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martedì 25 ottobre 2016

N O perchè ...

No perché gli interessi in gioco - territorialmente, economicamente e socialmente vasti - sono "gestiti", paradossalmente, da entrambi gli schieramenti referendari, ridefinendoli in termini di interessi politicamente ristretti. Basta sapere come si è giunti - parlamentarmente - a questo Referendum confermativo  e da chi è sponsorizzato. Ecco perché va riletto il libro "Senza tregua - La guerra dei GAP" di Giovanni Pesce.

Prefazione [kb 8 HTML]
Capitolo Primo Alla macchia [kb 33 HTML]
Capitolo Secondo Nelle Brigate Internazionali [kb 30 HTML]
Capiitolo terzo Come nasce una bomba [kb 44 HTML]
Capitolo Quarto Quanto vale un gappista? [kb 47 HTML]
Capitolo Quinto All'assalto di Torino [kb 42 HTML]
Capitolo Sesto Morte e trasfigurazione [kb 83 HTML]
Capitolo Settimo
Addio Torino [kb 34 HTML]
Capitolo Ottavo Milano[kb 34 HTML]
Capitolo Nono La battaglia dei binari [kb 44 HTML]
Capitolo Decimo Spie, carnefici e giustizieri [kb 32 HTML]
Capitolo Undicesimo Un elemento sicuro [kb 44 HTML]
Capitolo Dodicesimo Valle Olona [kb 40 HTML]
Capitolo Tredicesimo Reazioni a catena [kb 52 HTML]
Capitolo Quattordicesimo A ritmo serrato [kb 60 HTML]
Libro intero [kb 267 ZIP]

Nella Gazzetta Ufficiale del 15 Aprile 2016 è stato pubblicato il testo della Legge costituzionale approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti. La riforma dispone, in particolare, il superamento dell'attuale sistema di bicameralismo paritario, riformando il Senato che diviene organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali; contestualmente, sono oggetto di revisione la disciplina del procedimento legislativo e le previsioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle competenze dello Stato e delle Regioni. E' altresì disposta la soppressione del CNEL. 
A seguito della presentazione di richieste di sottoposizione della legge a referendum costituzionale, ai sensi dell'art. 138 della Costituzione, l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione ha dichiarato la legittimità del seguente quesito referendario: «Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Il 4 Dicembre 2016 si svolgerà il referendum popolare confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione sulla suddetta legge costituzionale.
* * * * *
Resistenza e Costituzione.

di Alberto Berti

Questo è un discorso che voglio fare soprattutto ai giovani amici di Recsando sapendo che nelle nostre scuole certi problemi che dovrebbero contribuire alla loro formazione di cittadini di una repubblica democratica raramente vengono affrontati e se affrontati lo vengono con estrema superficialità dando loro scarsissima importanza.

Credo che pochissimi conoscano la nostra Carta Costituzionale e che ancora meno siano coloro che si rendono conto di vivere in un paese che ha una delle costituzioni più avanzate fra quelle esistenti.

In Austria, in Svezia, negli Stati Uniti, già in quelle che sono le ultime classi delle scuole elementari, i maestri cominciano a spiegare la Costituzione che regola i rapporti fra i cittadini ed i poteri dello stato in cui vivono. Negli Stati Uniti i ragazzi vengono educati a conoscere anche gli “emendamenti” della loro Costituzione e richiamarsi ad essi.

In Italia, fra qualche settimana, il 22 dicembre festeggeremo (?) i cinquant’anni dell’approvazione a grandissima maggioranza della Costituzione avvenuta nel lontano 22 dicembre 1947 da parte dell’Assemblea Costituente eletta dal popolo italiano il 2 giugno 1946 assieme al referendum che spazzava via la monarchia savoiarda.

L’approvazione della Costituzione ha segnato una svolta fondamentale nella storia del nostro paese, non soltanto per i principi che essa ha posto alla base dell’ordinamento della società italiana, ma anche per le garanzie di cui li ha rivestiti e che hanno il loro perno nella qualificazione della Costituzione stessa come Costituzione rigida.

Cosa vuol dire Costituzione rigida? Vuol dire semplicemente che i “princìpi” in essa enunciati non sono modificabili con procedure legislative ordinarie e, dall’altro lato, che le leggi che sono incompatibili con quei principi non hanno alcuna validità. Sono da ritenersi nulle. Anzi, la dottrina costituzionalista e la giurisprudenza della Corte Costituzionale (anch’essa introdotta nel nostro paese per la prima volta con la Costituzione) hanno messo in luce la regola secondo la quale esiste un nucleo di “principi supremi” che non sono suscettibili di modificazione neppure attraverso i procedimenti di revisione che la Costituzione stessa prevede. Infatti in questi ultimi tempi si è parlato molto di revisione della Costituzione, da parte della Commissione bicamerale appositamente designata, ma se fate caso, leggendo i giornali, vedrete che essa si è occupata dell’ordinamento dello Stato, sul sistema delle elezioni di deputati e senatori, sui compiti attribuiti alle due Camere, sull’elezione del Presidente della Repubblica, sulle funzioni pubbliche attribuite a comuni, provincie, Regioni e Stato, eccetera, quindi la commissione è intervenuta sulla seconda parte della Costituzione e non sulla prima che enunciava i principi fondamentali del nostro vivere civile.

Sarebbe opportuno, senza che io li ripeta qui di seguito, che i miei giovani lettori leggessero i primi articoli della costituzione in modo da poter percepire e comprendere, la portata pratica dell’affermazione dei valori della libertà, dell’eguaglianza e della democrazia. Il catalogo delle libertà che la Costituzione enuncia, comprende, insieme con i classici diritti civili e politici, un complesso di diritti economici e sociali i quali concorrono a qualificare la forma di Stato, oltre che come forma di stato di diritto, anche come stato sociale.

