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domenica 13 settembre 2020

Lettera aperta alla Ministra Lucia Azzolina - 14.09.2020

Lettera aperta

alla c. a. Ministra della pubblica istruzione, Lucia Azzolina

alla c. a. Viceministra On. Dott.ssa Anna Ascani

alla c. a. Sottosegretario Dott. Giuseppe De Cristofaro

Una delle conseguenze più drammatiche degli effetti della epidemia riguarda l’incremento complessivo dei decessi. Questo è quanto emerso già il 4 Maggio dal Rapporto ISTAT-ISS “Impatto dell’epidemia COVID-19 sulla mortalità totale della popolazione residente”. Nel primo trimestre dell'anno, si osserva a livello medio nazionale una crescita del 49,4% dei decessi per il complesso delle cause.



La mortalità così estesa che ha lambito le vita degli italiani, è il terrifico dato dal quale prendere le mosse per riflettere anche sulla scuola, certo senza lasciarsi irretire dall'emotività, dal dolore.

Attraverso il dolore condiviso stiamo riscoprendo il valore inestimabile dell'esistenza di ciascuno e dell'importanza delle relazioni nella polis. Tuttavia, rammarico e irritazione sociali sono legittimati dal fatto che – come in tante occasioni di disastri “naturali” è già accaduto – andando oltre lo stereotipo dell'imponderabile, scopriamo anche in questa circostanza che la virulenza insita nel dramma occulta responsabilità istituzionali e personali nell'amplificare il “danno”. Esattamente come nel caso dei terremoti che fanno soccombere migliaia di persone sotto le macerie perché gli edifici crollati non rispettavano criteri di costruzione antisismici, come nel caso del dissesto idro-geologico che evidenzia l'urbanizzazione selvaggia che ha favorito insediamenti a rischio, come nel caso di produzioni dannose per la salute pubblica e sconvolgenti l'equilibrio ecosistemico (riferimenti esemplificativi: Taranto e la valle di Bussi in Abruzzo).

È evidente – basta citare il dato dei medici ed infermieri morti che solo sei mesi fa avevano una diversa prospettiva di vita – che anche l’epidemia COVID-19 è stata colpevolmente affrontata in ritardo, con strutture socio-sanitarie palesemente disorganizzate, con il personale mandato allo sbaraglio, in modo tale da iniziare un efficace contrasto all'aggressività del virus unicamente con il “distanziamento sociale” piuttosto che con attività di prevenzione scientificamente condotta.

Questa premessa sulle responsabilità istituzionali e personali per ricordare che il Governo del Paese – se memore dei disastri precedenti –, a fronte di questa ennesima emergenza deve operare per il bene comune lasciando perdere la retorica e la fretta elettoralmente redditizia e decidere – su questioni che riguardano la sopravvivenza biologica e sociale di milioni di cittadini – utilizzando tutte gli strumenti disponibili e saggiamente indivisuati.

In particolare, va rammentato che l’articolo 42 comma 3 della Costituzione della Repubblica Italiana e l’articolo 834 del Codice civile stabiliscono che la proprietà privata può essere espropriata per pubblica utilità. Il fondamento costituzionale dell’espropriabilità è ancora più chiaro se si legge l’articolo 42 comma 3 in combinato disposto con l’articolo 2 della Costituzione, che sottopone i cittadini a “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Questa prospettiva fin'ora è stata bellamente disattesa e per oltre tre mesi ci si è adoperati in un balletto improduttivo con i partners europei e nella disturbante polemica interna tra i partiti. Provvedimenti risolutivi non sono stati presi in considerazione.

In virtù di questi doveri politico-amministrativi circa la “cosa pubblica”, l'inerzia indica inaffidabilità (si pensi alla possibile messa in valore sociale del circuito delle cliniche private). Rinunciando alla cosiddetta “patrimoniale” e alla facoltà d'esproprio (ben sapendo che il privato che subisce il provvedimento espropriativo ottiene un indennizzo, non un risarcimento), è stato accuratamente evitato che il bene espropriato necessario alla collettività nazionale potesse passare in capo alla pubblica amministrazione per ragioni di pubblica utilità, cioè nel perseguimento di un interesse pubblico, vale a dire della collettività organizzata della quale anche l’espropriato fa parte. Al contrario, il Governo si impegna a garantire, ad esempio, ingenti provvidenza alle scuole “private”, cancellando de facto la parte dell'art. 33 della Costituzione secondo il quale “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Questo lesiona il rapporto cittadini – Stato.

Questa argomentazione per dire che la ricchezza del Paese socialmente prodotta è disponibile, ma interessi privati imprigionano i decisori politici (a livello di governance “centrale” e “decentrata) dentro un'azione lobbistica e ricattatoria tale da far perdere di vista l'interesse generale, inducendoli a barcamenarsi nel rintracciare finanziamenti, sempre esigui, che solo apparentemente vanno nella direzione dell'inclusione sociale e del contrasto alle disuguaglianze.

La scuola diventa terreno di sperimentazione di tali interventi che – in definitiva – non fanno altro che esaltare la penuria, illudendosi di poter contare su una “massa critica” amorfa e sull'impegno, mai venuto meno del resto e di cui i media non forniscono adeguato riscontro informativo, etico-professionale di insegnanti, personale tecnico, amministrativo ed ausiliario. Quest'ultimi, oggettivamente assenti da “tavoli” di concertazione interistituzionale. Dist.me /mo Ministra della pubblica istruzione, Lucia Azzolina, Viceministra On. Dott.ssa Anna Ascani e Sottosegretario Dott. Giuseppe De Cristofaro: l'A. N. P. non deve essere unico interlocutore del Ministero !

