domenica 1 maggio 2016
Il PRIMO MAGGIO
venerdì 20 marzo 2015
Lettera alle lavoratrici e lavoratori
venerdì 18 maggio 2012
Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori: diritto ad avere diritti
contratti atipici. È ormai troppo tempo che iniziative e manifestazioni di denuncia della condizione d'invisibilità non sortiscono effetti se non «una pacca sulla spalla». Abbiamo la consapevolezza che non sono bastate quelle iniziative e che alla precarietà strutturale del mercato del lavoro si sono andate
sommando la crisi finanziaria ed economica e le politiche di austerity che stanno cancellando i diritti del lavoro, privatizzando il welfare e la formazione e, col «fiscal compact» (pareggio di bilancio), svuotando la democrazia in tutta Europa.
questa consapevolezza ci ha spinti a promuovere un percorso di discussione e azione, in corso in questi giorni, per riconquistare la riunificazione dei diritti delle condizioni di lavoro attraverso il diritto alla coalizione, per poter realizzare una vera e autonoma contrattazione collettiva.
Tenere insieme i diritti del lavoro, quelli della cittadinanza, i beni comuni, la giustizia ambientale è l'unico modo per difendere la democrazia.
In Italia la democrazia e i diritti costituzionali sono entrati nei luoghi di lavoro, dopo anni di dure lotte, con la Legge 300 del 20 maggio del 1970. Oggi una parte importante delle lavoratrici e dei lavoratori non ha più alcun tipo di tutela e dove queste ci sono con l'articolo 8 sono
messe in discussione.
È in discussione il diritto ad avere dei diritti per tutte e tutti.
Per queste ragioni promuoviamo, a 42 anni dalla nascita dello Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori Assemblea/evento - ore 11.00 Auditorium del Palazzo dei Congressi Villa Vittoria (piazza Adua, vicino alla stazione)
a cui invitiamo a partecipare tutti coloro che pensano e agiscono per estendere i diritti 20 maggio 1970 - 20 maggio 2012 Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori Il diritto ad avere diritti www.fiom.cgil.it
domenica 6 febbraio 2011
Documento politico della Rete dei Comunisti

FIAT, una operazione da “laboratorio”
La risposta Fiat dalla crisi è da manuale: a fronte del venir meno dell'effetto espansivo fin qui garantito dalla finanziarizzazione – una delle principali controtendenze alla caduta del saggio del profitto – si prova ad aumentare il tempo di lavoro. Se si legge con attenzione il “piano”, infatti, troviamo: aumento esplosivo dello straordinario obbligatorio, riduzione delle ore di permesso sindacale, divieto di sciopero. Al netto delle misure illegali o addirittura incostituzionali, il nocciolo della nuova organizzazione del lavoro si concentra nell'allungamento della giornata lavorativa. Ovvero, in termini marxiani, aumento dell'estrazione di plusvalore assoluto.

La crisi sta quindi producendo reazioni diverse non solo a livello di aree geostrategiche, ma anche all'interno delle singole multinazionali. Gli Usa, con molte difficoltà, hanno inizialmente tentato di ripercorrere la politica del debito e del sostegno alla domanda anche se il recente “discorso sullo stato dell'Unione” di Obama sembra segnare un cambio di rotta, in direzione della riduzione del deficit pubblico. L'Europa sotto l'egemonia tedesca, invece, ha anticipato i tempi del “rientro” nei parametri di Maastricht, anche a rischio di strozzare nella culla una “ripresa” economica decisamente esangue e disomogenea nei vari paesi del continente. Germania e Francia puntano sulla superiore qualità della loro produzione manifatturiera e accentuano la dipendenza degli altri paesi, trasformati spesso in propri “contoterzisti”. Questa dinamica polarizza anche la possibilità di gestire la coesione sociale interna: i paesi più forti possono mantenere decenti livelli salariali e di welfare, senza forzare oltremisura i livelli di sfruttamento della forza lavoro. Mentre, man mano che si scende lungo le varie filiere produttive, queste condizioni vengono meno: l'allungamento della giornata lavorativa va di pari passo con l'aumento della disoccupazione, l'incremento dell'età pensionabile si accompagna all'espulsione della manodopera “garantita” (cinquantenni con contratto a tempo indeterminato) e alla precarizzazione generale di tutte le generazioni, il taglio dei servizi sociali rende disponibili altri settori di investimento per capitali privati a corto di sbocchi. L'Italia di Marchionne è un paese che va allontanandosi dal cuore produttivo dell'Europa e che rispecchia, anche merceologicamente, la polarizzazione estrema implicita in questo tipo di risposta: pochi brand di lusso (Ferrari, Maserati, Jeep, Dodge, Cherysler, forse anche Alfa Romeo) per le fasce sociali che mantengono o aumentano il proprio reddito e il marchio Fiat per quelle povere, possibilmente con modelli fabbricati in Turchia, Serbia, Polonia (in Messico, per il mercato Usa).