Queste enunciazioni sviluppano, in particolare, i due princìpi, certamente “supremi” che troviamo scritti negli articoli 2 e 3, che fondano la libertà umana e l’esigenza di promuovere in ogni modo possibile l’eliminazione delle discriminazioni - sia di diritto che di fatto - che ostacolano la realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini.

Adesso, care sandonaute e sandonauti, occorrerebbe stabilire come la Costituzione italiana sia nata e perché. Ed allora bisogna riandare a quel meraviglioso fenomeno popolare che è stata la Resistenza.

Per dare un significato politico, per stabilire un collegamento tra Resistenza e Costituzione, penso che sia necessario iniziare ricordando il discorso di Piero Calamandrei ai giovani milanesi tenuto nel 1955 che si concluse con la forte immagine secondo la quale la Costituzione veniva presentata come un “testamento”: il testamento dei caduti della Resistenza.

Calamandrei con il suo mirabile discorso voleva tenere viva l’attenzione dei giovani sui valori che la Costituzione aveva codificato e che le vicende politiche successive rischiavano in qualche modo di appannare.

A più di cinquant’anni di distanza mi sembra necessario accentuare non tanto il fatto militare, quanto il forte spessore politico che danno valore alla Resistenza e alla guerra di liberazione.

Se ci volessimo limitare a ricordare la Resistenza come un solo fatto militare saremmo oggi ridotti a celebrarla come vecchi compagni d’armi che si ritrovano, consumano assieme il rancio, ascoltano qualche ricordo, si salutano augurandosi di ritrovarsi l’anno successivo.

Se la guerra di liberazione e la lotta partigiana consistessero soltanto in un evento di carattere militare, terminata la guerra, il 25 aprile 1945, si sarebbe potuto dire missione compiuta, non ne parliamo più. Invece bisogna parlarne, perché la lotta di liberazione del nostro paese non è stata soltanto un fatto di carattere militare, è stata un fatto politico, nel senso nobile della parola, e non partitico: cioè nell’interesse della collettività, del bene collettivo. Infatti nei territori occupati dai nazisti, diciamocelo francamente, l’unica vera forma di rappresentanza dell’Italia era data dai partigiani e da coloro che combattevano per la Libertà.

L’esercito non esisteva più, si era liquefatto come neve al sole, il paese era in mano ai nazisti oppressori e chi veramente rappresentava il paese erano i partigiani, i comitati di liberazione nazionale tant’è vero che furono costituite delle repubbliche partigiane Carnia, Montefiorino, Val d’Ossola, dove i loro governi provvisori emanarono addirittura delle leggi.

Durante quei governi ci fu una distinzione tra giurisdizione civile e quella penale; ci fu una distinzione tra reati comuni e reati politici; ci fu una polizia alle dirette dipendenze della magistratura: tutte cose che hanno servito a quello che si doveva costruire nel nostro paese. E' da ricordare che la costruzione politica derivante dalla Resistenza è stata difficilissima fin dal tempo della Resistenza stessa, perché i partigiani non avevano alle spalle quello che avevano gli altri resistenti e combattenti in Europa. I grandi avvenimenti, come la rivoluzione russa, hanno avuto dei precedenti di carattere culturale e filosofico. Per la rivoluzione francese abbiamo avuto tutto il periodo dell’illuminismo, per la rivoluzione russa abbiamo avuto tutto il marxismo, le sue implicazioni, le culture diverse intorno al marxismo, le discussioni. In Italia dietro le spalle non c’era nulla.


Ci fu chi battezzò la Resistenza come il nostro Secondo Risorgimento. Non sono d’accordo con quel grande storico che fu Luigi Salvatorelli. Anzitutto perché al Risorgimento partecipò, anzi lo portò alla vittoria la monarchia sabauda che non parteciperà alla Resistenza. Il Re che aveva già tradito lo statuto albertino, che non seppe ripudiare il fascismo, che non si tirò indietro né davanti alle leggi razziali ne alla dichiarazione di guerra, di fronte al movimento di Resistenza rimase freddo ed assente ed i motivi li conosciamo sin troppo bene. Pensava di rifarsi una verginità e di far dimenticare le sue malefatte avallando la dichiarazione di guerra alla Germania nazista presentatagli da Badoglio nell’ottobre del 1943.

La differenza tra Risorgimento e Resistenza è notevole: i due movimenti sono paragonabili su un solo piano, quello di liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Per il resto, idee, contenuti, esercito, lotte, partecipazione, ecc. sono diversissimi.

Il Risorgimento discende direttamente dalle idee della rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche che fanno balenare nelle menti più aperte degli italiani la possibilità e la necessità di riunire dopo tanti secoli l’Italia in un solo Stato. Quelli che sentono questa necessità e si prodigano per propagandarla costituiscono un'élite minoritaria rispetto al resto della popolazione. Si tratta di nobili, intellettuali, professionisti e studenti. La classe operaia e quella contadina non sentono e da quei problemi non vengono affascinate. Anzi, per quel poco che sanno, li odiano. Per loro l’unità d’Italia significa guerra, carneficine, lutti e miserie di cui loro, contadini ed operai sono costretti a portarne il peso. Infatti essi costituiscono la cosiddetta carne da cannone, quella che deve sacrificarsi sui campi di battaglia. Da ciò deriva il loro odio per i Bandi di mobilitazione generale, le cartoline precetto di richiamo alle armi ed in una parola di tutto ciò che ha attinenza con la guerra.

