mercoledì 3 settembre 2014

“Un mondo buono”


Un mondo buono”, recita una pubblicità televisiva d'una nota marca di prodotti alimentari, prevalentemente dolciari. Si insiste con l'edulcorata ed ottimistica immagine d'una esistenza collettiva tutta dedita al piacere sano ed alla, mai ben definita in verità, felicità. Guada caso, tale sentimento inevitabile finisce con il coincidere con il possesso (acquisto) e con il consumo di beni e servizi. Insomma, il “mondo buono” è il mercato, dove domande ormai manipolate alimentano una un'offerta sempre più assillante. Nonostante la crisi in atto da un decennio generando guerra planetaria, alcuni pensano solo a ripristinare il sistema di produzione e riproduzione capitalistica che si è rotto, mai ad un cambiamento reale e radicale di forme di vita. A ben guardare, siamo da tempo nel mondo dei format, modi tipici, stili codificati di comunicazione, ed in pubblicità ne sono stati sperimentati e codificati un certo numero (dal testimonial al mnemonic device, dal simbolismo al format entinema e così via …). È noto, questa modalità comunicativa pubblicitaria, espressione tipica del commercio, ha contaminato altri ambiti, dai media alla politica. L'anello di congiunzione è costituito dal “format redazionale”, un format di stile giornalistico adatto a campagne istituzionali (si pensi alle recenti slides di Renzi) o con una forte “idea” da trasmettere facendo convergere su di essa l'attenzione dell'opinione pubblica. In Italia c’è l’abitudine di farlo passare per un vero articolo giornalistico; ad esempio: l'immancabile intervista al politico o amministratore di turno che, spesso, nulla hanno di significativo da dire. A volte, si ha l'impressione che le testate giornalistiche – sia radiotelevisive che della carta stampata - vivano in funzione di queste “veline”, incapaci di produrre informazione d'utilità sociale e/o inchieste, magari dando voce alla società civile. Diamo atto alle redazioni di fare un ottimo uso della dispositio (parte del corpo della retorica), scandendo in modo premuroso il momento della “distribuzione” degli argomenti della inventio, secondo l’ordine più funzionale al risultato della persuasione. È mai possibile che la società civile non venga quasi mai ascoltata, non rispettata ? Qual è la responsabilità giornalistica nell'invetare “un mondo buono” che non esiste spacciando per informazione l'insieme di fattoidi (con lieto fine incorporato) ? L'informazione dei quotidiani e delle emittenti radiotelevisive non dovrebbe rappresentare correttamente la drammatica fenomenologia sociale per come essa autenticamente si manifesta ?

domenica 24 novembre 2013

… non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù ...