Un taglio radicale con il passato “concertativo”, caratterizzato da sindacati generali e da contratti nazionali, ossia dal “compromesso tra capitale e lavoro”. Il quadro normativo delineato dal “piano Fiat” prevede infatti un modello di relazioni “complici” a livello aziendale, di tipo corporativo, nella logica competitiva che assume l'impresa come un esercito in guerra contro tutti gli altri. E all'interno di un esercito non è ammissibile né il confronto né, tantomeno, il conflitto. Solo l'obbedienza gerarchica. Se questa è l'idea di fondo, è però anche facilmente riconoscibile. Non siamo più da 50 anni un paese arretrato: i lavoratori sono abituati a contrattare le condizioni salariali e di lavoro, a costituire sindacati (e a cambiarli, se insoddisfatti), ad esercitare diritti. Il “modello Marchionne” incontra resistenze. Anzi, le produce anche là dove erano diventate quasi un ricordo del passato lontano.
E’ generalizzabile il modello FIAT?
Il Lingotto fa da apripista, dunque. Dobbiamo perciò considerare quale sia il suo peso specifico nell'economia italiana, insieme alla compatibilità del suo “modello” con il resto del sistema produttivo. Lo spin off tra Auto e Industrial sembra preludere a un abbandono del settore da parte della famiglia Agnelli, ancor oggi azionista di riferimento tramite l'archeologico schema della società in accomandita all'apice di una più “moderna” serie di scatole cinesi di derivazione più finanziaria che industriale. Se l'obiettivo dichiarato del gruppo è raggiungere i 6 milioni di vetture l'anno (soglia considerata “minima” per poter restare sul mercato globale), bisogna dire che la quasi totalità di questa cifra – prendendo per buoni i livelli di produzione promessi per gli stabilimenti italiani – verrà fabbricata altrove. Al tempo stesso, però, il mercato italiano è l'unico nel mondo dove la Fiat raggiunga livelli a doppia cifra (il 27%, nel quarto trimestre 2010). Non va però sottovalutato il fatto che buona parte dell'”appetibilità” delle vetture Fiat in Italia sia legato a fattori “affettivi” di stampo nazionalistico (le vittorie Ferrari in F1, la “nostra” industria automobilistica), oltre che ai livelli di prezzo (soprattutto a livello manutenzione). Abbandonare totalmente la produzione in Italia potrebbe farle perdere ulteriori quote di vendita. Ma il “cuore” progettuale e il mercato d'elezione è diventato il Nord America. Lì viene spostato gran parte dello staff che progetta i nuovi modelli; lì si investe (grazie ai sussidi del governo Usa) in nuove tecnologie per più bassi consumi e minor inquinamento: lì si pensa di realizzare i volumi di vendita qui impossibili (l'elemento nazional-motoristico vale anche per Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna, naturalmente). A tutti gli effetti, dunque, la Fiat ha ora la configurazione classica di una vera multinazionale, “basata” (per quanto, ancora?) in Italia. L'unica, nel settore manifatturiero (Eni, Enel, Unicredit hanno altre caratteristiche).