A questo proposito, va detto con che lo scoppio del contagio, procurando la sospensione della didattica in presenza, tutti gli Istituti scolastici autonomi, con enormi difficoltà in quasi tutti i casi, si sono dovuti attrezzare per avviare, così come richiesto dalla normativa emergenziale, la formazione a distanza (meglio dire, piuttosto che DaD), revisionando la pianificazione e la programmazione delle attività curricolari e le correlate attività di erogazione di contenuti inter-transdisciplinari e di valutazione.

Prima constatazione: assoluta inadeguatezza del PNSD a guidare le scuole in un percorso di innovazione e digitalizzazione, come previsto nella Legge 107/2015, perché l'impostazione prevedeva un itinerario formativo dei Docenti che, nei cinque anni d'efficacia, si è interrotto e non ha raggiunto tutto il personale scolastico; figure di sistema numericamente esigue (animatori digitali uno per scuola e un team per l'innovazione a supporto) tanto è vero che di recente sono state integrate da (rif. all'articolo 1, commi 725 e 726, della Legge 30 Dicembre 2018, n° 145) con l'équipe formative territoriali a garanzia della diffusione di azioni legate al Piano, ma la cui azione di slancio operativo non ancora è stato possibile apprezzarla; da segnalare anche l'invadenza, percepita nettamente, delle aziende major nel campo dell'I. and C. T. e la subdola imposizione di “piattaforme” per aule virtuali spesso malfunzionanti e concepite senza aver recepito la necessaria consulenza da parte degli insegnanti (come quando il corpo debba indossare un abito di taglia diversa ...); inoltre, i contenuti erogati nei corsi PNSD a suo tempo organizzati, non sempre da esperti realmente portatori di competenze utili alla scuola, hanno avuto un impatto marginale sulla didattica ed oggi lo smart working dei Docenti manifesta tutte le carenze progettuali e l'eterogeneità didattiche che si riverberano sugli studenti in drammatiche diseguali opportunità d'apprendimento.


Il tema è proprio questo: quello della riproduzione delle disuguaglianze che va ben oltre il “divario digitale”
oggettivamente constatato. A ben guardare cosa sta accadendo nella diuturna attività d'insegnamento-apprendimento e d'organizzazione del servizio scolastico - entrambi non sono venuti mai meno, anche nei mesi estivi - che nel complesso non ha subito nessuna cesura: emerge con chiarezza il tema delle scelte familiari e dell’orientamento scolastico. Approcci d'analisi diversi, strutturale (Bourdieu) o interpretativo (Mehan) convergono nel rilevare che la scelta scolastica avviene dentro una dimensione strutturale, ovvero, essa si esplica in un quadro di «costrizioni» relative alla distribuzione spaziale delle scuole in relazione alla loro connotazione sociale differenziale.

Si sta mettendo in luce la struttura dello spazio sociale scolastico. Il Ministero ha i “radar” adeguati per percepirlo ? Le scuole sono differenziate in ragione della differente qualità sociale e scolastica del relativo pubblico. Alcuni studi di caso – pre-pandemici - hanno dimostrato che il processo di scelta in una dimensione micro nel quadro della famiglia avviene rispettando astoricamente l'immobile gerarchia sociale. La scelta scolastica appare così coerente con le precedenti esperienze scolastiche interpretate e mediate dall’ambiente familiare e sociale. D’altro canto, ogni scuola ha il proprio ‘modello desiderabile di studente’ così come un proprio ‘modello accettabile di Docente’ coerente con la propria tradizione e cultura organizzativa e istituzionale. L'inquietante fenomeno dell'insuccesso scolastico e formativo – che dovrebbe interessare in ogni passaggio epocale il Ministero e l'Olimpo pedagogico – e della sua distribuzione diseguale nella popolazione giovanile non sembra essere al primo posto nei pensieri degli strateghi di Roma che si attardano in video interviste ottimistiche e ammiccanti l'elettorato e garantiscono ope legis l'ammissione alle classi successive, anche con insufficienze, come ha precisato lei, Ministra Azzolina.

Abbandono scolastico e dispersione formativa non si contrastano con tali provvedimenti presi dietro l'alibi dell'emergenza. Dotarsi di una task force avulsa dall'esperienza della vita scolastica, forse, non è il miglior modo d'affrontare la questione, come è altrettanto suscettibile di perplessità l'emarginazione imposta ai Docenti (a tutti, fino a prova contraria), molti dei quali coinvolti 24H nell'ardua organizzazione del servizio scolastico (peraltro, pronti ad inviare il proprio CV ...), in questo arduo frangente, nel ridisegnare la scuola blended learning. Forse lei, giovane Ministra Azzolina e l'altrettanto nuova nell'incarico Sottosegretaria … non hanno esaustiva contezza dei profili tecnico-professionali e/o fiducia nell'operato, mal retribuito, dei Docenti ?

Nei mesi passati, durante il lockdown e dopo il coatto “ritiro sociale”, il dibattito sulla Dad è stato molto vivace, ma polarizzato prevalentemente sulla questione "risorse e strumenti", ma completamente avulso da una visione strategica che, senza “se” e senza “ma”, consideri priorità indifferibili hic et nun:

  • introdurre significativi cambiamenti nell'organizzazione della scuola pubblica e in particolare nella direzione di una autonomia dei singoli Istituti, ma sostenuta da patrimoni adeguati: nuovi edifici scolastici ecosostenibili e dotati ab origine di infrastrutture tecniche avanzate

  • predisporre – che si contempli, a questo proposito, anche il contributo professionale dei Docenti senior – un piano di qualificazione e aggiornamento professionali permanente dei milioni di insegnanti di ogni ordine e grado di scuola


Si ha l'impressione, peraltro vivida, precisa, che – viceversa – sussista solo la dimensione emergenziale volta a far affiorare situazioni pilota, situazioni di alta qualità, mentre altre situazioni vengano, come dire, abbandonate. Paradossalmente, ci vorrebbe un sostegno a quelle scuole che non riescono a decollare con l'organizzazione non per responsabilità proprie, bensì perché strutturalmente, politicamente emarginate. Se l'emergenza significa il venir meno di una rete statale di protezione complessiva della scuola pubblica, ecco questo può essere un serio pericolo, forse, anche al di sopra della piena consapevolezza del personale politico dedicato.