Ciascun individuo è tale poiché instaura relazioni con la realtà circostante. Il costante “riferirsi” all'altro da se, per definire il profilo stesso di soggettività, rende oggettivamente permeabile il confine del cosiddetto “ego” e l'esperienza della connessione scandisce di fatto l'esistenza individuale/collettiva. Nella transizione dal XVIII e XIX secolo la natura dell'interazione sociale storicamente determinata emerge culturalmente a coscienza e grazie a ciò Tocqueville ritenne la “massa” come moltitudine indifferenziata al suo interno, di aggregato omogeneo, in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo. L'industrializzazione e l'urbanizzazione connessa nei paesi occidentali più progrediti sono fenomeni d'esordio della società di massa. Nel XX secolo il quadro si raffina e completa in termini di omologazione: “Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati […]. La moltitudine improvvisamente si è fatta visibile […]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Oramai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro” (Josè Ortega Y Gasset, “La ribellione delle masse”, 1930). La gran parte delle persone vive in agglomerati urbani, medi e grandi. Gli esseri umani sono a più stretto contatto condizionante fra loro. Maggiore disponibilità di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione pur con discriminazioni economiche d'accesso che ne differenziano sostanzialmente le condizioni di vita. Le relazioni sociali non si basano più sulle piccole comunità tradizionali. Le dimensioni etniche tendono a precipitare nel “globale”. Le relazioni sociali dipendono in una prima fase di affermazione del capitalismo dalle grandi istituzioni nazionali (apparati statali, partiti, associazioni, sindacati …), nella più recente dalle imprese multinazionali che sovradeterminano la vita di ciascuno. La subalternità dell'individuo è totale ed irreversibile.
Le organizzazioni capitalistiche che sovrintendono alla produzione ed al consumo di massa pesano sulle scelte di vita collettive e su quelle individuali. Si passa inevitabilmente dall’autoconsumo al circolo dell’economia di mercato. I valori tradizionali d'appartenenza lasciano il passo a nuovi modelli generali di mentalità e comportamenti eteroprodotti e “venduti” come indispensabili a ciascuno concorrendo a formare nuove dimensioni psicologiche e percettive inducendo alterazione etica ed annientamento del pensiero critico. Oggi il fronte delle innovazioni tecnologiche, di nuovi settori produttivi (informatica ed elettronica in primis, ma anche la chimica) trovano occasioni di imposizione di correlati stili di vita. La Cina s'affianca alla tradizionali potenze industriali, la Germania e gli Stati Uniti. Assistiamo ad uno sviluppo tumultuoso generalizzato della produzione in tutti i settori che devono innovare per sopravvivere nella competizione globale. L’indice di produzione industriale e quello del commercio raddoppiano fino alla fase di finanziarizzazione improduttiva, fino al collasso del sistema d'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta (crisi della fine del primo decennio del XXI secolo). I prezzi dei beni e servizi (compresi quelli erogati dal Welfare), che prima calavano costantemente, cominciano a crescere. Non crescono, viceversa, i salari (assolutamente meno dei prezzi), il PIL dei paesi industrializzati e la popolazione in questi paesi subisce la stagnazione e l'imperio aziendalista. Per conseguenza, l'allargamento del mercato comprime la domanda di beni e servizi di massa, essendo le classi subalterne depauperate (mediante la leva fiscale) ed impoverite materialmente non avendo retribuzioni sufficienti a riprodurre la forza-lavoro. Non nascono cicli di produzione industriale di nuovi beni di consumo e le reti commerciali di vendita e distribuzione (negozi, grandi magazzini, vendita per corrispondenza, rateizzazione e finanziamenti, pubblicità) sono diventati non-luoghi dell'alienazione di massa; la stagnazione della produzione induce una razionalizzazione produttiva che si sostanzia in tagli di servizi e personale. Dal 1913, quando a Detroit, negli stabilimenti Ford nasceva la prima catena di montaggio, ad oggi, si è passati dall'introduzione di nuovi metodi di produzione di massa (parcellizzazione del lavoro, taylorismo di cui in F.W. Taylor, “Principi di organizzazione scientifica del lavoro”, 1911) al neoschiavismo che ha fatto tramontare l'epoca dei consumi di massa, dei prezzi differenziati e competitivi, degli alti salari, del fordismo.
Di quella stagione resta solo la “massificazione”. L'uniformità nei comportamenti e nei modelli culturali, schizofrenica mobilità e stratificazione sociale. La classe operaia già divisa nella trade-unionistica distinzione fra manodopera generica e lavoratori qualificati (aristocrazie operaie) rifluisce verso zone sempre più ampie di disoccupazione e precarietà aumentando consistentemente l'inadeguatezza nel conflitto organizzato. È soggiogata alla volontà ristrutturativa del capitalismo. Il cosiddetto ceto medio non aumenta la sua consistenza con i lavoratori autonomi e nuove professioni che ci si inventa (la mortalità delle Partite I.V.A. ne è la dimostrazione) per non essere triturati dalla crisi; i dipendenti pubblici e gli addetti del settore privato che non svolgono attività manuali (tecnici, commessi, impiegati…) stanno scomparendo a causa della privatizzazione selvaggia che può fare a meno di dipendenze a tempo determinato e di contrattualizzazione; scompaiono anche i “colletti bianchi” creando fenomeni di contrapposizione tra borghesia impiegatizia e proletariato per reddito “non garantito”, sterilizzando l'autonomia degli individuo in termini di usi, costumi e aspirazioni e organizzazione/progettazione esistenziale.
La contrarietà ai sindacati a in generale alle organizzazioni di massa pare essere l'unica difesa alla spoliazione in atto. L'individualismo, la rispettabilità dell'appropriazione selvaggia di proprietà private (criminalità tout court), la fine del risparmio familiare, il riproporsi virulento di un senso subalterno della gerarchia sociale, forme risorgenti di ignoranza patriottistica diventano forme evidenti, sempre più importanti (poiché incidono nel disegnare opzioni di dominio sulle coscienze individuali), di percorsi personali e collettivi di fuoriuscita dalla “crisi”col crescere della società globale di massa rappresentati da caotici flussi migratori. Destinatari non più di beni di consumo, di diritti politici (elettorato di massa) che ne potrebbero far oscillare le simpatie, ora progressiste ora conservatrici, i diseredati del XXI secolo hanno un'unica alternativa: o soccombere o emanciparsi perseguendo con convinzione l'obiettivo dell’organizzazione ed intraprendendo la battaglia politica collettiva che produce di per sé più diritti; all'omologazione subalterna va opposta la solidarietà e lo spirito di classe, l'internazionalismo, fondamentale coll'espansione dello sfruttamento globale; il proletariato torna ad essere il motore del progresso perché lotta per i diritti collettivi e per la ridistribuzione del reddito si unisce e si concretizza nella lotta per il potere politico conquistato mediante rivoluzione sociale. La società di massa e “democratica” non è lo stesso della società socialista.
L'attuale soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Karl Marx la suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo egli vedrà la piena realizzazione umana. In una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus: “Io, t’assicura, non cangerei la mia misera sorte con la tua servitù. Meglio d’assai lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero di Giove”. La rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione, ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e di un proletariato cosciente va nella stessa direzione.
La concezione comunista del mondo è, come ogni scienza, opera degli uomini. I comunisti la devono non solo applicare. Prima ancora la devono elaborare e sviluppare all’altezza dell’opera che devono compiere: per costruire un grattacielo occorre una scienza delle costruzioni più sviluppata di quella necessaria per costruire una casetta. Per questo diciamo che essere marxisti non significa fare l’esegesi delle opere di Marx e degli altri dirigenti del movimento comunista (“cosa ha veramente detto Marx”, ecc.). Sono marxisti quelli che elaborano dall’esperienza la scienza della lotta della classe operaia che si emancipa dalla borghesia costruendo la società comunista. Il movimento comunista cosciente e organizzato non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, neanche durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, quando per effetto della prima crisi generale del capitalismo la borghesia stessa aveva sconvolto i suoi ordinamenti nei singoli paesi e il suo sistema di relazioni internazionali e precipitato tutto il mondo in ben due guerre mondiali complessivamente durate più di 30 anni (1914-1945), principalmente perché i comunisti non hanno elaborato la concezione comunista del mondo all’altezza del compito che dovevano svolgere. Gli interessi della borghesia e del clero congiuravano con l’ignoranza naturale (conforme cioè alla loro natura di classi oppresse) in cui le classi dominanti tengono le classi oppresse (“lei non è pagato per pensare”, “qui non si fa politica”, ecc. ecc.) e con la pigrizia e il dogmatismo di tanti comunisti pur onestamente devoti alla causa della rivoluzione che tuttavia riducevano il marxismo all’esegesi dei testi e a una fede religiosa nei dogmi, mentre nell’azione pratica, pur eroica, si orientavano a naso, secondo il senso comune (cioè nei limiti di proteste e lotte rivendicative). Va superata – tra l'altro - l’inerzia teorica del movimento comunista dei paesi imperialisti e il suo venir meno ai compiti suoi propri. Così come è al primo posto dell'ordine del giorno della storia l'organizzazione politica del proletariato rivoluzionario.