Sul piano occupazionale, il solo settore auto ha appena 25.000 dipendenti (ma Termini Imerese è già chiusa), e non si prevedono certo assunzioni. Ma l'indotto auto è enorme e coinvolge – direttamente o indirettamente – quasi un milione di persone. Difficile valutare il disastro occupazionale in caso di fuoriuscita completa del gruppo dall'Italia, ma impossibile sottovalutare il “peso specifico” della Fiat nell'industria e nel fatturato complessivo del paese.
Il “modello Fiat”, così come descritto negli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori, sembra attagliarsi meglio ad industrie grandi o molto grandi, con una presenza già affermata sui mercati globali, e che possono perciò credibilmente esercitare sui propri dipendenti lo stesso ricatto pensato da Marchionne: “o così, o me ne vado altrove”.
Per le altre - che hanno il proprio business legato alla territorialità o dimensioni che non consentono una rapida delocalizzazione - allungare la giornata lavorativa e comprimere il salario non è semplicissimo. Il primo obiettivo richiede contrattazione sindacale e qualche contropartita salariale (persino tramite le organizzazioni “complici”). Gestire pacificamente un impoverimento così drastico pare proprio che non sia possibile nemmeno in paesi tradizionalmente dittatoriali (vedere i moti in Tunisia, Egitto, per altri versi Algeria e Albania).


La crisi del tatticismo.
Se siamo arrivati alla condizione in cui il conflitto di classe è promosso dall’alto, cioè solo dall’avversario di classe, ci sono sia ragioni oggettive (arretramento generale, politico e culturale, davanti alla capacità della borghesia di riprendere il ciclo di crescita dopo gli anni ‘70 e l’89), sia il prodotto di responsabilità soggettive del movimento comunista e di classe (sul piano sindacale e di movimento).
Il punto politico, organizzativo e teorico che vogliamo affrontare è preciso: negli ultimi due decenni, soprattutto in Italia, è stato abbandonato ogni collegamento organico con la classe reale che andava evolvendo sotto la spinta delle modifiche produttive complessive. C'è chi lo ha fatto aggrappandosi a visioni ultra-ortodosse e chi assumendo posizioni “moderniste” fino al ridicolo. Ma comunque lasciando deperire quel grande capitale di organizzazione politica, sindacale, sociale e di coscienza di classe accumulato nei precedenti cicli di lotte. Senza visione generale, e senza rappresentanza politica a livello nazionale, tende a prevalere il piccolo cabotaggio, l'iniziativa giorno per giorno, la pura reazione anche generosa, ma senza progetto e senza alternativa. E, più spesso, il puro adattamento ad amministrare l'esistente, che sul piano sindacale diventa difendere la propria organizzazione, su quello politico il puntare sulla capacità attrattiva residua di un simbolo prestigioso. Un “tarlo” che ha minato l’organizzazione di classe nel nostro paese è stato perciò il tatticismo, il politicismo, il prevalere della contingenza a scapito della prospettiva e del progetto di società. Questo “tarlo” è ancora ben presente oggi.
In questo senso si può dare un giudizio positivo sulle recenti scelte della Fiom, ma quello che si pone nella ed oltre la vicenda Fiat è come si organizza complessivamente il mondo del lavoro nella sua configurazione attuale. Il rischio che vediamo è quello di un uso “politico” della vicenda Fiat, ritenuta magari utilizzabile per ridar fiato alla politica della “sinistra”. I comitati costituiti da Bertinotti e Cofferati a sostegno del NO, le varie iniziative politiche che cercano di ricucire una dialettica con il centrosinistra, il reciproco uso strumentale tra sindacato e politica a cui stiamo assistendo, rischiano di divenire un boomerang nel momento in cui tutto questo non trova prospettive dentro un processo di riorganizzazione effettiva della classe. Questa preoccupazione diviene ancora più forte se si considera che molti dei personaggi che oggi si sono riaffacciati sono gli stessi che sono stati protagonisti di un’altra avventura, purtroppo quasi rimossa, ma che ora mostra tutto il suo significato politico. Ci riferiamo al referendum tenuto nel 1995 sull’art. 19, che ha fissato il criterio dei “firmatari di contratto” per poter usufruire delle libertà sindacali. Un referendum promosso dalla sinistra sindacale e da quello che era allora il Partito della Rifondazione Comunista; concepito per tagliare le gambe al nascente sindacalismo di base e ai movimenti indipendenti, oggi si ritorce pesantemente contro quelli che lo hanno promosso. Marchionne, Cisl e Uil hanno utilizzato proprio quell’articolo per “far fuori” la Fiom.