Coraggio, dunque, si faccia in modo che "Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza" per usare il Recovery Fund, con i 209 miliardi del Next Generation Eu, vedano l'istruzione, l'educazione e la formazione al centro di un algoritmico riformistico che sappia ben amalgamare digitalizzazione e innovazione, ristrutturazione produttiva “verde” e transizione ecologica, copiosa infrastrutturazione per la mobilità sostenibilità, protezione universalistica concernente la salute ed equità, inclusione sociale e territoriale.

Le scuole saranno più libere in un Welfare irrobustito ed alimentato, ma di fare che cosa ? La scuola non è solo un “contenitore” di contenuti, didattica, relazione, organizzazione; questa è una visione riduttiva che può portare a concepirla solo come una modifica del contenitore. La scuola è un contesto organizzativo istituzionale, ma non è solo questo: è un ambiente predisposto all’apprendimento ed alla produzione di civiltà. Se la scuola viene intesa come setting di apprendimento, allora è anche il luogo dove vige il primato dell’insegnamento. Vogliamo, dunque, repentinamente coinvolgere gli insegnanti nel ridisegno della scuola pubblica ? La scuola è anche il principale luogo sociale di promozione della “cittadinanza”, che ha non solo una dimensione simbolica. Si apprende ad “essere civili” se si è riconosciuti concretamente come tali.

Altri, pur apprezzabili, provvedimenti, sono – secondo i modesti pareri che qui si espongono – solo “pannicelli caldi” che decantano quanto si è fatto, ma occultano ciò che va ancora fatto, indifferibilmente.

Buon lavoro.

Prof. Giovanni Dursi

Docente MPI a t. i. di Filosofia e Scienze umane

Liceo statale G. Marconi di Pescara

14 Settembre 2020

sabato 7 ottobre 2017

Una prospettiva interpretativa dell’indipendenza della Catalogna


Il capitalismo globale pone da tempo [1] la questione della relazione causale tra finanziarizzazione ed interdipendenza subalterna delle economie nazionali ed annientamento delle ultime parvenze della democrazia parlamentare, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati fino all’affermazione del neoliberismo).
Con l’esperienza referendaria catalana (la partecipazione alla consultazione si è attesta sul 42%, su 5,3 milioni di persone aventi diritto: massiccia l’adesione all’opzione indipendentista, a favore della quale si sono pronunciati oltre 2 milioni di elettori, per una percentuale leggermente superiore al 90%; per il ‘no’ si sono invece espressi 176.565 elettori -7,8%-, per quanto ovviamente il fronte anti-indipendentista sia numericamente ben più nutrito e – secondo un sondaggio realizzato a luglio – conti circa il 49% della popolazione; 45.586 sono state le schede bianche e 20.129 i voti nulli) si è giunti ad una fase storica di svolta: quella che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia che fin qui si sono affermate.

Bisogna, conseguentemente, ricordare che il processo d’autodeterminazione di un popolo può avere per fine la modifica della composizione della società internazionale, per costruire un nuovo ente o rafforzare un ente già esistente, ma non ancora dotato di una posizione sufficientemente indipendente. Questa è la chiave di lettura di quanto sta accadendo in Catalogna: non si tratta né di «una messinscena, un ulteriore episodio di una strategia contro la convivenza democratica e la legalità» (M. Rajoy), né solo del protagonismo dei cittadini catalani che «hanno conquistato il diritto ad avere uno Stato indipendente che si costituisca sotto forma di Repubblica» (Presidente della Generalitat C. Puigdemont); trattasi, bensì, di una consultazione referendaria che – anche al di là delle intenzioni dei promotori – può veicolare una chiara, irreversibile rottura con quanto previsto dall’ordinamento e dalla Costituzione spagnoli dello Stato monarchico plurisecolare, e prefigurare elementi di progresso economico, sociale e politico-istituzionale. Se così non fosse – un laboratorio di sperimentazione di nuove istituzionalità popolari e di riorganizzazione solidaristica ed antimercantile della produzione -, se il pronunciamento referendario catalano non alludesse ad una contestuale battaglia contro la ristretta visione nazionale e nazionalistica, la tendenza all’isolamento autarchico avrebbe il sopravvento.

Nell’affermare l’esigenza della Catalogna all’autodeterminazione, il movimento propulsore, per essere internazionalmente efficace, deve rendere evidente che i vincoli caratterizzanti il gruppo sociale indipendentista si esprimano in relazione ad un’autonomia regionale rispetto allo Stato spagnolo che parli lo schietto linguaggio di fuoriuscita dalla logica rivendicazionista identitaria sociopoliticamente compatibile con il capitalismo globale e di sfruttamento territoriale in proprio di benefit economici. Da questo punto di vista, la brutale repressione del gendarme monarchico spagnolo – paradossalmente – è un segnale d’allarme significativo.

