, tasse regionali) indistintamente lesivo delle condizioni materiali di vita dei circa 500 milioni cittadini europei. In sostanza, il “debito privato” della cosiddetta eurozona viene gestito dai Governi dell’UE come prioritaria questione del bilancio pubblico essendo l’architettura istituzionale europea tutt’uno con l’ortodossia monetaria ed organizzativo-aziendale delle forme sociali di vita. La dialettica Stato / Impresa trova in queste ore la sua storica riattualizzazione. Come non si può prescindere da questi determinati processi politici, così non si può evitare di considerare il conflitto sociale l’unico ambito ove disegnare un credibile orizzonte di giustizia sociale e poltica. Il paradigma del “potere dell’opinione pubblica” e del ruolo attivo della “società civile” non è utile per l’adeguata “lettura” della contraddizione, anzi consolida l’avviato processo di “medianizzazione” delle lotte sociali che autorizza redivive leadership totalitarie e/o democraticiste a “gestire” politico-sindacalmente il dissenso antistatuale, anestetizzandone il potenziale antagonistico ed antisistema. La difficoltà a riconoscere il conflitto, come unico terreno praticabile, poiché causa del “disordine” e manifestazione del “diritto di resistenza” all’incedre della “crisi”, sembra generare un’ossessiva ricerca di formule programmatiche e d’organizzazione dell’antagonismo che sia però compatibile con l’ordine costituito, quasi che livelli differenziati e contrapposti del “principio di legalità”, quasi che la “democrazia diretta” e la dualità degli interessi in gioco non siano una chiave di lettura efficace. Ed ecco il candidarsi di figure ecumeniche, in alcuni casi retoricamente in arnese, che non si avvedono (o non intendono prendere atto) di quella macchina performativa che sorregge uno spazio politico-giudiziario pubblico ove la dimensione dell’eccezione (la “crisi”) è già dentro l’ordinamento a difesa degli interessi “forti” del capitale; figure ecumeniche che non si accorgono o non deisiderano “vedere” che meccanismi derogatori e di correzione unilaterale della “democrazia” sono già attivi; figure ecumeniche “inconsapevoli” del fatto che, modificato il “senso” della giurisdizione, la “democrazia reale” ci consegna ad uno “stato di guerra”. Le moltitudini in rivolta, ferite nel corpo, sono sospinte da “grandi narrazioni” liberal-progressiste veicolate videocraticamente verso una “liquida” contemporaneità caratterizzata da astrazione/alienazione degli individui, dalla “scomparsa” del lavoro, dalla invisibilità della “questione sociale”. Ciò che compete all’insubordinazione sociale è – viceversa – l’autonomia collettiva politico-organizzativa contro le logiche del “feudalesimo funzionale” proprie dello Stato. Perché ricercare vanamente tutele statali, quando è possibile ricomporre il disomogeneo praticando la lotta di classe, come nel secondo dopoguerra, operando al di fuori della legislazione vigente, costruendo orizzontalità piuttosto che solidarismo interclassista, frutto deteriore del pragmatismo amministrativo del “ceto politico” dominante che mai potrà accordare autonomia alla dimensione organizzativa collettiva, atto lesivo della “pace sociale” ed irreversibile riconoscimento del ruolo politico devastante del conflitto.

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