Il punto politico che vogliamo mettere in evidenza non è tanto il merito di quell’episodio di masochismo sindacale, quanto il fatto che allora come oggi - sia col segno negativo del ’95, sia con quello positivo attuale - se continua a prevalere la contingenza e la necessità tattica, in questo momento di crisi non si andrà da nessuna parte, e conosceremo una nuova sconfitta politica. Quella pratica e quella cultura sono logorate e ormai da tempo hanno mostrato i loro limiti. Prendiamo atto che l’esigenza pratica di uscire da questa logica si è per ora tradotta nel tentativo di dar vita a un “movimento che si autorappresenta” anche sul terreno della politica, ovvero come “Uniti contro la crisi” che afferma di voler costruire una “alternativa sociale”. Non è la prima volta che la sordità dimostrata dalla classe politica rispetto alle domande sociali stimola processi simili.

I Comunisti nel conflitto di classe
Bisogna, dunque, fare i conti con questa situazione sia sul piano dell’emergenza politica sia su quello delle prospettive che rimane dirimente e decisivo anche come verifica per i comunisti su come stanno nel moderno conflitto di classe. La resistenza dei lavoratori della FIAT è una indicazione importante che va raccolta e rilanciata. Lo sciopero dei metalmeccanici indetto dalla FIOM e dal sindacalismo di base per il 28 Gennaio è un primo momento importante che non può che essere seguito dalla sciopero generale e generalizzato. Ci sembra che continuare a tirare la giacca alla CGIL per chiedere lo sciopero è un modo per non fare lo sciopero generale. Continuare su questa strada comunque e chiedere alla FIOM di schierarsi ci sembra un elemento di chiarezza politica e d’indicazione sul lavoro da svolgere.
Questi sono solo i passaggi preliminari ad una visione complessiva di riorganizzazione del movimento di classe e dunque dobbiamo indicare con il massimo della chiarezza i contenuti e i piani di lavoro con i quali misurarci per far ritrovare ai comunisti una funzione reale dentro lo scontro di classe che si ripropone in un moderno Stato imperialista.
L’Indipendenza Politica. E’ l’elemento qualitativo che deve caratterizzare i conflitti nel nostro paese oggi. Quando si parla di indipendenza non si può intendere solo quella enunciata ma quella praticata nel conflitto e, soprattutto, nell’organizzazione del mondo del lavoro e nella società nel suo complesso. Si tratta di confermare e rafforzare un processo che conduca fuori delle alleanze con il centro sinistra e che ha bisogno di strutturalità e capacità soggettive.
La Confederalità. Se è vero che l’attacco di Marchionne intende fare una resa dei conti con la classe operaia della grande impresa e con le grandi aggregazioni di lavoratori è chiaro che la prima risposta è di difendere in tutti i modi l’organizzazione sindacale esistente in questi ambiti. Ma poi bisogna anche andare oltre e rilanciare l’iniziativa perché la crisi sistemica con la quale le società capitaliste stanno facendo i conti aumenta le contraddizioni che permettono non solo la difesa ma anche il rilancio di una vera organizzazione sindacale a cominciare dalle “roccaforti” del mondo del lavoro. Questa necessità, però, non può prescindere dalla costruzione di una nuova confederalità in quanto nessuna categoria è tanto forte da poter resistere da sola all’attacco a cui sono sottoposti i lavoratori. Allargare l’organizzazione sindacale anche laddove il lavoro è disgregato e precarizzato, trovare le forme adeguate di organizzazione anche per quel 60% di lavoratori considerati fuori dai diritti sindacali, fare delle aree metropolitane dei centri di aggregazione e di lotta significa attrezzarci per quello che sarà la dimensione reale del mondo del lavoro nel prossimo futuro dove alla disgregazione produttiva e sociale si potrà rispondere solo con una forte soggettività organizzata della classe.