La Resistenza è una cosa diversa: non esistono né Bandi di mobilitazione, né cartoline precetto. Si va in montagna liberamente, spinti da ideali diversissimi, quando addirittura non saranno i Bandi della repubblica di Salò a costringere i giovani ad una scelta decisiva.

Ci si ritrova in montagna giovani e vecchi, operai e contadini, uomini e donne, comunisti, socialisti, GL, monarchici e persino i cattolici che durante il Risorgimento erano stati col cuore dalla parte del Papato. Per la prima volta nella storia d’Italia contadini ed operai partecipano attivamente alla costruzione del loro futuro e non lo subiscono. Troviamo formazioni partigiane costituite quasi completamente da contadini, come nel cuneese, oppure da operai dei cantieri navali nella Venezia Giulia.

Le donne s’impegnano in tutte le forme possibili: reperimento di viveri in pianura per portarli con le gerle in montagna, cucendo indumenti per il parente o l’amico partigiano, facendo la staffetta da una formazione all’altra, portando ordini e notizie sia dalla pianura che dalla città. Come sarebbe stata possibile altrimenti una Resistenza senza l’aiuto delle donne?

La Resistenza fu infatti, come la definì Salvemini, una guerra di popolo, né più, né meno di quello che aveva dichiarato Parri ai primi di novembre del 1943, quando con Valiani attraversò il confine svizzero per incontrarsi con i delegati angloamericani i quali dal movimento partigiano si aspettavano solo sabotaggi ed informazioni e rimasero strabiliati quando egli affermò ripetutamente che puntava su una guerra del popolo italiano, condotta da una esercito del popolo: i partigiani. A quel tempo i partigiani che erano saliti in montagna ammontavano si e no a qualche migliaio.

Alcuni fatti mi sembrano importanti da chiarire in quanto di solito vengono dimenticati o sottovalutati. Man mano che la lotta partigiana aumentava d’intensità nei territori occupati dai tedeschi essa si conquistò l’ammirazione ed il rispetto dei comandi alleati, specie dopo l’insurrezione di Firenze che pose fine alla lotta sanguinosissima combattuta in Toscana. Nello stesso mese di agosto del 1944 la brigata Rosselli, comandata da Nuto Revelli, impedì per alcuni giorni nella battaglia della Val Stura alla 90° divisione corazzata tedesca di accorrere da Acqui, dove si trovava, a Tolone, valicando il passo della Maddalena, per bloccare lo sbarco angloamericano avvenuto tra Nizza e Marsiglia. Nello stesso tempo i garibaldini di Arrigo Boldrini con i mazziniani di Biasini e Libero Gualtieri combattevano contro i tedeschi sulla linea gotica.

La guerra di liberazione nazionale fu senza alcun dubbio una lotta armata contro l’invasore nazista e contro il fascismo nostrano messosi al suo servizio, ma fu anche una lotta politica che cominciò al Sud nel territorio già liberato dagli angloamericani i quali tardavano a ripristinare le libertà democratiche. In ciò vi era senza alcun dubbio l’interesse di Churchill che voleva difendere la monarchia sabauda e che la riteneva un possibile futuro baluardo contro una eventuale minaccia comunista.

Il congresso del partito d’azione tenutosi a Bari nel gennaio del 1944, che si espresse in modi durissimi all’unanimità contro la monarchia sabauda aveva profondamente turbato Churchill che neanche l’arrivo di Togliatti dalla Russia nel successivo marzo e la conseguente “svolta di Salerno” riuscirà a tranquillizzare.

Il fatto politico più importante fu senza dubbio la creazione dei CLN, i Comitati di Liberazione Nazionale, che consentirono di dare alla Resistenza italiana un unico indirizzo politico, un unico comando generale della lotta partigiana e s’imposero, con loro unitarietà, sia di fronte alle forze partigiane che li riconobbero come loro emanazione, ma anche rispetto alle autorità militari angloamericane.

I CLN che discendevano a grappolo dal centro, Milano, sino al più sperduto paese dove si lottava per la libertà, vennero riconosciuti dagli alleati, ma l’azione politica più importante si svolse a Roma.

Qualche giorno prima della liberazione di Roma, il CLN centrale chiese in forma ultimativa le dimissioni del generale Badoglio da presidente del consiglio, di dare pieni poteri legislativi al governo che si sarebbe formato, di esentare i ministri dal giuramento di fedeltà al Re e di farli giurare invece nell’interesse supremo della nazione e stabilire con un decreto legge che al termine della guerra il popolo italiano avrebbe potuto scegliere la forma statuale che più gli aggradava: monarchia o repubblica.

Liberata Roma, Badoglio fu costretto a dimettersi ed il suo successore, Bonomi, ex presidente del CLN romano, si fece dare pieni poteri legislativi e sulla base degli stessi emanò il 25 giugno 1944 il decreto che stabiliva sia l’elezione di una Assemblea Costituente che la scelta istituzionale, a guerra conclusa, tra Monarchia e Repubblica. Calamandrei commentò:” siamo usciti dalla legalità statutaria e siamo entrati nella legalità precostituente.”

A fine estate, sbalordito dell’opera delle brigate partigiane e dei CLN, il toscano in particolare e dell’importanza assunta dal movimento partigiano che era riuscito a creare tre zone libere ed aveva bloccato una intera divisione corazzata che si stava precipitando a dare manforte alle guarnigioni tedesche che tentavano di impedire lo sbarco, il Comando delle truppe alleate, chiese un incontro con il CLN alta Italia (CLNAI). La delegazione del CLNAI (formata da Parri, Pizzoni, Paietta e Sogno) che si recò a Roma già da mesi liberata, ebbe dagli incaricati del generale Wilson e del Maresciallo Alexander il riconoscimento del diritto di condurre la lotta partigiana, che costituiva un invito alle popolazioni di sostenere il movimento partigiano e fu anche firmato un protocollo di accordo col quale le autorità militari alleate s’impegnavano ad avallare le nomine dei responsabili amministrativi (Prefetti, sindaci, questori, provveditori agli studi,ecc.) effettuate dai CLN.