Infine, il balbettio formale dell’UE. serve solo a sottolineare come, ai sensi della Costituzione, il referendum non possa considerarsi legale, ribadendo che lo scontro tra Madrid e Barcellona è questione interna alla Spagna e va risolta in linea con l’ordine costituzionale spagnolo; da Bruxelles, la Commissione europea non manca retoricamente ed ambiguamente di evidenziare come oggi più che mai siano necessarie unità e stabilità: serve dialogo, senza ricorrere alla violenza, ma è evidente come l’enfatizzazione conservatrice europea dello status quo spagnolo si configuri come un’ingerenza, interferenza esterna in modo talmente sfacciato da precludere ai catalani l’effettiva partecipazione alla vita politica dei propri territori foriera di decisioni correlate alla volontà popolare.
[1] Cfr. Alfonso Gianni, “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale“, MicroMega, 18 Novembre 2013

domenica 1 maggio 2016

Il PRIMO MAGGIO

La scelta della data non fu certo casuale: si optò per il 1° maggio perché tre anni prima, nel 1886, un corteo operaio svoltosi a Chicago era stato represso nel sangue. A metà del 1800, infatti, i lavoratori non avevano diritti: lavoravano anche 16 ore al giorno, in pessime condizioni, e spesso morivano sul luogo di lavoro. Il 1° maggio 1886 fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. La protesta durò 3 giorni e culminò, il 4 maggio, col massacro di Haymarket: una vera e propria battaglia in cui morirono 11 persone. 
Perché il 1° maggio. Festa del lavoro o dei lavoratori ha una lunga tradizione. Il Primo maggio nasce infatti a Parigi il 20 luglio del lontano 1889. L’idea venne lanciata durante il congresso della Seconda Internazionale, che in quei giorni era riunito nella capitale francese. Durante i lavori venne indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.
Oltreconfine. L’iniziativa superò i confini nazionali e divenne il simbolo delle rivendicazioni degli operai che in quegli anni lottavano per avere diritti e condizioni di lavoro migliori. Così, nonostante la risposta repressiva di molti governi, il 1° maggio del 1890 registrò un’altissima adesione. Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi. Naturalmente Cuba, Russia, Cina, ma anche Messico, Brasile, Turchia e i Paesi dell’Ue. Non lo è, invece, negli Stati Uniti. Abolito dal fascismo. Nel 1923, sotto il fascismo venne abolito il 1° maggio e la festa dei lavoratori confluì nel Natale di Roma (21 aprile), leggendaria data di fondazione della Capitale, nel 753 a. C. Nel 1947 infine la festa del lavoro e dei lavoratori divenne ufficialmente festa nazionale.

venerdì 20 marzo 2015

Lettera alle lavoratrici e lavoratori

Care lavoratrici e cari lavoratori metalmeccanici, sabato 28 marzo ci ritroveremo a Roma per la dignità e la libertà del lavoro. Nei mesi scorsi, insieme, ci siamo battuti contro il Jobs Act del governo che non crea nuovo lavoro né affronta il dramma della precarietà e della disoccupazione giovanile. Insieme abbiamo proposto delle alternative e presentato le nostre idee frutto di tante assemblee e discussioni con voi. Ma il governo non ha voluto ascoltarci, ha messo in pratica le indicazioni di Confindustria, imboccato la strada della riduzione dei diritti, sposato le ricette di chi pensa che licenziando si crei nuova occupazione. Abusando della democrazia, il governo, a colpi di fiducia, ha ridotto il Parlamento a mero esecutore della sua volontà. La nostra lotta però non è finita con il varo del Jobs Act. Come promesso durante lo sciopero generale del 12 dicembre di Cgil e Uil, continueremo a spendere le nostre idee e le nostre energie per difendere il lavoro e i suoi diritti, cambiare il paese e renderlo più giusto.
Questo è un momento importante per il futuro di tutti noi, delle lavoratrici e dei lavoratori, del nostro sindacato che esiste e ha un senso solo se riesce a rappresentare democraticamente i vostri interessi e da voi riceve il sostegno, le idee e le energie necessarie. Per migliorare le condizioni del lavoro dipendente. Per rivendicare un sistema pensionistico più giusto con la riduzione dell’età pensionabile. Per dare un’occupazione a chi non ce l’ha con nuovi investimenti e con la riduzione dell'orario di lavoro. Per cancellare il precariato. Per combattere l'evasione fiscale e la corruzione. Per garantire il diritto alla salute e allo studio. Per istituire forme di reddito minimo. Per riconquistare veri contratti nazionali che tutelino il salario e diano uguali diritti a tutte le forme di lavoro. Per questo, nel ringraziarvi per quanto abbiamo fatto finora, vi invito a partecipare in massa alla manifestazione del 28 marzo. L'abbiamo chiamata “Unions!”, usando una lingua che non è la nostra ma utilizzando una parola che richiama le origini del movimento operaio e sindacale. Quando, tanti anni fa, lavoratrici e lavoratori senza diritti scoprirono insieme che per migliorare la propria condizione era necessario coalizzarsi e battersi per conquistare libertà e diritti comuni. Oggi milioni di lavoratrici e lavoratori hanno visto cancellati i diritti frutto di lunghe battaglie; altri milioni di lavoratrici e lavoratori quei diritti non li hanno neppure mai avuti, dispersi nelle tante forme di lavoro saltuario e sottopagato. Per tutte e tutti il lavoro sta diventando più povero e precario. Oggi abbiamo bisogno di riprendere il filo dell'impegno comune, delle lotte contro le politiche dei governi che in Italia e in Europa hanno voluto far pagare al lavoro il costo di una crisi prodotta dalla finanza e dalle speculazioni. Per dare rappresentanza al lavoro. Per confrontarci con tutte quelle realtà, associazioni, gruppi e movimenti che nella società affrontano e contrastano il degrado civile prodotto dalla crisi economica e dalla sua gestione politica. Per affermare i principi della nostra Costituzione.
Oggi abbiamo bisogno di un'alleanza, di costruire una coalizione sociale che unisca ciò che il governo e Confindustria vogliono separare, aggregando tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare con le metalmeccaniche e i metalmeccanici, con le delegate e i delegati, con le iscritte e gli iscritti alla Fiom. Per crescere e cambiare abbiamo bisogno di voi, perché la vostra partecipazione e la vostra intelligenza saranno la nostra comune forza. Vi aspettiamo a Roma il 28 marzo. E da lì continueremo insieme. Maurizio Landini

domenica 24 novembre 2013

… non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù ...

