È il titolo forte, quasi lancinante, di un rapporto pubblicato nel giugno 2015 da Amnesty International, per denunciare la repressione del dissenso nel nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi
. Sono le storie di 14 giovani, attivisti per i diritti
umani, studenti, blogger, arrestati assieme ad altre migliaia di persone
per la loro partecipazione alle proteste, mentre le autorità
giustificavano il giro di vite sottolineando la necessità di garantire
sicurezza e stabilità al paese.
Era il 25 gennaio 2011 quando, per la
prima volta, l’avanguardia di Tahrir occupava la piazza fino a farla
straripare di gente, sognando un Egitto finalmente libero dai
trentennali giochi di potere della cricca mubarakiana. Tutto era
cominciato nel centro tunisino di Sidi Bouzid, nel dicembre precedente,
quando con un gesto estremo di protesta il venditore di frutta Mohamed
Bouazizi aveva risposto alle angherie subite dalle autorità dandosi
fuoco. Lì avevano iniziato a germogliare i gelsomini della rivoluzione,
che avrebbero portato in meno di un mese alla caduta del presidente Ben
Ali. I venti delle primavere arabe superarono rapidamente i confini
tunisini, prendendo a soffiare impetuosi sulla cruciale regione
geopolitica del Grande Medio Oriente. Quella di Mubarak
fu la seconda dittatura a capitolare, aprendo la strada a un futuro
ricco di incognite ma altrettanto denso delle speranze di tanti
egiziani. Nel giugno del 2012, dopo oltre un anno di reggenza del
feldmaresciallo Tantawi, la vittoria alle elezioni presidenziali di Mohammed Mursi,
esponente del partito Giustizia e libertà, emanazione diretta della
Fratellanza musulmana. È una parentesi che dura solo un anno: la piazza
si ribella ai decreti dal sapore neofaraonico emanati dal capo dello
Stato e la protesta monta, fino all’ultimatum dell’esercito. Il 3 luglio
Mursi viene deposto: non un golpe, dicono i militari, ma una risposta
alle rivendicazioni popolari. La transizione è affidata al presidente
della Corte costituzionale Adly Mansour e nel frattempo comincia a
imporsi la figura del generale al-Sisi, che smette la divisa e - come
prevedibile - si candida alle elezioni presidenziali del maggio 2014,
stravincendole con quasi il 97% dei consensi.
Oggi, a più di 5
anni da quel 25 gennaio 2011, il sogno di un futuro diverso coltivato
dai manifestanti d’Egitto al grido di ‘pane, libertà e giustizia
sociale’, resta un ricordo sbiadito. E, denuncia Amnesty, la
‘generazione della protesta’ del 2011 è diventata nel 2015 una
‘generazione in galera’. Appartiene a questa gioventù Alaa Abdel Fattah,
attivista e blogger, condannato nel febbraio 2015 a 5 anni di
reclusione per aver violato la legge che non consente manifestazioni
senza autorizzazione; ne fa parte l’avvocatessa per i diritti umani
Mahienour el-Masry, arrestata con l’accusa di aver attaccato la stazione
di polizia di El-Raml nel marzo del 2013; ne è invece da poco uscita
Yara Sallam, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, condannata
per protesta non autorizzata e poi graziata nel settembre 2015 dal
presidente al-Sisi.
Per il quinto anniversario della
Rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, il governo era stato chiaro,
ricorrendo addirittura a motivazioni religiose per spiegare la sua
posizione: era necessario non cedere alle sirene della protesta che
riecheggiavano sui social media, perché trascinare il paese nel caos e
nella violenza ‘va contro i principi della sharia’. Nel
frattempo, gli amministratori di alcune pagine Facebook erano già stati
arrestati con l’accusa di aizzare contro le istituzioni dello Stato e di
far parte della Fratellanza musulmana, tornata nuovamente fuorilegge.
Il giorno di quel quinto anniversario ha segnato anche l’Italia, perché
al Cairo si perdevano le tracce del giovane ricercatore Giulio Regeni,
dottorando all’università di Cambridge e impegnato nello studio dei
sindacati indipendenti in Egitto. Il suo corpo senza vita sarebbe stato
ritrovato il 3 febbraio, portando con sé mille interrogativi per quegli
evidenti segni di tortura che hanno subito fatto affiorare il più
terribile dei sospetti, quello di un coinvolgimento dei servizi di
sicurezza. Le autorità egiziane hanno promesso di fare piena luce sul
caso e assicurato la loro collaborazione agli investigatori italiani, ma
le contrastanti versioni sull’accaduto che giorno dopo giorno arrivano
dalle rive del Nilo appaiono immediatamente poco credibili, dalla
notizia di un incidente stradale, all’ipotesi di un omicidio collegato
al mondo della droga, alle voci di un presunto delitto a sfondo
sessuale. Poi ricompare la pista della criminalità comune, vengono
mostrate le fotografie dei documenti di Giulio, che sarebbe stato
assassinato da una banda specializzata nel rapimento di cittadini
stranieri i cui membri - ovviamente uccisi - erano soliti travestirsi da
poliziotti. Anche questa tesi tuttavia non regge: il borsone rosso
mostrato negli scatti non sarebbe infatti del ricercatore italiano;
decisamente improbabile poi che dei criminali comuni conservino per mesi
i documenti di una loro vittima. Il governo italiano, lasciando
trasparire irritazione, mantiene ferma la sua posizione e ribadisce che
non accetterà verità di comodo; da parte sua Il Cairo fa sapere che il
caso non è chiuso e le indagini proseguono. In attesa dell’incontro a
Roma tra gli investigatori italiani e i loro colleghi egiziani – fonti
parlano di un dossier di 2000 pagine – il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni
ha rimarcato che, senza un vero cambio di marcia, l’Italia è pronta a
reagire con misure tempestive e proporzionate. Parole che, ovviamente,
Il Cairo non ha gradito.