giovedì 24 ottobre 2013

Saggio sulla negazione

Saggio sulla negazione - Per una antropologia linguistica Paolo Virno, Anno 2013, Collana «Temi», Prezzo €16,00, 204 Pagine Contenuto: In ogni momento ricorriamo a una particella grammaticale dimessa e priva di blasone, senza sospettare che nella sua inappariscenza sia all’opera un dispositivo così potente da orchestrare l’intera significazione, e con essa il mondo. Quel connettivo sintattico è il ‘non’, di portata eguagliabile soltanto all’universale dello scambio, ossia il denaro. È la negazione a separare il pensiero verbale dalle prestazioni cognitive taciturne, come le sensazioni o le immagini mentali. Parlando di ciò che ‘non’ accade qui e ora o di proprietà ‘non’ riferibili a un certo oggetto, l’animale umano disattiva l’originaria empatia neurale, prelinguistica, si distanzia dalle prescrizioni del proprio corredo istintuale e accede a una socialità di secondo livello, negoziata e instabile, che istituisce la sfera pubblica. Il parlante infatti impara presto che l’enunciato negativo non è la controfigura linguistica di realtà sgradevoli o sentimenti distruttivi: mentre li rifiuta, dà loro un nome, li include. Effetto di incivilimento sempre esposto ad altre, insorgenti retroazioni antropologiche, secondo Paolo Virno, che sulla costitutiva negatività del linguaggio scrive un saggio-spartiacque. Da una paroletta riesce a dispiegare una inaspettata fenomenologia della coscienza negatrice.
Autore: Paolo Virno insegna Filosofia del linguaggio all’Università di Roma Tre. Tra i suoi saggi: Grammatica e moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (2002), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (2002) e Convenzione e materialismo. L’unicità senza aura (2011). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato: Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico (1999), Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana (2003), Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento (2005) ed E così via, all’infinito. Logica e antropologia (2010). [http://www.sinistrainrete.info/filosofia/3091-francesco-raparelli-il-non-che-fa-la-differenza.html]