Ciascun individuo è tale poiché instaura relazioni con la realtà circostante. Il costante “riferirsi” all'altro da se, per definire il profilo stesso di soggettività, rende oggettivamente permeabile il confine del cosiddetto “ego” e l'esperienza della connessione scandisce di fatto l'esistenza individuale/collettiva. Nella transizione dal XVIII e XIX secolo la natura dell'interazione sociale storicamente determinata emerge culturalmente a coscienza e grazie a ciò Tocqueville ritenne la “massa” come moltitudine indifferenziata al suo interno, di aggregato omogeneo, in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo. L'industrializzazione e l'urbanizzazione connessa nei paesi occidentali più progrediti sono fenomeni d'esordio della società di massa. Nel XX secolo il quadro si raffina e completa in termini di omologazione: “Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati […]. La moltitudine improvvisamente si è fatta visibile […]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Oramai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro” (Josè Ortega Y Gasset, “La ribellione delle masse”, 1930). La gran parte delle persone vive in agglomerati urbani, medi e grandi. Gli esseri umani sono a più stretto contatto condizionante fra loro. Maggiore disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione pur con discriminazioni economiche d'accesso che ne differenziano sostanzialmente le condizioni di vita. Le relazioni sociali non si basano più sulle piccole comunità tradizionali. Le dimensioni etniche tendono a precipitare nel “globale”. Le relazioni sociali dipendono in una prima fase di affermazione del capitalismo dalle grandi istituzioni nazionali (apparati statali, partiti, associazioni, sindacati …), nella più recente dalle imprese multinazionali che sovradeterminano la vita di ciascuno. La subalternità dell'individuo è totale ed irreversibile.
Le organizzazioni capitalistiche che sovrintendono alla produzione ed al consumo di massa pesano sulle scelte di vita collettive e su quelle individuali. Si passa inevitabilmente dall’autoconsumo al circolo dell’economia di mercato. I valori tradizionali d'appartenenza lasciano il passo a nuovi modelli generali di mentalità e comportamenti eteroprodotti e “venduti” come indispensabili a ciascuno concorrendo a formare nuove dimensioni psicologiche e percettive inducendo alterazione etica ed annientamento del pensiero critico. Oggi il fronte delle innovazioni tecnologiche, di nuovi settori produttivi (informatica ed elettronica in primis, ma anche la chimica) trovano occasioni di imposizione di correlati stili di vita. La Cina s'affianca alla tradizionali potenze industriali, la Germania e gli Stati Uniti. Assistiamo ad uno sviluppo tumultuoso generalizzato della produzione in tutti i settori che devono innovare per sopravvivere nella competizione globale. L’indice di produzione industriale e quello del commercio raddoppiano fino alla fase di finanziarizzazione improduttiva, fino al collasso del sistema d'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta (crisi della fine del primo decennio del XXI secolo). I prezzi dei beni e servizi (compresi quelli erogati dal Welfare), che prima calavano costantemente, cominciano a crescere. Non crescono, viceversa, i salari (assolutamente meno dei prezzi), il PIL dei paesi industrializzati e la popolazione in questi paesi subisce la stagnazione e l'imperio aziendalista. Per conseguenza, l'allargamento del mercato comprime la domanda di beni e servizi di massa, essendo le classi subalterne depauperate (mediante la leva fiscale) ed impoverite materialmente non avendo retribuzioni sufficienti a riprodurre la forza-lavoro. Non nascono cicli di produzione industriale di nuovi beni di consumo e le reti commerciali di vendita e distribuzione (negozi, grandi magazzini, vendita per corrispondenza, rateizzazione e finanziamenti, pubblicità) sono diventati non-luoghi dell'alienazione di massa; la stagnazione della produzione induce una razionalizzazione produttiva che si sostanzia in tagli di servizi e personale. Dal 1913, quando a Detroit, negli stabilimenti Ford nasceva la prima catena di montaggio, ad oggi, si è passati dall'introduzione di nuovi metodi di produzione di massa (parcellizzazione del lavoro, taylorismo di cui in F.W. Taylor, “Principi di organizzazione scientifica del lavoro”, 1911) al neoschiavismo che ha fatto tramontare l'epoca dei consumi di massa, dei prezzi differenziati e competitivi, degli alti salari, del fordismo.