L’Egitto continua a essere un attore
di grande rilevanza nello scacchiere del Grande Medio Oriente, oggi in
particolar modo per la sua prossimità al magmatico fronte libico e per
la lotta contro un terrorismo che nell’incontrollato Sinai – con
l’attentato all’aereo russo dell’ottobre 2015 – ha dimostrato di poter
colpire con drammatica brutalità. Alle dinamiche geopolitiche si
affiancano poi importanti interessi economici, che coinvolgono le
principali potenze occidentali e anche l’Italia, peraltro non solo
attraverso l’ENI.
Per gli eredi dei faraoni il momento è
delicato, con una crescita economica in fase di rallentamento e carenti
riserve di valuta estera. Le difficoltà hanno determinato un calo della
popolarità del presidente, ma secondo gli analisti al-Sisi può per il
momento restare tranquillo sia perché – come ha ricordato Eric Trager su
Foreign Policy – dopo anni convulsi gli egiziani sembrano poco
propensi a nuove sollevazioni, sia perché – hanno evidenziato Marina e
David Ottaway per Foreign Affairs – il capo dello Stato controlla saldamente le istituzioni del paese.
Sul caso Regeni sarà necessario fare chiarezza nel più breve tempo
possibile, senza dimenticare – riportando le parole di una risoluzione
comune votata dal Parlamento europeo nel mese di marzo – che purtroppo
non si tratta di un ‘evento isolato, ma si colloca in un contesto di
torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto
l’Egitto negli ultimi anni’.
C’è ancora troppo buio lungo le sponde del Nilo.
03 dicembre 2012
L’Egitto: un potenziale perno diplomatico negli equilibri geopolitici medio orientali
Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno
costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe”
(l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in
corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella
situazione nazionale dei Paesi coinvolti. Il costante aumento dei
prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli
elefantiaci apparati burocratici di
regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie
al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della
popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni,
producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali
dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali
mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno
tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi –
quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica
globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno
travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una
vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e
sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo
geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato
sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie
internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato
scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e
storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma
risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad
“ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in
realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte
affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a
riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello
sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del
“grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il
carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica
post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla
giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire
che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta
alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le
incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti,
in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di
maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è
verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo
elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari
candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al
ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà”
diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro
dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la
vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo
presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi
mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato
costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato
con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e
ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche
previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova
stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà
molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si
può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano
verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato,
per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è
stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che
effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo
sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai
tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata
durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si
trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita
da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono
le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico
di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti.
Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso
Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti
economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito
(1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può
permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare
dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale,
istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed
israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono
però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di
ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele
per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza
dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La
nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare
l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti
in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria
ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele
sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati
equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è
una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena
internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio
oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai
tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice
dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del
Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e
timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in
Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed
emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di
fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani
dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto
partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore
sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che
supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti
risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a
Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la
negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre.
Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con
questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della
retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo.
L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello
Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal
plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come
difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri,
annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino
richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid
di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui
Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali,
l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar
si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi
proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali,
ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti)
di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il
Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla
nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui
hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente;
sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la
crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui
l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese
riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso
sarà sulla scena internazionale.
28 giugno 2012
La presidenza dell’Egitto ai Fratelli musulmani: una vittoria a metà
Mohammed Mursi, il candidato dei Fratelli musulmani, è il primo Presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto
post-Mubarak. Questo è quanto comunicato da Faruq Sultan, presidente
della Commissione elettorale, che domenica scorsa [24 giugno ndr] ha
finalmente diramato i risultati, ad una
settimana dalla conclusione del ballottaggio. A detta della
stessa Commissione, Mursi ha vinto la corsa alla presidenza
aggiudicandosi 13.2 milioni di voti, ovvero il 51% dei consensi. Il suo
rivale, Ahmed Shafiq, ne ha invece ottenuti 12.3 milioni. Circa 800 mila
schede sono state invalidate.
Una settimana piena di tensioni
A causa dei continui rinvii da parte della Commissione, tutta la
settimana è trascorsa in Egitto nell’attesa dei risultati ufficiali, con
i due candidati che facevano a gara nel dichiarare, cifre alla mano, di
aver ottenuto il maggior numero di voti, accusandosi reciprocamente di
brogli.