martedì 13 agosto 2013

La recessione

La recessione (testo per la canzone, da P.P. Pasolini) Vedremo calzoni coi rattoppi; rossi tramonti su borghi vuoti di macchine pieni di povera gente che sarà tornata da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come poltrone di senatori; e i bambini sapranno che la minestra è poca, e cosa significa un pezzo di pane. E la sera sarà più nera della fine del mondo, e di notte sentiremo solo i grilli o i tuoni; e forse qualche giovane tra quei pochi tornati al nido tirerà fuori un mandolino. L'aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno ogni tanto come in un sogno. Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, con i vestiti grigi e dentro agli occhi una domanda che non è di soldi ma è solo d'amore, soltanto d'amore. Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde della curva di un fiume dal cuore di un vecchio bosco di querce crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera. E gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra soli e chiusi come erano una volta. E la sera sarà più nera della fine del mondo, e di notte sentiremo i grilli e i tuoni e forse qualche giovane tra quei pochi tornati al nido tirerà fuori un mandolino. L'aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno ogni tanto come in un sogno. I banditi avranno i visi di una volta coi capelli corti sul collo e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna e saranno armati solo di un coltello. Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà. La recessione (poesia in friulano di P.P. Pasolini) I jodarìn borghèssis cui tacòns; tramòns ros su borcsvuèis di motòurs e plens de zòvinsstrassòns tornàas da Turin o li Germàniis. I vecius a saràn paròns dai so murès coma di poltronis di senatòurs; i frus a savaràn che la minestra a è pucia, e se c'ha val un toc di pan. La sera a sarà nera coma la fin dal mond, di not si sentiràn doma che i gris o i tons; e forsi, forsi, qualchi zòvin - un dai pus zòvins bons turnàas al nit - a tirarà fours un mandulìn. L'aria a savarà di stras bagnàs. Dut a sarà lontàn. Trenos e corieris a passaràn di tant in tant coma ta un siun. Li sitàs grandis coma monds a saràn plenis di zent ch'a vas a piè cui vistìs gris, e drenti tai vuj 'na domanda, 'na domanda ch'a è, magari , di un puc di bès, di un pàssul plasèir, ma invessi a è doma di amòur. I antics palàs a saràn coma montaglia di piera soj e sieràs, coma ch'a erin ièir. Li pìssulis fabrichis tal pì bièl di un prt verd ta la curva di un flun, tal còur di un veciu bosc di roris, a si sdrumaràn. un puc par sera, murèt par murèt lamiera par lamiera. I bandìs (i zòvin tornàs a ciasa dal mond cussì divièrs da coma ch'a èrin partìs) a varàn li musis di 'na volta, cui ciaviej curs e i vuj di so mari plens dal neri da li nos di luna - e a saràn armàs doma che di un curtìa. Il sòcul dal ciavàl al tociarà la ciera, lizèir coma 'na pavèa, e al recuardarà se ch'al è stat, in silensiu, il mond e chel ch’al sarà. Ma basta con questo film neorealistico. Abbiamo abiurato da ciò che esso rappresenta. Rifarne esperienza val la pena solo se si lotterà per un mondo davvero comunista. La recessione (traduzione in italiano di P.P. Pasolini) Vedremo calzoni coi rattoppi; tramonti rossi su borghi vuoti di motori e pieni di giovani straccioni tornati da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori; i bambini sapranno che la minestra è poca, e quanto vale un pezzo di pane. La sera sarà nera come la fine del mondo, di notte si sentiranno solo i grilli o i tuoni; e forse, forse, qualche giovane (uno dei pochi giovani buoni tornati al nido) tirerà fuori un mandolino. L’aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno di tanto in tanto come in un sonno. Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi e dentro gli occhi una domanda, una domanda che è, magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta. Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce, crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera. I banditi (i giovani tornati a casa dal mondo così diversi da come erano partiti) avranno i visi di una volta, coi capelli corti e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna - e saranno armati solo di un coltello. Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà.