mercoledì 12 ottobre 2022

LA GUERRA e IL DOLORE

Guerra. L’alacre “officina della guerra” non va ridotta a fenomeno collettivo che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi sociali contrapposti organizzati per ottenere la supremazia. Certo, è presente anche questo aspetto che autorizza i poco accorti a distinguere i contendenti in “aggressori” e in “aggrediti”.

In realtà, le trasformazioni cui è stata soggetta la guerra tradizionale nel XX secolo portano a un profondo ripensamento di tutte le categorie con le quali tradizionalmente gli studiosi delle varie discipline hanno affrontato i temi della guerra, delle sue cause, della sua legittimità, del suo contesto, del suo rapporto con la politica e dei possibili modi per costruire la pace attraverso il diritto internazionale e gli organismi sovranazionali esplicitamente preposti.

La guerra nello scenario internazionale ha avuto le sue più significative espressioni negli innumerevoli conflitti tra Stati che hanno costellato l’età moderna e contemporanea e sono culminate nelle deflagrazioni mondiali del Novecento (1914-1918 e 1939-1945). Strettamente legata alla vicenda dello Stato moderno, questa forma di guerra ha conosciuto imponenti mutamenti nel corso dei secoli, i quali in ultima analisi hanno trasformato le ‘guerre limitate’ dell’età moderna nelle ‘guerre assolute’ o ‘totali’ dell’età contemporanea, in cui si è fatto un uso di armi sempre più sofisticate e distruttive, hanno combattuto eserciti di popolo e non più solo o prevalentemente di professionisti, nel quadro di un crescente coinvolgimento dei civili nell’evento bellico; in cui, infine, le logiche tradizionali della politica di potenza si sono sposate con le retoriche di massa della nazione e dello Stato nazionale, del nazionalismo e dell’imperialismo oggettivamente espansionistico e bellicista di matrice capitalista, a tal punto da gradatamente superare il ruolo politico nelle decisioni strategiche degli Stati e dei Governi; essi, fagocitati, le lasciano, inerenti alla dialettica guerra-pace, direttamente nelle mani dei soggetti economici multinazionali, considerando anche che le ‘guerre assolute’ hanno avuto il proprio archetipo nelle guerre napoleoniche e la loro più compiuta manifestazione nelle due guerre mondiali.

Per comprendere appieno la mutata fisionomia del bellicismo novecentesco, si ribadisce l’invito all’utile lettura de “L'officina della guerra - La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale” di Antonio Gibelli (Bollati Boringhieri, 2007), dove l’inestricabile intreccio economia-tecnica-società-condizione umana viene descritto con estrema chiarezza e competenza storiografica. Come viene presentata l’opera, «indagare sul processo di adattamento di milioni di uomini alla realtà della Grande Guerra - una guerra smisurata, radicalmente nuova, la prima guerra tecnologica di massa - è l'obiettivo che si pone l'autore per capire il primo conflitto mondiale e i mutamenti che segnarono l'avvento della modernità. Il libro non si occupa dell'"esperienza di guerra" in senso circoscritto. Ciò di cui milioni di uomini fecero simultaneamente esperienza tra il 1914 e il 1918 non era solo la guerra, ma il mondo moderno: un mondo pienamente pervaso dall'industrialismo e dai principi di efficienza e standardizzazione, in cui lo Stato si insediava capillarmente nella vita privata e nell'interiorità di ciascuno mobilitando sentimenti, immagini, nuove forme di comunicazione. Un mondo in cui si affermavano la scrittura e la fotografia, il grammofono e il cinema. L'esperienza della guerra è perciò vista in stretto contrappunto con quella del lavoro: il lavoro della guerra era una nuova manifestazione delle condizioni del lavoro nella società industriale. Strumenti essenziali per quest'analisi sono le testimonianze scritte (epistolari, diaristiche, memorialistiche) dei fanti e accanto a esse, intrecciate con la memorialistica colta, le testimonianze di medici, psichiatri, psicologi che permettono non solo di esplorare il versante traumatico del conflitto, ma di penetrare nella loro soggettività e di delineare i contorni di quel "mondo nuovo"».

Negare l’integrazione delle dimensioni (economica e politico-militare) intervenienti a configurare la “logica della guerra” è un modo più o meno consapevole di ideologizzare i conflitti, non interpretarli per quel che sono, di banalizzare le sofferenze e di proiettare i propri frustranti  fantasmi su un nemico rimuovendo gli altri, determinanti nemici, auspicando la personale salvezza, quella sorta di dostoevskijana salvezza oltre ogni intendimento; qui, l’intendimento è l’onesto riconoscere che l’unica peculiarità delle guerre attuali è che esse si spiegano a partire dalle convulsioni immanenti al mercato capitalista globale, essendo egemone il modo di produzione e riproduzione capitalista, portatore unico di interessi  economici nella strutturazione delle relazioni internazionali, fino alla capitolazione degli stessi singoli competitori, in questo singolare acquario planetario ove si rischia di morire per decadimento radioattivo.

In effetti, dopo il secondo conflitto mondiale si è aperta una nuova fase nella storia della guerra con l’avvento della contrapposizione tra Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e tra i loro rispettivi blocchi. Le prospettive della guerra si sono sganciate dall’orizzonte tradizionale dello Stato-nazione per svilupparsi in una dimensione sovranazionale o transnazionale, caratterizzata dal confronto-scontro tra due sistemi di alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) cementati dalle due ideologie del capitalismo liberaldemocratico e del comunismo “realizzato”. Questo confronto-scontro ha dato luogo a un’inedita condizione intermedia tra la pace e la guerra definita, in relazione all’età del bipolarismo (1945-91), come guerra fredda. A questo esito ha contribuito in modo paradossale l’avvento dell’era nucleare. Con la creazione di giganteschi arsenali di armi atomiche e poi termonucleari in grado di annientare in pochi minuti la gran parte del genere umano, senza distinzione tra vincitori e vinti, USA e URSS hanno infatti finito per rendere impensabile la possibilità stessa di una guerra generale e per impostare la propria coesistenza su un ‘equilibrio del terrore’. Venendo meno questo tipo di “bilanciamento”, la supremazia mondiale del capitalismo U.S.A. e la subordinazione ad esso dei tanti vassalli, ha fatto si che la voracità e la natura selvaggia, immodficata nei secoli nonostante involucri pseudodemocratici che hanno inteso dissimulare, “costringere” le insite contraddizioni sistemiche, del meccanismo di estrazione di profitti sia l’unica matrice nel XXI delle evenienze storico-sociali a tal punto da alimentare la distruzione di ulteriori suoi interpreti o da non permettere leadership mondiali alternative al comando capitalistico “occidentale”.

Dolore. Il dolore di un popolo, inteso nella sua eventuale identità  collettiva, non può essere descritto. Il dolore, in questa interminabile epoca condizionata dai rapporti economico-sociali improntati dal modo di produzione e riproduzione capitalista, è eminentemente individuale per quanto possa “riconoscersi” per intensità lacerante, annichilente a quello dei propri simili. Il dolore non è intercambiabile, standardizzabile, è intimo, ineguagliabile, di impatto irreversibile sul quotidiano di miliardi di persone. Non è dunque equiparabile, tantomeno esclusivo di questa o quest’altra etnia, soprattutto quando ci si riferisce a quelle tremende sofferenze indotte dalle guerre. L’intelligenza e l’etica dell’osservatore risiedono, dunque, non nel parteggiare, bensì nell’immedesimarsi ed accettare che, date certe condizioni estreme di coscienza, anche dare la morte procura dolore.

“Il dolore è un'esperienza forzata e violenta dei limiti della condizione umana. È una figura aliena e divorante che non lascia requie con la sua incessante tortura. Paralizza l'attività del pensiero e l'esercizio detta vita. Pesa sul gioco del desiderio, sul legame sociale. Altera il senso della durata e colonizza i fatti più importanti della giornata, trasformando la persona in uno spettatore distaccato che fa fatica a interessarsi all'essenziale. Il dolore isola, costringe l'individuo a una relazione privilegiata con la propria pena. Al tempo stesso, è una minaccia temibile per il senso d'identità: lacera la coscienza e schiaccia l'uomo su un senso dell'immediato privo di prospettiva, dandogli l'impressione che il suo corpo sia altro da sé. Incomunicabile, il dolore suscita il grido, il lamento, il pianto o il silenzio, tutti fallimenti della parola e del pensiero. Ma il dolore può anche essere mezzo di espiazione o manifestazione di fede - come nella tradizione religiosa cristiana - o strumento di affermazione identitaria o sociale, ad esempio quando inscrive nella carne la memoria di una filiazione e di una fedeltà alla comunità, come accade agli iniziati di una società tradizionale. Ci sono poi usi del dolore che si alimentano della disparità delle forze tra gli individui: la correzione, la punizione personale, la tortura, il supplizio. L'arte di far soffrire l'altro per umiliarlo o annichilirlo è inesauribile. Il dolore inflitto ne è lo strumento privilegiato, archetipo stesso del potere sull'altro. Il proposito [dell’analisi del dolore] è di approcciare il dolore su un piano antropologico, di chiedersi come influisca sulla condotta dell'uomo e sui suoi valori, sulla trama sociale e culturale in cui è immerso. Tutto ciò, però, senza dimenticare che se l'uomo è una conseguenza delle sue condizioni sociali e culturali, è anche il creatore instancabile dei significati con cui vive” (Fonte:  David Le Breton, “Antropologia del dolore”, 2016).

Aspettiamo che i sostenitori zelens'kyjani entrino in un ottica di rispetto delle vittime del capitalismo, del dolore forzato, causato dal napalm, dai bombardamenti “convenzionali” e dal vigente ed esclusivo sistema di sfruttamento.