Parallelamente a questa guerra dei numeri, le piazze
egiziane si sono nuovamente riempite dei sostenitori dei due candidati.
Durante la settimana la preponderanza delle manifestazioni a sostegno
del candidato dei Fratelli musulmani è stata costante, anche grazie
all’affluenza di quanti percepivano la possibile vittoria di Shafiq
come un ritorno al potere del vecchio regime. L’ultimo evento di questa
battaglia a distanza si è svolto sabato scorso [23 giugno ndr], quando
migliaia di sostenitori di Ahmed Shafiq hanno manifestato contro i
Fratelli musulmani ed il loro candidato, occupando alcune delle più
importanti strade di Nasr City, al Cairo. A poche centinaia di metri di
distanza, un’imponente manifestazione aveva luogo nella centrale Piazza
Tahrir, tradizionale epicentro delle proteste contro il regime, animata
principalmente dai sostenitori degli Ikhwan.
Una vittoria a metà
La vittoria di Mursi ribadisce quello che le elezioni parlamentari di
qualche mese fa avevano già annunciato, ovvero che i Fratelli musulmani
rimangono la forza politica meglio organizzata e maggiormente radicata
nel paese.
Non solo. La sua vittoria conferma allo stesso tempo la
notevole capacità di negoziazione del movimento con chi detiene il
potere. Questa abilità ha permesso alla Fratellanza di sopravvivere
politicamente anche nei momenti di più dura repressione, come nel
secondo quinquennio di Sadat, o nell’ultimo decennio del regime di
Mubarak. Oggi come in passato, accanto alle imponenti manifestazioni di
piazza promosse dalla struttura organizzativa dei Fratelli musulmani, i
negoziati con le forze militari si sono susseguiti senza soluzione di
continuità. Numerosi quotidiani arabi hanno riportato i dettagli degli
incontri prodottisi all’indomani della tornata elettorale; tra i più
risolutivi l’incontro avvenuto tra i generali del Consiglio Supremo
delle Forze armate (SCAF) e il leader della Fratellanza Khairat
al-Shatir, per la definizione dei poteri del nuovo Presidente.
A
seguito dei provvedimenti presi dalle alte sfere militari negli ultimi
giorni, ancora non è chiaro in effetti che ruolo potrà svolgere il nuovo
Presidente egiziano nei prossimi mesi. Mursi si trova infatti privo del
sostegno del Parlamento, disciolto dopo che lo scorso 14 giugno la
Corte costituzionale suprema ha dichiarato incostituzionale alcune parti
della legge attraverso la quale si sono regolamentate le elezioni
parlamentari. Tre giorni dopo lo SCAF ha inoltre pubblicato sulla
Gazzetta ufficiale egiziana una Dichiarazione di modifica del testo
costituzionale che gli stessi militari avevano promulgato lo scorso 30
marzo 2011. Con tale dichiarazione sono stati ulteriormente limitati i
poteri del Presidente egiziano, a tutto vantaggio del Consiglio Supremo
delle forze armate, che deterrà il potere legislativo fino alla
formazione di un nuovo Parlamento; secondo questa dichiarazione lo SCAF
avrebbe inoltre il potere di nominare una nuova Assembla costituente
qualora quella esistente “incontri degli ostacoli che possano impedirne
il regolare svolgimento dei lavori”. Come ha affermato Ahmed Raghib
dell’Hisham Mubarak Law Center lo scorso 19 giugno sulle pagine del
quotidiano al-Shuruq, con questo nuovo emendamento il Consiglio Supremo delle forze armate è oramai “il vero capo dell’Egitto”.
La strategia dello SCAF è sin troppo chiara. Sarà da vedere invece
nelle prossime settimane quale atteggiamento adotteranno i Fratelli
musulmani e soprattutto se i negoziati degli ultimi giorni abbiano
realmente definito i limiti dell’azione che il movimento potrà svolgere
sullo scenario politico egiziano.
Un primo indizio delle prossime mosse sarà dato dall’atteggiamento che gli Ikhwan
adotteranno nei riguardi dell’avvenuto scioglimento del Parlamento
egiziano. Sabato 16 giugno il Partito Libertà e Giustizia (braccio
politico dei Fratelli musulmani) aveva infatti rilasciato un comunicato
nel quale rifiutava categoricamente la decisione della Corte Suprema di
invalidare le elezioni parlamentari. Ancora mercoledì scorso [20 giugno
ndr] l’omonimo quotidiano del partito insisteva nel diramare una road map
per i prossimi mesi, nel caso di vittoria del proprio candidato. Tra i
punti salienti vi era il “ripristino del disciolto Parlamento”.
L’atteggiamento del movimento nelle prossime ore potrà essere quindi
rivelatore. Certo è che la vittoria di Mohammed Mursi, per quanto
ufficiale, non sembra sancire la fine del tribolato processo di
transizione egiziano.
06 giugno 2012
Le complicate elezioni in Egitto
Il primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto, che si è
tenuto il 23 e 24 maggio scorsi, ha condotto a un risultato largamente
inatteso da chi pronosticava la vittoria degli esponenti del
rinnovamento politico e una fluida transizione verso la normalizzazione.