La Rappresentanza del Blocco Sociale. E’ necessario aprire una nuova prospettiva sul piano sindacale ma è altrettanto importante ricostruire una rappresentanza politica delle classi subalterne nel nostro paese. Sappiamo bene che è un compito improbo che deve fare i conti con la concretezza dei settori di classe, nella loro odierna condizione di arretratezza, e con concezioni della sinistra e tra i comunisti che hanno portato ad una situazione disastrosa. Sarà un percorso complesso, che procederà per tappe ed ognuna di queste sarà un “esame” da affrontare che, però, andrà seguito con determinazione in quanto le contraddizioni che stanno emergendo riguardano la tenuta dell’attuale sistema sociale. 26 gennaio 2011
Link: http://www.contropiano.org/Retedeicomunisti/reteindex.asp
http://www.contropiano.org/
sabato 8 gennaio 2011
giovedì 6 gennaio 2011
Lettera aperta al Segretario generale della FIOM

Come docente MIUR, vedo perniciose attitudini, anche nella riorganizzazione in atto della pubblica amministrazione, in generale, e delle “attività lavorative della conoscenza” (istruzione, formazione, ricerca, cultura), a ridefinire i rapporti di lavoro su input proveniente da ragioni di bilancio e conseguente gestione autoritaria della gerarchia di comando, spesso anche in assenza di reali competenze gestionali. In particolare, i provvedimenti dei Ministri Tremonti, Brunetta e Gelmini, sono tendenzialmente lesivi non solo della condizione materiale di chi percepisce uno stipendio già da tempo inadeguato, ma anche della stessa possibilità di occupazione stabile e di eventuale fuoriuscita “garantita” dal lavoro, avendo reso “evanescente” perfino il trattamento di quiescenza. Inoltre, minando le basi del Welfare universalistico a solo vantaggio della rendita e del profitto, l'attuale Governo provvede alla desertificazione delle forme di vita orientate alla coesione sociale e si accanisce contro i cittadini che esprimono bisogni sociali non negoziabili essendo essi ormai privi di credibili tutele politiche e/o sindacali. La convergenza di intenti tra Impresa e Stato sta modificando ulteriormente i fragili assetti della “democrazia incompiuta” italiana, mettendone a rischio la stessa precaria stabilità, laddove il dissenso verso le politiche economico-sociali governative manifestato generosamente dalla società civile e dai lavoratori, è immediatamente represso in coerente sintonia con il desiderio di ConfIndustria di “contrastare l'opposizione all'ammodernamento del Paese” (dal discorso d'insediamento della Presidente Marcegaglia). A mio parere, i casi dei contratti / capestro di Pomigliano e Mirafiori, presto flessibilmente replicabili in altri stabilimenti del FIAT GROUP (ad esempio, alla SEVEL della Val di Sangro), sono il sintomo più evidente di un degrado non solo delle relazioni sindacali, bensì di relazioni sociali rese “perverse” e “polimorfe” dall'egoismo del capitale industriale e finanziario.
Il conseguente terremoto politico-sociale per i lavoratori dipendenti non “si risolve” con una militanza nella “sinistra” (PdRC, PdCI, SEL, FdS) con evidenti segnali di continuità con il fallimentare recente passato; tali “sigle” sono restate sul mercato della politica a contendersi elettori, ponendosi come obiettivo massimo rieleggere deputati, senatori o consiglieri, negoziare presenze nelle Giunte comunali, provinciali o regionali, collocare “amministratori” negli enti subordinati, confondendo il consenso elettorale con un improbabile riequilibrio dell'assetto di potere e pretendendo di ridare attualità politica ai tipici valori della “sinistra” togliattiana-divittoriana della “democrazia progressiva”.