Il successo della missione romana degli esponenti della Resistenza nel Nord, ancora occupato dai nazisti fu completato dalla promessa Alleata di intensificare i lanci paracadutati di armi ed aiuti di vario genere alle formazioni partigiane.

Il tutto venne raccolto in un protocollo firmato da entrambe le parti. L’importanza politica di questo protocollo è notevolissima: eccetto che nel caso della Jugoslavia, gli alleati avevano sempre trattato con i governi in esilio delle varie nazioni occupate dai tedeschi. In questo caso invece trattavano e firmavano documenti direttamente col movimento partigiano operante nella zona occupata dai nazisti ed ebbe sentore di quelli che erano i motivi ed i programmi del movimento partigiano.

Udirono Parri dichiarare senza mezzi termini che si combatteva per costituire una repubblica democratica che bandisse in quella che sarebbe stata la sua nuova carta costituzionale ogni tipo di guerra di aggressione, che non ci sarebbero più state in Italia discriminazioni dovute a razza, fede religiosa od altro, che l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi dello stato non avrebbe avuto limitazioni, eccetera; tutte cose che noi poi troveremo scritte tra i principi della nostra costituzione.

Altro aspetto politico importante della Resistenza italiana fu l’organizzazione degli scioperi dei primi di marzo 1944 che bloccarono l’attività di moltissime fabbriche e di intere città. A Milano si fermarono i tram, lo sciopero bloccò anche Il Corriere della Sera. Non era possibile per i nazifascisti nascondere la gravità che da tali scioperi emergeva. Inoltre fu attraverso l’attività dei propagandisti politici nelle fabbriche, negli uffici e dappertutto che in molti cittadini, sino a quel momento disinteressati, si manifestò il desiderio e la necessità di seguire attentamente le vicissitudini della politica.

Le fucilazioni e le deportazioni di scioperanti, operate dai nazisti, i manifesti affissi nelle strade che annunciavano condanne a morte ottennero solo lo scopo di fare odiare ancor di più dalle popolazioni fascisti e nazisti.

Un altro aspetto che non bisogna dimenticare è l’apporto di idee e programmi che la Resistenza ha elaborato e consegnato ai futuri reggitori della politica nazionale. E da quelle idee e da quei programmi che sono usciti i valori, i principi che sono alla base delle nostra Costituzione che il 22 dicembre compirà cinquant’anni. Ricordiamocelo.

San Donato Milanese, 20 Novembre 1997

Senza tregua - La guerra dei GAP

giovedì 25 dicembre 2014

Inside the revolutionary process. Inevitably, today !