Il testa a testa del candidato islamista conservatore Mohamed Mursi e
di Ahmed Shafiq, militare e uomo di Mubarak – insieme al terzo posto di Hamdin
Sabahi, oppositore del regime in nome del ritorno
all’ortodossia rivoluzionaria nasserista – ha invece riconfermato la
polarizzazione dell’opinione pubblica fra il blocco islamista e la
fedeltà al passato regime, pur tenendo conto della debole percentuale di
votanti (il 46,42% degli aventi diritto) e delle inevitabili denunzie
di brogli a favore di Shafiq, sostenute soprattutto da Sabahi.
La
tenuta del partito sommerso dei sostenitori e nostalgici del regime è
probabilmente il dato più sorprendente, soprattutto perché ha
interessato alcuni dei principali distretti elettorali che avevano
garantito la vittoria degli islamisti alle elezioni parlamentari. La
stretta disciplina della Fratellanza musulmana e la sua capillare
propaganda nel paese hanno comunque garantito la scelta di Mursi (24,3%
dei voti), designato dall’organizzazione dopo che la Commissione
elettorale aveva, con una decisione assai controversa, estromesso
Khairat El-Shater, miliardario islamista e candidato ben più popolare,
poche settimane prima della consultazione. Il successo di Shafiq (23,3%)
rivela invece la rapida ripresa dell’apparato del partito di regime, il
Partito Nazionale Democratico, scomparso dalla ribalta dopo la rivolta
del 2011 ma ancora radicato nella struttura economica e nei media
nazionali. Shafiq, l’ultimo primo ministro designato da Mubarak prima
delle dimissioni, è infatti emerso a sorpresa nelle ultime fasi della
campagna, dopo essere stato riammesso alla competizione nonostante la
legge appositamente approvata dal nuovo parlamento per impedire ai
membri del regime di partecipare. Quasi ignorato dagli analisti
occidentali e dai sondaggi pre-elettorali, egli ha rapidamente
ricostruito intorno a sé le reti di supporto del regime, proponendo una
piattaforma basata sul ripristino della legalità, dell’ordine e della
sicurezza – richieste particolarmente sentite nel paese, dove violenze e
rapine sono oggi in aumento – e sulla ripresa economica, mentre Mursi
fa appello, ma solo oggi, alla riconciliazione con le forze politiche laiche e con la minoranza cristiana copta,
arrivando a prospettare la possibilità che il vice-presidente non sia
un islamista. Proprio il voto copto (i copti compongono il 12% della
popolazione egiziana) ha probabilmente influito sul successo di Shafiq.
Inizialmente convergenti su ‘Amr Musa, l’ex-presidente della Lega Araba
dato come favorito fra i candidati laici, i voti della comunità hanno
infatti premiato Shafiq dopo che Musa era stato accusato, in uno degli
ultimi colpi di scena di questa drammatica campagna elettorale, di
ricercare un accordo con i partiti islamisti.
La cattura dei voti
andati ad altri candidati e la mobilitazione degli astenuti è oggi il
principale obiettivo della campagna, prima del voto finale del 16 e 17
giugno, e non appare un obiettivo facile. Tanto Musa che Sabahi hanno
dichiarato di non voler sostenere né gli islamisti né i rappresentanti
del regime, ma è probabile che i voti del primo finiscano a Shafiq e
quelli del secondo – almeno in parte – a Mursi. Il candidato islamista
ha intanto ricevuto inaspettato sostegno da Alaa al-Aswany, il più
famoso scrittore egiziano contemporaneo, già sostenitore di El-Baradei,
il candidato liberale ritiratosi all’inizio della campagna per motivi
tuttora poco chiari, ma è prevedibile che il voto liberale conterà poco
nel risultato finale. Anche la sentenza che ha condannato all’ergastolo
il 2 giugno il ra’is morente Hosni Mubarak avrà sulla campagna in
corso effetti che è ancora difficile prevedere. Quanto agli alleati
occidentali dell’Egitto, il segretario di stato statunitense Hillary
Clinton ha ufficialmente dichiarato che l’amministrazione Obama accetterà qualunque governo eletto democraticamente.
E’ prevedibile che un risultato a favore di Shafiq possa condurre ad
una impasse politica capace di paralizzare il paese e di accentuare le
divisioni, poiché il parlamento eletto (al 70% islamista) e il
presidente dovranno riscrivere la Costituzione del paese, oggi retto, in
modo confuso e controverso, da una dichiarazione costituzionale
provvisoria emanata dallo SCAF (il Consiglio supremo delle forze
armate). L’esercito, che gestisce non solo la difesa, ma anche la
politica estera e l’economia nazionale, pretende che la nuova costituzione salvaguardi le sue prerogative,
in particolare la segretezza del bilancio militare e l’ultima parola in
caso di dichiarazione di guerra. Quest’ultima clausola è indirettamente
volta a tutelare il trattato di pace con Israele, condizione degli
ingenti aiuti statunitensi all’Egitto, la cui revisione è stata più
volte minacciata dal blocco islamista mentre Shafiq si è espresso a
favore della sua conservazione.
Il perdurante potere dei militari è
oggi il principale ostacolo alla transizione democratica in Egitto e il
limite di ogni suo passo in avanti. Appare per questo tanto più
incoraggiante la notizia che il 31 maggio è definitivamente decaduta la legislazione di emergenza,
ininterrottamente in vigore in Egitto dal 1981, dopo l’assassinio di
Sadat, e con essa un importante strumento di repressione e di controllo
della popolazione nelle mani dei militari.
04 maggio 2012
Egitto. I risvolti politici della cessazione delle forniture di gas a Israele
Mentre in Egitto
il processo di transizione democratica avanza attraverso un tortuoso
percorso ad ostacoli, nuovi scenari si profilano anche in riferimento
alla posizione del paese nel più ampio scacchiere mediorientale.
Domenica scorsa [22 aprile NdR] l’esportazione di gas
naturale egiziano verso Israele è
cessata ufficialmente. Questa si fondava su di un accordo del
2005 quando, attraverso un memorandum d’intesa, l’Egitto dell’allora
presidente Mubarak si impegnò a fornire a Tel Aviv circa 1.7 bilioni di
metri cubi annui di gas, per una durata variabile tra i quindici e i
venti anni. Numerosi analisti evidenziarono all’epoca come il prezzo
concordato per l’esportazione del gas egiziano verso Israele fosse
nettamente inferiore a quello di mercato. Negli anni successivi,
l’Egitto rinegoziò molte forniture di gas, ad eccezione di quella
siglata con Israele.
L’impopolarità di questo accordo in Egitto è a tutti nota. La crisi
economica che il sistema-paese sta attraversando da anni e il crescente
disappunto per l’atteggiamento israeliano verso il popolo palestinese
rappresentano, agli occhi dell’opinione pubblica egiziana, delle ragioni
più che valide per rivedere un accordo al ribasso, simbolo della
complicità egiziana con lo scomodo vicino.
Ecco perché, sin dal
2008, esiste nel paese una campagna popolare contro l’esportazione di
gas verso Israele, e perché, dallo scoppio della rivolta del lontano 25
gennaio 2011, si contano ben 14 attacchi contro il gasdotto che dal
Sinai arriva fino ai suoi territori.
Sulla stampa egiziana la
rottura del contratto - ufficialmente rescisso perché dal 2008 Israele
non avrebbe corrisposto l’importo pattuito - ha assunto sin da subito
connotazioni politiche.
Quotidiani filo-governativi come al-Jumhuriyya (lett.
“La Repubblica”) approfittavano martedì scorso dell’anniversario del
ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Sinai per istituire un
parallelismo, tra la funzione “emancipatrice” esercitata a loro dire dai
militari in quel lontano 25 aprile del 1982 e l’attuale rescissione
attribuita, a loro dire, al risoluto intervento del Consiglio Supremo
delle Forze Armate (SCAF). Un parallelismo a dir poco forzato, se si
pensa alla vera storia di quel lontano episodio, nel quale le alte sfere
militari egiziane svolsero un ruolo a dir poco marginale.
Molte
testate indipendenti pongono l’accento invece sul carattere
propagandistico della decisione assunta nei giorni scorsi. Citando
un’anonima “fonte governativa”, il quotidiano al-Shuruq ha
sottolineato ad esempio come il provvedimento di cessazione
dell’esportazione di gas sia stato adoperato dallo SCAF come uno
strumento per invertire quella crisi di consensi verso i militari che da
mesi sembra irreversibile. Ecco quindi spiegato, sempre secondo al-Shuruq, perché il provvedimento sia stato adottato proprio alla vigilia del succitato anniversario.
Una considerazione condivisa anche da Ibrahim Eissa che tuttavia, in un
lungo editoriale dal titolo “I pericoli di una grande decisione”
apparso sul quotidiano indipendente al-Tahrir (lett. “La
Liberazione”), si chiede come mai, se davvero trattasi di questione
politica, l’esercito o il governo egiziano non lo abbiano rivendicato in
maniera più esplicita.
In realtà, alcuni membri del gabinetto
ministeriale si sono esposti con dichiarazioni alquanto esplicite,
seppur contraddittorie. Già lunedì scorso [23 aprile 2012 NdR] il
quotidiano di stato al-Ahram ha dato risalto alle dichiarazioni
del Ministro dell’Energia Hassan Yunis, secondo cui il gas sino ad
allora esportato verso Israele verrà “destinato agli impianti elettrici
egiziani” perché “noi ne abbiamo più diritto di loro”. Sulle pagine di al-Tahrir
leggiamo invece le dichiarazioni del Ministro per la cooperazione
internazionale Fayza Abu al-Naga, che apre ad una inedita fase di
esportazione di gas verso Tel Aviv, seppur secondo nuove (e più alte)
tariffe.
Affermazioni discordanti, che rivelano tuttavia come il
governo stia tentando di giocare la carta del “patriottismo energetico”
per risalire, come i militari, nei sondaggi di gradimento.