In realtà, archiviate queste arcaiche manovre, è fondamentale insistere sulla linea dell'edificazione di nuove istituzionalità popolari, distanti / diverse da quelle articolazioni statali ove la “rappresentanza” perpetua subalternità, soggioga le masse popolari, crea devastanti distorsioni nella “democrazia costituzionale”; l'autonomia politica deve – viceversa – conquistare e difendere spazi per esercitare i “diritti” dei giovani, donne, precari, disoccupati, cassaintegrati, operai, artigiani, autoimprenditori delle conoscenze, lavoratori autonomi che oggi mal sopportano la storica iniquità dell'ennesima crisi del modello capitalista di sviluppo.
Le lotte di resistenza e di attacco alla “tenaglia” confindustriale-sindacale che impone l'agenda politica al Paese, manifestano una consapevolezza “altra” della crisi che chiede a tutti i suoi protagonisti una rinnovata determinazione nella capacità popolare di dare autorevole voce – senza mediazione partitica – ai “bisogni sociali” (reddito, Welfare, cultura, ambiente, multiculturalità, …) e del “lavoro” che sono nel suo DNA. Questa sollecitazione non può non essere colta dalle donne e dagli uomini liberi con l'entusiasmo che deriva dal riappropriarsi della propria esistenza. Per chi ha vissuto e vive la difficile battaglia della libertà individuale e collettiva dal gioco del capitale – non distinguendo, in modo miope ed asfittico, il “locale” dal “globale”, come purtroppo in alcune componenti dell'area “neocivica” si è ottusamente evidenziato, causando ulteriori “sconfitte” e dispersione di energie trasformative -, questo presente in piazza, sui tetti, nelle occupazioni e presidi, questo presente della “mobilitazione in proprio” delle masse popolari non può che avere come orizzonte e meta l'affermazione di un nuovo modello sociale, del “linguaggio” della comunanza, temi veri delle “proposte politiche” veicolate dalle lotte. Lo scenario è necessariamente più ampio di quello delle pseudostrategie di partito.
I transfughi dei partiti di “sinistra”, compresi i pdessini in libera uscita per una breve, “eccitante” stagione, che hanno frequentato modalità autonome ed alternative d'organizzazione e produzione di eventi politico-sociali, constatando il “blocco mortale” e l'evanescenza dell'opposizione – non solo PD - alla presenza berlusconiana, oggi, percependo il sentore d'una repressione (annunciata da tempo dalla ConIndustria, come prima adetto, per bocca della Presidente Marcegaglia) di tipo cileno, tornano sui loro passi, ad una “casa madre”, ad un'autoreferenzialità ed un interclassismo incapaci di “scegliere” la parte del popolo (ad esempio, sull'acqua: il PD si è forse schierato raccogliendo le firme per la difesa di quel bene pubblico essenziale ? E sul petrolio e il nucleare ? E per il lavoro ?), immaginando di occupare posti ed apparire seriosi e compìti in TV.