Perché mimetizzare le cicatrici ? Il potere cerca di nascondere la devastazione materiale e cerca di contrastare la depressione emotiva dei popoli, auspicando che le “genti” passino la vita surrogando i bisogni reali. Le fila dei “malcontenti” s'ingrossano; timidezze estreme, autolesionistiche, vanno incontro, lasciandosi fagocitare del tutto, al trionfo proprietario delle relazioni umane. Il potere racconta la vita di miliardi di persone come favola archetipa, come un'eterna partita alla tombola. Alcuni, collaborativi, possono permettersi di sorridere alla sconfitta e fanno archeologia culturale pensando alla “democrazia reale” come unico, intangibile orizzonte sociale; altri, scelti dalla vita, piuttosto che messi in condizione d'effettuare una scelta di vita, si dedicano al conflitto, ad essere “partigiani”, avanguardia non della tecnica, scontatamente – per i guru della “rete – imprescindibile, ma in quanto depositari della “prospettiva” storica. Come se non si sapesse che i "filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" (rif. 11° Tesi su Feuerbach). Non sono gli scandali e la corruzione pubblica e privata a far crollare le Istituzioni, lo Stato perché essi sono parte integrante della “democrazia reale” nella versione eurostatunitense. La post-modernità non s'annuncia o s'avvera con le rivolte delle moltitudini, organizzate anche grazie alla pervasiva presenza dei social media nel conflitto, al di fuori dell'Occidente economicamente avanzato e tecnologicamente dotato, perché essa è dentro la visione fallimentare della “democrazia reale”, frutto avvelenato del rigenerato capitalismo delle multinazionali. Tant'è, dopo la rivolta, la rottura dell'ordine costituito e la deriva liberatrice sono ricondotte a subalternità della “nuova” integralista forma del potere. Le “crisi” che scompaginano i blocchi sociali, che permettono d'evadere dalle “trincee” del persistente conflitto sociale, devono essere vissute come una “crisi” di sistema che non può più essere ricompresa nella fisiologica, gattopardesca ristrutturazione degli assetti gerarchici nel corpo sociale, non sono contenute dall'ideologia del “riformismo” borghese e della “democrazia reale”. Si è in presenza d'una crisi “ontologica” del sistema capitalistico di vita. Non basta alludere all'azione del “riformare” i comportamenti delle classi contrapposte o indurre gli individui a camminare rettamente sul filo della moralità pubblica; queste illusioni parlano il linguaggio dell'inganno, creano ulteriori trincee e ghetti che non parlano al mondo reale. Necessario, viceversa, è riformulare la “novitas”, attualizzarla, renderla possibile, agire come mai in precedenza. Il conflitto deve esprimere un sentimento, drasticamente, irreversibilmente, "antidemocratico" (nel chiaro significato di contrarietà antagonistico-duale alle varianti storiche della "democrazia realizzata") e postresistenziale che sia in grado d'avviare la riorganizzazione politico-organizzativa del proletariato per il suo potere esclusivo e per la costituzione di nuove forme d'istituzionalità autenticamente popolare. Ciò che non è nelle previsioni del capitalismo delle multinazionali – il concreto rinnovamento/ribaltamento della società – è vincente; il prevedibile, suscettibile di repressione e stigmatizzazione culturale, il già visto può solo essere archiviato, soddisfacendo autoreferenzialmente le anime belle della retorica, sociologica, ideale congettura rivoluzionaria. Stellarmente e storicamente distanti dai velleitarismi insurrezionalisti e dell'insubordinazione di testimonianza è il processo politico-organizzativo del proletariato rivoluzionario. La società capitalistico-borghese, d'illuministica derivazione, è in procinto di fallire; non basta, però, pensare che essa crolli senza colpo ferire. Non basta pensare al fallimento dei postulati egualitari, dell'uguaglianza formale davanti alla legge; tale stagione, troppo subdolentemente lunga, ha prodotto atroci impedimenti per l'emancipazione politico-culturale delle masse subalterne e la liberazione degli uomini dal giogo schiavistico del lavoro sottoposto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, a sua volta causa dell'appropriazione personale della ricchezza socialmente generata. L’economia borghese considera il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica, il capitalista, utilizza il lavoro di una certa categoria di persone, i salariati, per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che va descritta in termini di sfruttamento e di logica del profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della proprietà privata e dalla costruzione del comunismo.
L’unico modo di abbattere la società alienante sarà la rivoluzione proletaria. Il lavoro è creatore di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed i mezzi di cui si servono per produrre (ad esempio: salariati; industria; azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione (la "relazione" capitale / lavoro necessita la contrapposizione tra capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia dall’economia. Quindi, l’economia è la struttura o la base della società, sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte, religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che determina le condizioni di vita sociale, come le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le filosofie e non viceversa. E' il materialismo storico a ritenere che le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta. Le forze produttive, in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà, tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie di crisi e di conflitti. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ma se sociale è la produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé la base del suo superamento. Il comunismo è lo sbocco delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico e di riproduzione dei rapporti sociali; nella storia ogni formazione economica e sociale è un gradino di un processo che porta al comunismo, società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, inteso come forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come padrone del proprio destino. "Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca). Il carattere dialettico della teoria rivoluzionaria proletaria si manifesta nella storia, intesa come un processo dominato dalla forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale che può essere realizzato dalla soggettività organizzata politicamente. La dialettica non è entità spirituale, bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste nel possibile, auspicabile passaggio dalla società capitalistica a quella comunista. Storicamente, vi saranno pochi capitalisti che deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (rif. all'"economia politica", alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari sfruttati prendono coscienza di classe e sono, in particolare, i comunisti, "l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato", che devono guidare la rivoluzione della classe sfruttata. La rivoluzione proletaria abbatte le istituzioni dello Stato borghese ed in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia del mondo. Vi sarà la dittatura del proletariato che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa sarà una fase di transizione e durerà solo fino all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra. Altra cosa rispetto al contrasto fra la liberté e le “libertà”, fra l'uguaglianza formale e quella materiale, altra cosa rispetto al tentativo di dare “concretezza” politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”. La strada verso la servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la libertà ne postula di più dure. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestia da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla rivoluzione proletaria e da quella sono totalmente respinte ! Presupposto fondamentale, lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli U.S.A. e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia destra/sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.

domenica 24 novembre 2013

… non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù ...