Più equilibrata l’analisi proposta da ‘Abd al-Rahman Hussein dalle pagine del quotidiano indipendente al-Masri al-yawm
(lett. “L’Egitto oggi”). L’autore, pur riconoscendo che la rescissione
del contratto è stata provocata da fattori prettamente commerciali, non
nasconde l’esistenza di implicazioni politiche, manifestatesi a suo dire
nelle modalità e nella tempistica adottate per affrontare la questione.
Citando l’opinione di Nabil ‘Abd al-Fatah, analista del Centro studi
politici e strategici del gruppo editoriale al-Ahram, l’autore
ricorda come la rescissione dell’accordo “avrà effetti importanti anche
in politica interna, poiché si inserisce nello scontro tra lo SCAF e le
altre forze politiche egiziane, in particolare quelle islamiste”.
È evidente oramai come la questione dei rapporti israelo-egiziani sia
parte integrante della battaglia fra le differenti forze politiche nel
paese. Sarà da capire nelle prossime settimane se, al di là della sua
attuale strumentalizzazione, si arriverà ad una più generale
ridefinizione degli Accordi di Camp David.
09 luglio 2013
Perché al Nour è così importante in Egitto?
Alle quattro di mattina di lunedì 8 luglio l’esercito egiziano
ha sparato sulla folla che stava manifestando di fronte alla sede
della Guardia Repubblicana al Cairo, uccidendo 51 persone e ferendone
diverse centinaia. Molti manifestanti si erano riuniti per protestare
contro il colpo di stato dell'esercito ai danni del deposto presidente Mohammed Mursi,
che si
crede sia trattenuto proprio presso la sede della Guardia
Repubblicana. Non è molto chiara la dinamica di quello che è successo -
manifestanti ed esercito hanno diffuso dei video che mostrano diverse
fasi della sparatoria, ma che non chiariscono le responsabilità
effettive - ma una delle reazioni più significative agli eventi di
domenica notte è stata quella del partito salafita egiziano Al Nour: i
suoi membri prima hanno comunicato di volersi ritirare dalle
consultazioni presidenziali per la formazione del nuovo governo, poi
hanno "ammorbidito" le loro posizioni, dicendo al quotidiano del Qatar Al-Jazeera che in realtà la loro era una sospensione, più che un ritiro.
Erano state proprio le riserve di Al Nour, secondo più importante
partito islamista dopo i Fratelli Musulmani, a bloccare la nomina di Mohamed El Baradei a primo ministro - e poi a vice primo ministro - del governo ad interim
che i militari stanno cercando di formare per guidare il paese nel
periodo di transizione fino alle prossime elezioni. Dopo il veto di Al
Nour, il nuovo presidente dell'Egitto, Adli Mansour,
aveva comunicato alla stampa che non c’era ancora certezza riguardo
alle diverse nomine e che i negoziati tra le varie forze politiche
sarebbero dovuti continuare.
Il partito Al Nour, visto fino a due
anni fa non tanto come una formazione politica quanto come un gruppo di
estremisti islamici con poche possibilità di ottenere ampio consenso, è
riuscito a crearsi un certo spazio politico dopo avere scaricato Mursi
durante il colpo di stato dei militari dei giorni scorsi. Al Nour è
stato l’unico partito islamista che ha appoggiato il colpo di stato
contro Mursi, sebbene fosse molto legato ai Fratelli Musulmani. Inoltre,
la sua presenza a fianco dei militari ha dato il segnale agli elettori
egiziani che la mossa dell'esercito non era rivolta contro l’Islam, o i
partiti islamisti al potere.
Con il passare dei giorni, Al Nour ha
acquisito un ruolo sempre più necessario nelle negoziazioni per la
formazione del nuovo governo. Molti esperti hanno scritto che non è
possibile, ad oggi, pensare di formare un governo ad interim nel
nuovo Egitto post-Mursi senza che questo ottenga l'appoggio e il
sostegno dei salafiti di Al Nour. Il problema, stanno dicendo alcuni
leader più laici dell'Egitto, è che i salafiti stanno imponendo delle
condizioni sempre più stringenti: hanno rifiutato le candidature del
primo ministro e del vice primo ministro avanzate dall'esercito e dalle
altre opposizioni, e mantengono una posizione di intransigenza rispetto
alla presenza della religione islamica nell'assetto politico e
istituzionale del paese.
Le fazioni politiche più laiche dell'Egitto
si stanno mostrando sempre più preoccupate sulle richieste di Al Nour,
soprattutto dopo le dichiarazioni di lunedì della loro sospensione nelle
negoziazioni per il nuovo governo. Samer Shehata, politologo
all’Università dell’Oklahoma esperto di islamismo,
ha detto che gli ultraconservatori di Al Nour stanno sfruttando le
fratture che si sono create in questi giorni all'interno del movimento
dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi due anni Al Nour ha fatto una
grande campagna per rafforzare i princìpi islamici all'interno delle
istituzioni dello stato: ad esempio, si è battuto per inserire nella
Costituzione egiziana non solo un blando riconoscimento ai princìpi
dell’islamismo, ma una vera e propria ristrutturazione della carta
costituente in favore della legge islamica. Ora, con il ruolo sempre più
decisivo nel futuro dell'Egitto, Al Nour potrebbe volere - e potere -
avanzare delle richieste a cui gli alleati potrebbero non poter dire di
no. E questo vale sia per la Costituzione, sia per la nomina di
personalità non laiche nei posti che contano del nuovo governo ad interim dell'Egitto.