L'urto del 16 Ottobre, dunque, è stato prodotto ed ha provocato un'iniziativa unitaria dell'antagonismo sociale. Ora, in queste ore, va suscitata la voglia collettiva di stare realmente sul territorio, di continuare a realizzare iniziative a sostegno delle mobilitazioni di interesse comune. La FIOM ed il sindacalismo di base possono fare molto in questa prospettiva. Vista anche la possibilità imminente di elezioni ed il rischio di subire ancora, da parte di alcuni, il fascino del “democraticismo partitico” (con decisioni prese come sempre altrove, in primis a Roma), pare opportuno indicare con nettezza l'estraneità ed ostilità verso “giochi” improduttivi quando non dannosi, dotando il “movimento popolare di resistenza e per la cittadinanza attiva” di “luoghi” propri di rappresentanza e di autodifesa democratica. Nelle circostanze date, è possibile la creazione di stabili organismi popolari e di lotta espressi direttamente dai lavoratori e dai cittadini, quali spazi di partecipazione alle decisioni nell'esclusivo interesse delle comunità sociali e territoriali, cellule base della democrazia di massa da cui far generare l'organizzata nuova struttura pubblico-istituzionale che, in tale forme, può costituirsi; nel contingente, tali organismi popolari di lotta possono svilupparsi come strumento rivendicativo e luogo privilegiato d'intervento politico dei soggetti antagonisti. Si può auspicare, in particolare, la fondazione della strategia politica antisistema dellosfruttamento sull'egemonia socio-territoriale di Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva quali strumenti di contropotere alternativo all'apparato statale. Accendere il dibattito su questi temi alla luce del sole - non fra pochi, ma ampio - porterà finalmente all'individuazione d'una linea comune delle pratiche antagoniste, ben riconoscibile ai soggetti delle diffuse rivolte le quali, per questa guisa, potranno trasformarsi in decisioni concrete di respiro duraturo. Concludo, rendendo pubblico il personale auspicio d'una mia militanza politico-culturale che sia partigiana della lotta FIOM e per lo sciopero generale di solidarietà del 28 Gennaio. Ringrazio per l'eventuale considerazione.
Bologna, 6 Gennaio 2011
Giovanni Dursi, docente MIUR di Filosofia e Scienze sociali
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Una proposta per agire insieme
1. Se le responsabilità del massacro sociale, causato dall'irreversibile crisi economico-finanziaria del modo di produzione capitalista, sono chiare, altrettanto evidenti sono le colpevoli responsabilità del quadro politico dirigente delle istituzioni rappresentative del movimento operaio (partiti delle “sinistre” e sindacato) circa la difesa dell'autonomia politico-organizzativa dell'antagonismo sociale. In Italia, il “collaborazionismo” dei dirigenti delle “sinistre” politiche e sindacali (a diversi livelli di incarichi, locali e/o nazionali, svolti) con le strategie ristrutturative del “comando” capitalista – dalla disdetta della “scala mobile” alla Legge delega di revisione della Legge 146/'90 che introduce nuovi limiti al diritto di sciopero (diritto consacrato nell'art. 40 della Costituzione) e di libertà sindacali – è dimostrato dalla voluta liquidazione di ogni rappresentanza della conflittualità, ormai inesistente in Parlamento, per meglio imporre relazioni sociali e politiche consolidando il reciproco riconoscimento negoziale tra frazioni borghesi in lotta (autoritarismo affaristico-telecratico tout court o regime pseudo liberale-liberistico, queste le opzioni in campo) per il predominio statuale e l'oscuramento delle istanze collettive di difesa democratica nella ridistribuzione egualitaria del reddito . . . . .
2. Tutte le ipotesi e le pratiche politico-organizzative messe in cantiere (volendo limitarsi a considerare solo il periodo dalll'89 ad oggi), sono state fallimentari per gli interessi delle classi subalterne. Gli stessi sciagurati protagonisti ed interpreti degli ultimi decenni della devastazione progettuale e della stessa mobilitazione delle coscienze, si ripropongono ora come “salvatori” avanzando ricette avvelenate (tutti uniti nel o al PD) ed inventandosi conduttori di reality politici sulla pelle delle masse lavoratrici, dei disoccupati, degli sfruttati.
Nessuno di costoro può più permettersi – senza pagare dazio – di anteporre proprie concezioni teorico-politiche al reale movimento sociale di resistenza all'incedere della crisi, nessuno è più legittimato a rappresentare moltitudini non disposte a delegare ulteriormente. Pertanto, qualsiasi ripresa della lotta e della partecipazione politica deve individuare il massimo di contraddizione nell'assetto della “rappresentanza” e della “rappresentatività” operando una rottura teorico-politica e di prassi, liberando una soggettività politica da ogni “appartenenza” - anche se residuale - nel “noi sociale” in grado di comunicare nuove forme istituzionali della “domanda popolare” e contenuti propri, oggetti specifici delle “politiche sociali” che si vogliono perseguire. Il punto più alto delle contraddizioni economico-sociali del capitale è l'annientamento delle “socialità altre”, non “collaborazioniste”. Il punto più alto di risposta allo stato presente di cose è “fare comunità” - costruire il “noi sociale” - tramite capacità di autovalorizzazione (conoscenze, professionalità, autoimprenditorialità, sostenibilità, contropotere) di progetto e di comunicazione sociale . . . . .