Di quella stagione resta solo la “massificazione”. L'uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali, schizofrenica mobilità e stratificazione sociale. La classe operaia già divisa nella trade-unionistica distinzione fra manodopera generica e lavoratori qualificati (aristocrazie operaie) rifluisce verso zone sempre più ampie di disoccupazione e precarietà aumentando consistentemente l'inadeguatezza nel conflitto organizzato. È soggiogata alla volontà ristrutturativa del capitalismo. Il cosiddetto ceto medio non aumenta la sua consistenza con i lavoratori autonomi e nuove professioni che ci si inventa (la mortalità delle Partite I.V.A. ne è la dimostrazione) per non essere triturati dalla crisi; i dipendenti pubblici e gli addetti del settore privato che non svolgono attività manuali (tecnici, commessi, impiegati…) stanno scomparendo a causa della privatizzazione selvaggia che può fare a meno di dipendenze a tempo determinato e di contrattualizzazione; scompaiono anche i “colletti bianchi” creando fenomeni di contrapposizione tra borghesia impiegatizia e proletariato per reddito “non garantito”, sterilizzando l'autonomia degli individuo in termini di usi, costumi e aspirazioni e organizzazione/progettazione esistenziale.
La contrarietà ai sindacati a in generale alle organizzazioni di massa pare essere l'unica difesa alla spoliazione in atto. L'individualismo, la rispettabilità dell'appropriazione selvaggia di proprietà private (criminalità tout court), la fine del risparmio familiare, il riproporsi virulento di un senso subalterno della gerarchia sociale, forme risorgenti di ignoranza patriottistica diventano forme evidenti, sempre più importanti (poiché incidono nel disegnare opzioni di dominio sulle coscienze individuali), di percorsi personali e collettivi di fuoriuscita dalla “crisi”col crescere della società globale di massa rappresentati da caotici flussi migratori. Destinatari non più di beni di consumo, di diritti politici (elettorato di massa) che ne potrebbero far oscillare le simpatie, ora progressiste ora conservatrici, i diseredati del XXI secolo hanno un'unica alternativa: o soccombere o emanciparsi perseguendo con convinzione l'obiettivo dell’organizzazione ed intraprendendo la battaglia politica collettiva che produce di per sé più diritti; all'omologazione subalterna va opposta la solidarietà e lo spirito di classe, l'internazionalismo, fondamentale coll'espansione dello sfruttamento globale; il proletariato torna ad essere il motore del progresso perché lotta per i diritti collettivi e per la ridistribuzione del reddito si unisce e si concretizza nella lotta per il potere politico conquistato mediante rivoluzione sociale. La società di massa e “democratica” non è lo stesso della società socialista.
L'attuale soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Karl Marx la suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo egli vedrà la piena realizzazione umana. In una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus: “Io, t’assicura, non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù. Meglio d’assai lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero di Giove”. La rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione, ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e di un proletariato cosciente va nella stessa direzione.
La concezione comunista del mondo è, come ogni scienza, opera degli uomini. I comunisti la devono non solo applicare. Prima ancora la devono elaborare e sviluppare all’altezza dell’opera che devono compiere: per costruire un grattacielo occorre una scienza delle costruzioni più sviluppata di quella necessaria per costruire una casetta. Per questo diciamo che essere marxisti non significa fare l’esegesi delle opere di Marx e degli altri dirigenti del movimento comunista (“cosa ha veramente detto Marx”, ecc.). Sono marxisti quelli che elaborano dall’esperienza la scienza della lotta della classe operaia che si emancipa dalla borghesia costruendo la società comunista. Il movimento comunista cosciente e organizzato non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, neanche durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, quando per effetto della prima crisi generale del capitalismo la borghesia stessa aveva sconvolto i suoi ordinamenti nei singoli paesi e il suo sistema di relazioni internazionali e precipitato tutto il mondo in ben due guerre mondiali complessivamente durate più di 30 anni (1914-1945), principalmente perché i comunisti non hanno elaborato la concezione comunista del mondo all’altezza del compito che dovevano svolgere. Gli interessi della borghesia e del clero congiuravano con l’ignoranza naturale (conforme cioè alla loro natura di classi oppresse) in cui le classi dominanti tengono le classi oppresse (“lei non è pagato per pensare”, “qui non si fa politica”, ecc. ecc.) e con la pigrizia e il dogmatismo di tanti comunisti pur onestamente devoti alla causa della rivoluzione che tuttavia riducevano il marxismo all’esegesi dei testi e a una fede religiosa nei dogmi, mentre nell’azione pratica, pur eroica, si orientavano a naso, secondo il senso comune (cioè nei limiti di proteste e lotte rivendicative). Va superata – tra l'altro - l’inerzia teorica del movimento comunista dei paesi imperialisti e il suo venir meno ai compiti suoi propri. Così come è al primo posto dell'ordine del giorno della storia l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario.