Ciascun individuo è tale poiché instaura relazioni con la realtà circostante. Il costante “riferirsi” all'altro da se, per definire il profilo stesso di soggettività, rende oggettivamente permeabile il confine del cosiddetto “ego” e l'esperienza della connessione scandisce di fatto l'esistenza individuale/collettiva. Nella transizione dal XVIII e XIX secolo la natura dell'interazione sociale storicamente determinata emerge culturalmente a coscienza e grazie a ciò Tocqueville ritenne la “massa” come moltitudine indifferenziata al suo interno, di aggregato omogeneo, in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo. L'industrializzazione e l'urbanizzazione connessa nei paesi occidentali più progrediti sono fenomeni d'esordio della società di massa. Nel XX secolo il quadro si raffina e completa in termini di omologazione: “Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati […]. La moltitudine improvvisamente si è fatta visibile […]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Oramai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro” (Josè Ortega Y Gasset, “La ribellione delle masse”, 1930). La gran parte delle persone vive in agglomerati urbani, medi e grandi. Gli esseri umani sono a più stretto contatto condizionante fra loro. Maggiore disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione pur con discriminazioni economiche d'accesso che ne differenziano sostanzialmente le condizioni di vita. Le relazioni sociali non si basano più sulle piccole comunità tradizionali. Le dimensioni etniche tendono a precipitare nel “globale”. Le relazioni sociali dipendono in una prima fase di affermazione del capitalismo dalle grandi istituzioni nazionali (apparati statali, partiti, associazioni, sindacati …), nella più recente dalle imprese multinazionali che sovradeterminano la vita di ciascuno. La subalternità dell'individuo è totale ed irreversibile.
Le organizzazioni capitalistiche che sovrintendono alla produzione ed al consumo di massa pesano sulle scelte di vita collettive e su quelle individuali. Si passa inevitabilmente dall’autoconsumo al circolo dell’economia di mercato. I valori tradizionali d'appartenenza lasciano il passo a nuovi modelli generali di mentalità e comportamenti eteroprodotti e “venduti” come indispensabili a ciascuno concorrendo a formare nuove dimensioni psicologiche e percettive inducendo alterazione etica ed annientamento del pensiero critico. Oggi il fronte delle innovazioni tecnologiche, di nuovi settori produttivi (informatica ed elettronica in primis, ma anche la chimica) trovano occasioni di imposizione di correlati stili di vita. La Cina s'affianca alla tradizionali potenze industriali, la Germania e gli Stati Uniti. Assistiamo ad uno sviluppo tumultuoso generalizzato della produzione in tutti i settori che devono innovare per sopravvivere nella competizione globale. L’indice di produzione industriale e quello del commercio raddoppiano fino alla fase di finanziarizzazione improduttiva, fino al collasso del sistema d'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta (crisi della fine del primo decennio del XXI secolo). I prezzi dei beni e servizi (compresi quelli erogati dal Welfare), che prima calavano costantemente, cominciano a crescere. Non crescono, viceversa, i salari (assolutamente meno dei prezzi), il PIL dei paesi industrializzati e la popolazione in questi paesi subisce la stagnazione e l'imperio aziendalista. Per conseguenza, l'allargamento del mercato comprime la domanda di beni e servizi di massa, essendo le classi subalterne depauperate (mediante la leva fiscale) ed impoverite materialmente non avendo retribuzioni sufficienti a riprodurre la forza-lavoro. Non nascono cicli di produzione industriale di nuovi beni di consumo e le reti commerciali di vendita e distribuzione (negozi, grandi magazzini, vendita per corrispondenza, rateizzazione e finanziamenti, pubblicità) sono diventati non-luoghi dell'alienazione di massa; la stagnazione della produzione induce una razionalizzazione produttiva che si sostanzia in tagli di servizi e personale. Dal 1913, quando a Detroit, negli stabilimenti Ford nasceva la prima catena di montaggio, ad oggi, si è passati dall'introduzione di nuovi metodi di produzione di massa (parcellizzazione del lavoro, taylorismo di cui in F.W. Taylor, “Principi di organizzazione scientifica del lavoro”, 1911) al neoschiavismo che ha fatto tramontare l'epoca dei consumi di massa, dei prezzi differenziati e competitivi, degli alti salari, del fordismo.
Di quella stagione resta solo la “massificazione”. L'uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali, schizofrenica mobilità e stratificazione sociale. La classe operaia già divisa nella trade-unionistica distinzione fra manodopera generica e lavoratori qualificati (aristocrazie operaie) rifluisce verso zone sempre più ampie di disoccupazione e precarietà aumentando consistentemente l'inadeguatezza nel conflitto organizzato. È soggiogata alla volontà ristrutturativa del capitalismo. Il cosiddetto ceto medio non aumenta la sua consistenza con i lavoratori autonomi e nuove professioni che ci si inventa (la mortalità delle Partite I.V.A. ne è la dimostrazione) per non essere triturati dalla crisi; i dipendenti pubblici e gli addetti del settore privato che non svolgono attività manuali (tecnici, commessi, impiegati…) stanno scomparendo a causa della privatizzazione selvaggia che può fare a meno di dipendenze a tempo determinato e di contrattualizzazione; scompaiono anche i “colletti bianchi” creando fenomeni di contrapposizione tra borghesia impiegatizia e proletariato per reddito “non garantito”, sterilizzando l'autonomia degli individuo in termini di usi, costumi e aspirazioni e organizzazione/progettazione esistenziale.
La contrarietà ai sindacati a in generale alle organizzazioni di massa pare essere l'unica difesa alla spoliazione in atto. L'individualismo, la rispettabilità dell'appropriazione selvaggia di proprietà private (criminalità tout court), la fine del risparmio familiare, il riproporsi virulento di un senso subalterno della gerarchia sociale, forme risorgenti di ignoranza patriottistica diventano forme evidenti, sempre più importanti (poiché incidono nel disegnare opzioni di dominio sulle coscienze individuali), di percorsi personali e collettivi di fuoriuscita dalla “crisi”col crescere della società globale di massa rappresentati da caotici flussi migratori. Destinatari non più di beni di consumo, di diritti politici (elettorato di massa) che ne potrebbero far oscillare le simpatie, ora progressiste ora conservatrici, i diseredati del XXI secolo hanno un'unica alternativa: o soccombere o emanciparsi perseguendo con convinzione l'obiettivo dell’organizzazione ed intraprendendo la battaglia politica collettiva che produce di per sé più diritti; all'omologazione subalterna va opposta la solidarietà e lo spirito di classe, l'internazionalismo, fondamentale coll'espansione dello sfruttamento globale; il proletariato torna ad essere il motore del progresso perché lotta per i diritti collettivi e per la ridistribuzione del reddito si unisce e si concretizza nella lotta per il potere politico conquistato mediante rivoluzione sociale. La società di massa e “democratica” non è lo stesso della società socialista.
L'attuale soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Karl Marx la suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo egli vedrà la piena realizzazione umana. In una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus: “Io, t’assicura, non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù. Meglio d’assai lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero di Giove”. La rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione, ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e di un proletariato cosciente va nella stessa direzione.
La concezione comunista del mondo è, come ogni scienza, opera degli uomini. I comunisti la devono non solo applicare. Prima ancora la devono elaborare e sviluppare all’altezza dell’opera che devono compiere: per costruire un grattacielo occorre una scienza delle costruzioni più sviluppata di quella necessaria per costruire una casetta. Per questo diciamo che essere marxisti non significa fare l’esegesi delle opere di Marx e degli altri dirigenti del movimento comunista (“cosa ha veramente detto Marx”, ecc.). Sono marxisti quelli che elaborano dall’esperienza la scienza della lotta della classe operaia che si emancipa dalla borghesia costruendo la società comunista. Il movimento comunista cosciente e organizzato non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, neanche durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, quando per effetto della prima crisi generale del capitalismo la borghesia stessa aveva sconvolto i suoi ordinamenti nei singoli paesi e il suo sistema di relazioni internazionali e precipitato tutto il mondo in ben due guerre mondiali complessivamente durate più di 30 anni (1914-1945), principalmente perché i comunisti non hanno elaborato la concezione comunista del mondo all’altezza del compito che dovevano svolgere. Gli interessi della borghesia e del clero congiuravano con l’ignoranza naturale (conforme cioè alla loro natura di classi oppresse) in cui le classi dominanti tengono le classi oppresse (“lei non è pagato per pensare”, “qui non si fa politica”, ecc. ecc.) e con la pigrizia e il dogmatismo di tanti comunisti pur onestamente devoti alla causa della rivoluzione che tuttavia riducevano il marxismo all’esegesi dei testi e a una fede religiosa nei dogmi, mentre nell’azione pratica, pur eroica, si orientavano a naso, secondo il senso comune (cioè nei limiti di proteste e lotte rivendicative). Va superata – tra l'altro - l’inerzia teorica del movimento comunista dei paesi imperialisti e il suo venir meno ai compiti suoi propri. Così come è al primo posto dell'ordine del giorno della storia l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario.