05 marzo 2012
L’Egitto e l’Occidente, un rapporto che muta?
In Egitto
la difficile transizione verso la democrazia e verso un governo civile
inizia ad avere dei punti fermi, delle date stabilite: le prime elezioni
presidenziali del dopo Mubā'rak
si terranno il 23 e 24 maggio e il vincitore, che con ogni
probabilità avrà un ruolo fondamentale nella
definizione della politica estera, sarà annunciato il 21 giugno.
Il percorso è sempre quello immaginato un anno fa: elezioni
parlamentari, nuova costituzione, elezioni presidenziali, ritorno dei
militari nelle caserme e governo civile. Ma ogni nuovo passaggio verso
il nuovo assetto si realizza attraverso rotture e conflitti, non
gradualmente; le proteste di piazza nel novembre 2011, la frattura tra
il movimento democratico e il governo militare, la netta vittoria dei Fratelli Musulmani
alle elezioni. L’Occidente segue questo percorso con preoccupazione; la
contraddizione è evidente, poiché Mubā'rak era un fedele alleato mentre
le prospettive future restano incerte. I segnali non sono
tranquillizzanti per i tradizionali alleati dell’Egitto: i Fratelli
Musulmani sono critici nei confronti della politica degli Stati Uniti in
Medio Oriente e restano istintivamente ostili a uno stile di vita e a
un modello di società che sentono estranei. Le recenti polemiche sulle
‘scuse’ per i crimini del colonialismo, rilanciate dall’Università
sunnita Al-Azhar, se sono prive di concrete conseguenze, rimangono un
indicatore significativo dell’umore della società egiziana. Naturalmente
la questione di Israele
rimane il nodo cruciale; è probabile che alle radicali dichiarazioni di
principio corrisponda il tradizionale pragmatismo dei Fratelli
Musulmani. Nondimeno molti osservatori temono passi indietro rispetto
alle prospettive di una pace duratura nell’area. Anche la situazione
economica sembra instabile; la visita in Egitto nel gennaio 2012 del
ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi di Sant'Agata
ha messo al centro più i rapporti economici bilaterali che le
considerazioni di geopolitica ma anche da questo punto di vista,
permangono difficoltà. L’instabilità politica ha danneggiato il turismo e
il sabotaggio dei gasdotti, attribuito ai beduini del Sinai, rischia di
bloccare una delle più importanti risorse economiche del paese.
18 luglio 2013
Tre possibili scenari per la crisi in Egitto
In Egitto, dopo il colpo di stato che lo scorso 3 luglio ha deposto il presidente Morsi,
continuano i disordini e le proteste di piazza. Lo scorso lunedì ci
sono stati altri scontri fuori dalla Moschea
di al Adawija e nei pressi dell’Università del Cairo tra
sostenitori dei Fratelli Musulmani e l’esercito ora al potere. Secondo
fonti del ministero della salute egiziano, riportate
dal quotidiano arabo Ahramonline, a seguito di un lancio di lacrimogeni
e pietre nella notte tra lunedì e martedì vi sarebbero stati 7 morti e
oltre 260 feriti. Le proteste della Fratellanza Musulmana sono iniziate per le dichiarazioni del vicesegretario di stato americano William Burns che,
dopo aver incontrato nella giornata il presidente ad interim Adli
Mansour, il primo ministro Hazem al-Beblawi e il generale Al Sisi, capo
dell’esercito che ha deposto il leader dei Fratelli Musulmani Morsi, ha
parlato di una seconda possibilità per la democrazia egiziana.
Domenica 14 luglio il New York Times ha riportato
la notizia secondo cui il nuovo governo ha congelato i beni,
bloccandone l’accesso, a 14 imprenditori e uomini influenti molto vicini
ai Fratelli Musulmani. Tra le vittime delle misure sanzionatorie vi
sarebbe anche Khairat el-Shater,
un miliardario egiziano considerato la “mente finanziaria” dei Fratelli
musulmani. Il governo ha difeso le misure sanzionatorie, parlando di
una manovra necessaria per costringere i Fratelli Musulmani a sedersi al
tavolo delle trattative con i militari e definire una road map condivisa per far uscire il paese fuori dalla crisi.
Secondo
le dichiarazioni ufficiali del nuovo presidente ad interim Mansour
entro una settimana circa dovrebbe essere nominata una commissione che
si occuperà di preparare le proposte per emendare l’attuale costituzione
che è stata sospesa al momento della deposizione di Morsi. Le modifiche
dovranno essere ratificate da un successivo referendum che si terrà
entro 4 mesi. Solo dopo il referendum si terranno, entro il febbraio
2014 le elezioni parlamentari e subito dopo le nuove elezioni
presidenziali.