sabato 24 novembre 2012

Il Gattopardo disse: Much ado about nothing !

Desidero chiarire pubblicamente – nel vivo di manifestazioni sociali importanti contro le politiche governative neoliberiste – che, in tutta Italia, i comunisti non devono partecipare alla giostra impazzita delle cosiddette elezioni primarie nazionali del centrosinistra del prossimo 25 novembre e invitare le soggettività antagoniste e militanti a non andare a votare, né in questa occasione, né alle elezioni politiche del 2013. Intanto le “primarie” si svolgeranno all’interno del recinto dell’accettazione dei trattati europei e quindi delle politiche neoliberiste. Le forze che vi hanno aderito (compreso SEL) sono perfettamente consapevoli che dovranno ripercorrere in toto l’unica via tracciata dal governo Monti, ossia le politiche ultraliberiste e fomentatrici di una gravissima ingiustizia sociale attuate da questo esecutivo di “tecnici” al servizio del capitalismo delle multinazionali, FMI, BCE. Chiunque vincerà le primarie sarà schiavo dei binari del montismo e dovrà comunque e in ogni caso rendere conto al pensiero unico di un’economia finanziaria dominatrice incontrastata sugli stati, sulla democrazia e sulla vita dei cittadini e dei lavoratori. La battaglia referendaria sulla difesa dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale, che si sta attuando in questi mesi per cancellare le scandalose “riforme” su articolo 18 e pensioni realizzate dal ministro Fornero, sarebbero in assoluta contraddizione se si partecipasse al banchetto di chi queste “riforme” non solo le ha votate, ma le ha anche appoggiate in pieno, ossia, il Partito Democratico infarcito di ex democristiani e di neo aziendalismi alla Renzi, tutti insieme nel “club dei progressisti” che annovera personaggi come D’Alema, fiero di pensarla sui flussi migratori e le politiche d’accoglienza come Fini.
Per questo si propone la costruzione di un Comitato popolare per la resistenza e la cittadinanza attiva (CPRCA) contro il neoliberismo ed i suoi agenti di “destra” e di “sinistra”, per un progetto di alternativa popolare allo Stato/Impresa e per la riforma radicale delle politiche sociali. La proposta politica si rivolge agli attivisti dei movimenti antagonisti, lavoratori di fabbrica, ai disoccupati, alle forze che hanno partecipato alla manifestazione del no Monti day del 27 ottobre, al complesso delle forze associazionistiche, sociali, culturali e di movimento disponibili, ed è finalizzata a costruire un ampia mobilitazione sociale permanente che si ponga l’obiettivo di rivoluzionare l’attuale orizzonte del conflitto su un programma antitetico a quello imposto da Monti e dalle politiche europee, di impianto marxista-leninista. In questo quadro riteniamo che l’appello “Cambiare si può”, promosso da una serie di autorevoli personalità della “sinistra”, Luciano Gallino (professore sociologia, Università di Torino), Livio Pepino (magistrato, responsabile Edizioni Gruppo Abele), Marco Revelli (professore di scienza della politica, Università del Piemonte orientale), don Marcello Cozzi (vicepresidente nazionale Libera), Antonio Di Luca (operaio, Fiom, Pomigliano), Chiara Sasso (scrittrice, Coordinamento Rete dei Comuni Solidali), Vittorio Agnoletto (medico), non deve registrare una consonanza di proposta perché l’appello ricade dentro la logica di “compatibilità di sistema”. A partire da questa presa di posizione, si propone il NO VOTO piuttosto che dare ancora adito all’equivoco fatale di confondere la “partecipazione” con l’aderire alle iniziative quali l’assemblea convocata per il 1° dicembre al fine di concretizzare un percorso di costruzione della lista unitaria di sinistra. Parimenti le posizioni del sindaco di Napoli De Magistris, la dialettica aperta all’interno dell’Italia dei Valori, come anche posizioni presenti territorialmente e nazionalmente all’interno di Sinistra Ecologia e Libertà. Il rifiuto di tutto ciò conferma la possibilità di costituire il CPRCA distanziandosi dall’ipotesi in campo di allargare le forze che possono essere coinvolte nella costruzione di un polo della sinistra di alternativa. Il polo che vogliono costruire è pura sommatoria elettorale, non un progetto politico di ricostruzione aperta e partecipata di una soggettività proletaria che si oppone al montismo di oggi e a quello di lungo periodo, determinato dall’accettazione dei vincoli europei e del Fiscal Compact. La partecipazione all’assemblea prevista per il 15 dicembre in continuità con la manifestazione del No Monti day deve essere vissuta nella consapevolezza che la costruzione di un processo inclusivo e partecipato, quello del CPRCA, allarghi il terreno del coinvolgimento politico popolare, che porti alla realizzazione in Italia del progetto di CPRCA piuttosto che emulare la costruzione in Italia del corrispettivo di Syriza (Grecia), del Front de Gauche (Francia), di Izquierda Unida (Spagna), della Linke (Germania). L’obiettivo fondante del progetto politico del CPRCA, è subordinare ogni percorso antagonista al rifiuto della mediazione politico-sindacale e statuale, ed alla esplicazione della lotta tra le classi in tutte le sue dirompenti forme, creendo nuove istituzionalità autogestite.
Novembre 2012 Consultare: - http://www.globalproject.info/it/community/e-il-gattopardo-disse-much-ado-about-nothing-/12883 - http://www.globalproject.info/it/community/impasse-nella-pubblica-distruzione/12882

lunedì 12 novembre 2012

Dal 14 Novembre internazionalista, un percorso verso il “campo base”