sabato 13 luglio 2013

Progettare la rivoluzione

Sviluppare una riflessione di critica sociale ed emancipazione a partire dalle condizioni attuali delle contraddizioni capitale-lavoro, nella consapevolezza che le dinamiche sociali in corso richiedono un ritorno/approdo consapevole e riflessivo alla nozione di critica e una rinnovata attenzione sulle condizioni che consentono di pensare il progetto di emancipazione collettiva e di rivoluzione sociale. I processi di globalizzazione, infatti, da un lato rendono sempre più manifeste le tensioni create da un capitalismo diversamente aggressivo sul piano economico e omologante sul piano culturale; dall’altro, sembrano poter aprire spazi per una nuova capacità di incrementare i potenziali di liberazione impliciti non solo in una possibile universalizzazione dei diritti umani e dell’autorealizzazione degli individui, ma soprattutto di rivoluzione sistemica.

Ma, al momento, è soprattutto sul primo aspetto che occorre soffermarsi. Le crisi economiche e finanziare internazionali hanno pesanti ripercussioni sociali: mettono a repentaglio le politiche di Welfare nei paesi più industrializzati – che vedono l’emergere di nuove e vecchie forme di povertà, di disoccupazione, di emarginazione sociale, ecc. mentre i giochi di borsa e le acquisizioni multinazionali d'impresa proseguono senza battute d'arresto –, e cercano, d’altro lato, di scaricare gli effetti più pesanti della crisi sui paesi più poveri e in via di industrializzazione e – prioritariamente – sulle classi subalterne presenti in ogni ambito nazionale devastandole, creando un vero e proprio genocidio generazionale. Sul piano culturale, nonostante sia ormai evidente la difficoltà intrinseca di un modello di produzione incentrato sull’idea di uno sviluppo senza limiti finalizzato al profitto d'impresa che risponda a mere esigenze produttive, il modello di una società dei consumi sembra essere senza alternative reali e, nonostante ciò, si impone come unico referente possibile e auspicabile. La stessa fuoriuscita dalla crisi viene così proposta solo nella prospettiva di una ripresa produttiva, dell’aumento del Pil, dei consumi, in una direzione che non può fare altro che riproporre le patologie da cui vorrebbe sfuggire. da questo punto di vista, i sacerdoti del "mercato", gli economisti "di sinistra" e "di destra", non divergono affatto, avanzando "ricette" buone solo per rigenerare il sistema d'appropriazione privata di beni e servizi socialmente prodotti. In questa situazione, la riflessione critico-sociale-politica – ma non solo – deve porsi l'inevitabile questione di quali siano le condizioni, i temi, i soggetti capaci di rompere questa spirale perversa e riaprire il fronte di una prassi sociale non ingenua, bensì lungimirante, rivoluzionaria, efficacemente antisistema. Si possono porre qui almeno tre questioni. 1. La contemporaneità come “luogo di manifestazione” delle contraddizioni capitalistiche, l’unico nella storia dell’umanità nel quale sia stato posto con forza il tema dell’emancipazione antisitema. La prospettiva illuminista di una liberazione sulla scia di uguaglianza, fratellanza e libertà non può dare alcun frutto poiché, tenendo ferma l’idea di una possibile liberazione di massa, non si può evitare la consapevolezza degli errori commessi dalla”sinistra tradeunionistica” in questi secoli di modernità capitalistico-borghese, e va considerato “falso sapere” non solo il fanatismo religioso e l’irrazionalismo mitologico, ma anche – il pronunciamento della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno è chiaro, in proposito – la presunzione delle classi dominanti di porsi come depositarie di sapere assoluto e definitivo, astorico, presunzione che ha assunto nel Novecento forme diverse e terribili, come le ideologie assolutizzanti, il totalitarismo nazi-fascista, l’assolutizzazione del ruolo sociale dell'impresa, ecc., sia sul piano concreto delle forme e delle esperienze sociali sia sul piano culturale e della formazione e riproduzione delle forme di vita sociali. Nonostante questi aspetti deleteri, e partendo proprio dalla necessità di evitare ogni assolutizzazione, rimane aperto il compito di “una critica della ragione attraverso la ragione” e quello di “stabilire prospettive da cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe” (Adorno). Occorre quindi una ripresa critica della critica interna alla prospettiva borghese, che sappia andare oltre una possibile resa davanti ai drammi che la modernità stessa ha prodotto, oltre il lavacro etico, poiché anche i proletari sono fagocitati e si muovono nell'universo unico dell'esitenza come il capitale vuole sia vissuta. 2. Il mantenimento – critico – delle prospettive di emancipazione presenti nel progetto rivoluzionario antisistema implica in prima battuta il superamento della retorica post-moderna e l'attualizzazione del marxismo-leninismo. La fine delle grandi narrazioni è anch’essa una grande narrazione. E, in quanto tale, ha prodotto essa stessa una “ideologia”. L’idea di un individuo riflessivo, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di scelte – e di contraddizioni – che il sistema sociale non sa più affrontare, può costituire la premessa per una nuova fuga dalla libertà, d'una eternizzazione delle forme di vita capitalistiche. La deregolamentazione e la privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della Società/Impresa può costituire un onere tragico per la gran parte dei soggetti subalterni e un eccesso di individualizzazione può produrre il peggior conformismo sistemico. Anzi, se finisce con l’essere la base per nuovi modelli sociali e di consumo – per lo più irraggiungibili –, costituisce un nuovo modello di conformismo. Dobbiamo perciò essere consapevoli che queste forme di disintegrazione sociale producono un vuoto alle volte più pericoloso del pieno che lasciano alle loro spalle; che la società dell’effimero e della disgregazione, del momento e della contingenza, è la condizione e il risultato di una nuova forma di potere e di dominio. Nessun rimpianto per un pieno al quale non bisogna assolutamente tornare, ma, al tempo stesso, nessuna indulgenza per un vuoto che annichilisce le stesse capacità di resistenza e di cittadinanza attiva. 