3. La realtà non deve diventare la sua rappresentazione mediale, come anche significative esperienze recenti (neocivismo) hanno fatto. L'irruzione della realtà nella lotta politica dipende dalla volontà del “noi sociale” di distruggere il paradigma della rappresentazione partitico-mediale delle contraddizioni sociali. “Noi” dobbiamo rappresentare personalmente noi stessi, non un brand, un veicolo di comunicazione nel mercato della politica. Rompere questo dispositivo di potere (“delega” e “rappresentanza”) evitando di essere ancora sudditi, vuol dire farsi carico in prima persona dell'agire politico e sviluppare non solo pensiero, ma anche pratiche di liberazione. La precondizione è costituire un “luogo politico” - Comitato popolare di resistenza per la cittadinanza attiva (CPRCA) – che nel territorio accolga, spogliati di ogni appartenenza partitica, sindacale, associativa, ogni individuo, ogni sincera compagna, ogni onesto compagno, disponibili tutte e tutti a proporre, organizzare e lavorare per un sistema che dal basso possa affrontare e risolvere i problemi della cittadinanza conferendo autonomia e responsabilità politico-amministrativa nuove ad ambiti istituzionali socio-territorialialmente “partecipati”, imponendo socialmente l'agenda politica. È il territorio è lo scenario entro il quale muoverci a fronte d'una socialità atonomisticamente frammentata e zone specializzate per funzioni. Costruire i CPRCA per ogni ambito territoriale provinciale può significare costruire un proprio “frame” capace di ricomporre politicamente il territorio regionale aggredendone i santuari del potere che da questa parcellizzazione egolatrica ne trae beneficio al fine di rideterminare forme di dominio. Sottrarsi ad ogni gioco politico eterodiretto dai “soliti noti” (partiti e personale politico ben retribuito) e vivere politicamente ed esclusivamente nello spazio/tempo della comunità in cui si riesce a giocare la propria “sottrazione” ed estraneità. Costruire nuove istituzionalità che si sviluppino nel tempo divenendo egemoni nella dimensione popolare delle forme di vita, esigendo “beni comuni” in ogni città del territorio d'appartenenza . . . . .
Tutti sono invitati ad avviare un discorso pubblico su questi temi.
“... Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente ...” - Tratto da “Ho fatto un sogno: Vivere il socialismo dell'armonia” di Zygmunt Bauman
venerdì 24 dicembre 2010
Gli "accordi separati" per Mirafiori, primi provvedimenti del "Governo Marchionne"
L'instabilità generata dalla conflittualità operaia è l'unica “variabile” indipendente, non governabile da Marchionne, il quale, ovunque presenti soluzioni “liquidazioniste” del contratto nazionale, dei diritti e del lavoro (rischiosa la situazione della SEVEL di Atessa destinata alla fine anticipata degli accordi FIAT-PSA nel 2014 anziché nel 2017, con in ballo 6200 posti di lavoro in azienda ed oltre 2000 dell'indotto nella sola Val di Sangro), troverà pane per i suoi denti, pur addestrati ad azzannare alla giugulare i lavoratori, nello sciopero generale e con l'unità antagonistica delle lotte sociali contrastanti il “regime FIAT”. Così si da vita alla vera “opposizione” politica.
Link: http://www.bolognacittalibera.org/profiles/blogs/svegliarsi-dallincubo-fiat
martedì 22 giugno 2010
Saldi di fine stagione politica


By Giovanni Dursi

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