I proletari devono perdere la brutta abitudine, contratta con la frequentazione dei partiti revisionisti e dei sindacati confederali, del “far politica” e cominciare a pensare e ad agire nei termini di “rivoluzione”. Questo vuol dire che vita privata e vita pubblica, dimensione interiore e dimensione esteriore del proprio essere sociale devono essere composti e riarmonizzati. La rivoluzione non si può fare part time e per i proletari non c'è neppure la settimana corta; vuol dire ancora che ci si responsabilizza in prima persona rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti omologanti di subalternità classista, e ci si rende conto delle scelte che si riterranno più opportune per moficare radicalmente ed irreversibilmente lo stato presente di cose. Inoltre, la “calamità occorsa nel 1989” avrà pure una sua “ragione”; comunque, bisogna farsene una “ragione” piuttosto che rimenere ancora ad “osservare inorriditi gli effetti devastanti” del crollo murario. I punti di riferimento dei proletari coscienti della propria condizione e della situazione economico-sociale sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti antagonisti metropolitani; in una parola la tradizione scientifica del movimento operaio e rivoluzionario internazionale. È necessario capire bene la seguente affermazione: “per favorire il processo rivoluzionario, occorre riappropriarsi delle esperienze del passato, a cominciare dall’organizzazione politica per finire nell’edificazione reale del socialismo, dove il proletariato ha dimostrato di aver affrontato correttamente le questioni poste all’ordine del giorno dal progresso umano”. Questo vuol dire anche che non vanno accettati in blocco gli schemi che hanno guidato le organizzazioni operaie ed i partiti comunisti europei nella fase otto-novecentesca della loro storia soprattutto per quanto riguarda la questione del rapporto tra organizzazione politica di massa e organizzazione pratica della rivoluzione, secondo la concezione di Lenin e le prassi che è stato in grado d'adottare per vincere.
Con la crisi del capitalismo globale ed il massacro sociale, spacciato dai governi in carica per “risanamento” dei debiti sovrani degli Stati – attestati mediamente intorno al 120% del PIL -, con il permanente ricatto “democraticista” di nuove elezioni politiche foriere di chissà quali sorti magnifiche e progressive, la dittatura borghese del capitale nazionale e multinazionale cerca di frenare lo sviluppo delle lotte proletarie e delle soggettività antagoniste. Ora, vuole ottenere la “pace sociale” per rideterminare forme di dominio assoluto, per organizzare “territori programmati per la quiete” non più attraverso un progetto “riformista” e “socialdemocratico”, ma con il progetto della restaurazione integrale del “comando capitalista” guidato della “destra liberista”, braccio armato delle multinazionali e dei direttori finanziari sovranazionali. Per quanto abituati al linguaggio criptico degli agenti politici del capitale globale, la resistenza popolare all'incedere delle crisi ristrutturativa dell'impresa multinazionale non si perde in quel fiume di parole nelle quali i destinatari possono oggi scorgere amare menzogne, intenti manopolatori e inibizione dell'immaginario trasformativo. Nel parlamento italiano, con l'unione delle forze che hanno determinato l'operare del governo Monti, si è realizzata l'evidenziazione del contrasto sociale tra classi contrapposte, del conflitto tra Stato e popolo, tra direzione capitalistico-borghese dell'economia ed antagonismo delle forme delle moltitudini in rivolta. Nei tribunali, con i magistrati che amministrano la “giustizia” perseguendo i senza denaro. Nei quartieri, con la polizia e con i fascisti che collaborano sempre più strettamente per stroncare il movimento di resistenza popolare. Nelle fabbriche, con i padroni che licenziano e discriminano gli operai d'avanguardia; con la polizia e i fascisti armati che attaccano i picchetti; con i sindacati collaborazionisti. Di fronte a questo progetto, che ha come base la repressione del conflitto, la risposta dei comunisti e resistenti non può essere il voto. Compito fondamentale è ora organizzarsi e organizzare la lotta di classe per schiacciare tutti i nemici del popolo. La crisi irreversibile che l'imperialismo sta attraversando mentre accelera la disgregazione del suo potere e del suo dominio tradizionale basato sulla “mediazione politico-partitica”, innesca nello stesso tempo i meccanismi di una profonda ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il paese sotto il controllo totale delle centrali del capitale multinazionale e soggiogare definitivamente il proletariato. La trasformazione nell'area europea degli Stati-nazione di stampo liberale in Stati imperialisti delle multinazionali (Sim) è un processo in pieno svolgimento anche in Italia. Il Sim, ristrutturandosi, si predispone a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economico-strategici globali dell'imperialismo, e allo stesso tempo ad essere organizzazione della contro rivoluzione preventiva rivolta ad annichilire ogni “velleità” rivoluzionaria del proletariato. Per trasformare il processo di guerra civile strisciante, ancora disperso e disorganizzato, in una offensiva generale, diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare e unificare il movimento di resistenza proletario offensivo costruendo l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, il “campo base” proprio. Movimento e partito non vanno però confusi. Tra essi opera una relazione dialettica, non un rapporto di identità. Ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l'avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria e organizzazione stabile e infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario. Agire da partito vuol dire collocare la propria iniziativa politica generale all'interno e al punto più alto dell'offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ogni congiuntura, ad essere, così, di fatto, il punto di unificazione del dell'antagonismo diffuso, la sua prospettiva di potere. Milioni di lavoratori e i comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di questi anni non possono più aver fiducia nella “mediazione politico-sindacale” che ha creato intenzionalemente le condizioni di confusione e distorsione degli interessi di classe da parte degli anticomunisti di destra e di sinistra. Per le masse l'organizzazione politica metropolitana vorrebbe dire estensione quantitativa del modello e della pratica della lotta politica per il comunismo, perché consentirebbe di affondare la progettualità del programma e delle pratiche rivoluzionarie nel cuore pulsante della classe.
L'arma della critica non è mai stata sufficiente a gestire il salto al contropotere proletario, bensì ha anestetizzato essenzialmente una pratica sociale unitaria di coscientizzazione. L'agire da partito irradia la consapevolezza, la conformità degli scopi, la progettualità del programma lungo tutto l'arco delle contraddizioni di classe all'interno di tutte le figure della composizione di classe e in tutte le determinazioni dell'antagonismo diffuso. Il tutto non in maniera pedagogica o nostalgica, ma dirigendo sempre più estese e profonde pratiche di contropotere e trasformazione sociale; è in questo modo che la classe si renderebbe sempre più consapevole della sua missione storica e dell'immane opera di autentica rivoluzione globale cui deve attendere. Il salto politico-organizzativo in seno alle masse significherebbe dar corso, attuazione e sviluppo a questa opera di rivoluzione globale nel divenire delle contraddizioni di classe; col dischiudersi di orizzonti così ampi, il soggettivismo, lo spontaneismo, il “delirio comunicativo” indotto dagli stessi social network e l'organizzativismo plateale sarebbero definitivamente spiazzati. Concludendo, questo procedere intenzionale verso la rivoluzione proletaria è un patrimonio incancellabile della lotta di classe e della storia delle organizzazioni comuniste. Viene affermato che lo sviluppo della lotta di classe ha storicamente affinato e perfezionato la teoria-prassi e la metodologia politico-organizzativa di costruzione del partito. Questa teoria-prassi e questa metodologia sono, insieme, un caposaldo da cui non è possibile prescindere. Ci si riferisce ai principi strategici unità-crisi-unità e lotta-critica-trasformazione. La battaglia politica così condotta chiarisce in termini di unità-crisi-unità e di lotta-critica-trasformazione la linea corretta e quella sbagliata. Isola la linea errata e la sconfigge e dunque recupera, riunifica e assesta tutta l'organizzazione sulla linea corretta. La battaglia politica serve a determinare nuove unità a un livello superiore, dentro sintesi generali che rideterminano, congiuntura dopo congiuntura, il programma strategico dell'organizzazione comunista.