L’importanza dei militari. Il cammino di transizione è osservato con apprensione dagli Stati Uniti, paese che ogni anno elargisce all’Egitto circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti economici in cambio di garanzie di stabilità politica e il rispetto degli accordi di Camp David del 1978. Una parte consistente di questi aiuti economici, dal 1979, finisce nelle mani dei militari tramite il programma statunitense “Foreign Military Financing”
(FMF). Gli aiuti all’Egitto sono ripartiti con Israele (l’altro paese
assieme agli Stati Uniti che ha firmato gli accordi del 1978) secondo
proporzioni di 3:2. Su 100 milioni erogati dagli Stati Uniti, 60 vanno a
Israele e 40 all’Egitto, e ad ogni misura di sostegno a un paese
corrispondono precise garanzie. Dal 1979 ad oggi gli aiuti militari sono
andati aumentando di due milioni l’anno ogni anno circa. Questi aiuti
vengono indirizzati al ”Supreme Council of the Armed Forces” egiziano (SCAF), l’organo più importante della catena di comando militare che oggi è tornata al potere.
Nel dicembre 2011, a seguito dell’arresto di 43 operatori di ONG statunitensi attive in Egitto, una grave crisi
diplomatica tra Stati Uniti e Egitto sembrò poter interrompere il
flusso monetario. Tra gli arrestati c’era anche Sam LaHood, figlio
dell’ex ministro dei trasporti americano e Morsi si era trovato sospeso
tra le pressioni dei militari per appianare la crisi con gli Stati Uniti
e non interrompere gli aiuti e i conservatori salafiti che spingevano
per alzare ancora di più i toni con l’amministrazione americana a costo
di interrompere le sovvenzioni americane. La vicenda si è conclusa
lo scorso 4 giugno con la condanna da parte di una corte egiziana dei
43 lavoratori alla prigione, anche se i condannati hanno già abbandonato
il paese.
Secondo l’analista statunitense Ian Bremmer,
il potere dei militari non è stato mai realmente scalfito dai Fratelli
Musulamani, se si esclude la rimozione del potentissimo ex capo delle
forze armate Mohammed Tantawi da parte di Morsi, nell’agosto del 2012.
Mentre molti analisti sul mensile americano Foreign Policy si chiedono
se quello del 3 luglio scorso possa considerarsi un colpo di stato,
secondo Bremmer è più corretto chiedersi se quella che ha portato al
potere Morsi è stata davvero una rivoluzione, dato che il potere della
casta militare non è mai stato realmente intaccato.
Tre scenari per il futuro. Secondo
Bloomberg il futuro dell’Egitto dipenderà molto dalle prossime mosse
dei militari guidati dal generale al Sisi e dalle reazioni che
seguiranno soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani. Il primo
scenario, il più ottimista, prevede che i militari assumano un ruolo più
defilato da qui alle prossime elezioni, candidando un politico che non
sembri troppo un “fantoccio” nelle loro mani. Le elezioni, secondo
questa previsione, dovrebbero concludersi con una sconfitta dei Fratelli
Musulmani senza ripercussioni violente. La seconda ipotesi è che
l’esercito egiziano decida di ripetere un’esperienza analoga a quella sperimentata in Turchia nel 1997, quando un gruppo di generali inviarono un memorandum al primo ministro Necmettin Erbakan intimandogli le dimissioni. Erbakan fu arrestato e il partito islamista Welfare Party fu chiuso favorendo l’ascesa di Recep Tayyip Erdoğan,
attuale primo ministro turco. Non vi fu alcun carro armato nelle strade
e gli stessi generali favorirono la transizione dei voti islamisti del
Welfare Party verso nuovi soggetti politici come il Partito per la
Giuistizia e lo Sviluppo dello stesso Erdogan. Un modello di transizione
politica passata alla storia come “colpo di stato post-moderno“.
La terza possibilità è che l’esercito egiziano continui a considerare i
sostenitori di Morsi e dei Fratelli Musulmani come degli insorti,
creando così le condizioni per uno scenario da guerra civile sul modello
di quella scoppiata in Algeria dopo il colpo di stato del 1992 con cui i militari deposero il partito islamista che aveva appena vinto le elezioni.
Troppo grande per fallire. La stabilità dell’Egitto non interessa solo gli Stati Uniti per cui Il Cairo rappresenta un paese chiave per la sicurezza in Medio Oriente, ma anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi che hanno recentemente inviato
8 miliardi di aiuti dopo la presa del potere da parte dei militari, una
chiara manifestazione di fiducia nei confronti del ruolo assunto dai
militari. Barack Obama fin dall’inizio della crisi si è detto “molto turbato” dai disordini, ma allo stesso tempo ha chiesto
ai militari un ritorno quanto più rapido a libere elezioni senza
l’esclusione di alcuna componente politica dal voto. Il vero argine ad
una svolta autoritaria da parte dei militari egiziani è rappresentato,
secondo Bremmer, più che dai Fratelli Musulmani, dalla presenza di una
componente di popolazione civile attiva, influente, poco disposta a
farsi mettere a tacere da un giro di vite degli uomini di al Sisi.
FONTE: Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali
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