3. Un elemento perciò fondamentale di analisi può essere costituito dal concetto di legame sociale. Oggi – sulla base forse di quanto sopra detto – assistiamo ad un ritorno di comunità, ad un nuovo bisogno di appartenenza, ad una rinnovata necessità di radicamento e di radicale trasformazione sociale. La “crisi” è madre di tutto ciò, come opportunità di autentica trasfomazione sociale. Accanto a situazioni di tipo reattivo – come possono essere nuove le forme di comunitarismo religioso, localistico, etnico, ecc. – emergono però al tempo stesso forme di comunità – e di legame sociale – che tentano di costruire momenti di solidarietà sociale non esclusiva e totalizzante, ma soprattutto embrionali forme organizzate di antagonismo anticapitalista. Possiamo fare gli esempi di nuove forme di movimenti sociali per i "beni comuni", di comunità di consumo equo e solidale, di associazioni di quartiere e di volontariato e servizio civile, di partecipazione collettiva, tutte portatrici, in modo più o meno esplicito e consapevole, di momenti di critica sociale e di emancipazione. Accanto ad essi si sta coagulando, aggregando una intenzionalità di lotta rivoluzionaria per il potere politico guidata da coscienti avanguardie comuniste. Una riflessione sulla natura e sulle condizioni del legame sociale nell'attuale situazione storica appare dunque il miglior modo per porre la questione della critica al capitalismo nell'epoca della globalizzazione. In questa prospettiva, non vorremmo riproporre il tema della critica alla prima esperienza stocia dell'accumulazione capitalsistica, che diamo per acquisita. Neppure riproporre una riflessione sul ruolo che vecchi soggetti (partiti, sindacati, ecc.) possono avere in chiave critica. Attualmente, il compito di costruire un ordine sociale nuovo e migliore deve ancora conquistare il centro dell’attuale agenda della maggior parte del mondo antagonista che trascura di “tematizzare” appropriatamente la questione del “potere”. Occorre invece riproporre con forza questa prospettiva in una nuova direzione, consapevoli che nemmeno un’ora del nostro lavoro sarebbe utile se non servisse in qualche modo alla rivoluzione sociale per il comunismo, alla socializzazione comunista.

martedì 2 aprile 2013

Per una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza parlamento

Il concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος (démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di “democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche) possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di uno Stato sedicente democratico. Il concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene – l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre, approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia” contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere – specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti. Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della “volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi, essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato. Nei paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo delle istituzioni statuali moderneche la “democrazia” contiene, è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento, quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale, dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della “democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione” (scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi, come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di schiavi. L'deale democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia “progressista” borghese e, nella sua apparizione negli ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento, unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e dell'eserzio del poetere, forzosamente traslando dalla “partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica dell'industrializzazione maturapropone, di fronte alle minacce rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il costituzionalismo borgehse gioca la carta della retorica democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di rappresentanza istitutzionale. È ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia" in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va da sé che la borghesia si compiace di definire "libere", "eguali", "democratiche", "universali" le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.» (brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23 dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919). Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia (l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque “soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e continua a procurare al proletariato. È nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza europea del “movimento dei Consigli”, identificabile sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della costruzione della base materiale del comunismo consentendo un corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato” è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi sistemiche della sconfitta storica del capitalismo. Per Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo. 2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti di "democrazia in generale" e di "dittatura in generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta. Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi, come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la "dittatura in generale", ma la dittatura della classe oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto, quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla "democrazia in generale", quando oggi si grida e si strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria» (brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol. 28, pagg. 461-462). Aprile 2013