sabato 9 aprile 2016

Generazione carcere: la gioventù egiziana dalle proteste alla prigione ... ed altro

È il titolo forte, quasi lancinante, di un rapporto pubblicato nel giugno 2015 da Amnesty International, per denunciare la repressione del dissenso nel nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi . Sono le storie di 14 giovani, attivisti per i diritti umani, studenti, blogger, arrestati assieme ad altre migliaia di persone per la loro partecipazione alle proteste, mentre le autorità giustificavano il giro di vite sottolineando la necessità di garantire sicurezza e stabilità al paese. 
Era il 25 gennaio 2011 quando, per la prima volta, l’avanguardia di Tahrir occupava la piazza fino a farla straripare di gente, sognando un Egitto finalmente libero dai trentennali giochi di potere della cricca mubarakiana. Tutto era cominciato nel centro tunisino di Sidi Bouzid, nel dicembre precedente, quando con un gesto estremo di protesta il venditore di frutta Mohamed Bouazizi aveva risposto alle angherie subite dalle autorità dandosi fuoco. Lì avevano iniziato a germogliare i gelsomini della rivoluzione, che avrebbero portato in meno di un mese alla caduta del presidente Ben Ali. I venti delle primavere arabe superarono rapidamente i confini tunisini, prendendo a soffiare impetuosi sulla cruciale regione geopolitica del Grande Medio Oriente. Quella di Mubarak fu la seconda dittatura a capitolare, aprendo la strada a un futuro ricco di incognite ma altrettanto denso delle speranze di tanti egiziani. Nel giugno del 2012, dopo oltre un anno di reggenza del feldmaresciallo Tantawi, la vittoria alle elezioni presidenziali di Mohammed Mursi, esponente del partito Giustizia e libertà, emanazione diretta della Fratellanza musulmana. È una parentesi che dura solo un anno: la piazza si ribella ai decreti dal sapore neofaraonico emanati dal capo dello Stato e la protesta monta, fino all’ultimatum dell’esercito. Il 3 luglio Mursi viene deposto: non un golpe, dicono i militari, ma una risposta alle rivendicazioni popolari. La transizione è affidata al presidente della Corte costituzionale Adly Mansour e nel frattempo comincia a imporsi la figura del generale al-Sisi, che smette la divisa e - come prevedibile - si candida alle elezioni presidenziali del maggio 2014, stravincendole con quasi il 97% dei consensi.
Oggi, a più di 5 anni da quel 25 gennaio 2011, il sogno di un futuro diverso coltivato dai manifestanti d’Egitto al grido di ‘pane, libertà e giustizia sociale’, resta un ricordo sbiadito. E, denuncia Amnesty, la ‘generazione della protesta’ del 2011 è diventata nel 2015 una ‘generazione in galera’. Appartiene a questa gioventù Alaa Abdel Fattah, attivista e blogger, condannato nel febbraio 2015 a 5 anni di reclusione per aver violato la legge che non consente manifestazioni senza autorizzazione; ne fa parte l’avvocatessa per i diritti umani Mahienour el-Masry, arrestata con l’accusa di aver attaccato la stazione di polizia di El-Raml nel marzo del 2013; ne è invece da poco uscita Yara Sallam, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, condannata per protesta non autorizzata e poi graziata nel settembre 2015 dal presidente al-Sisi.
Per il quinto anniversario della Rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, il governo era stato chiaro, ricorrendo addirittura a motivazioni religiose per spiegare la sua posizione: era necessario non cedere alle sirene della protesta che riecheggiavano sui social media, perché trascinare il paese nel caos e nella violenza ‘va contro i principi della sharia’. Nel frattempo, gli amministratori di alcune pagine Facebook erano già stati arrestati con l’accusa di aizzare contro le istituzioni dello Stato e di far parte della Fratellanza musulmana, tornata nuovamente fuorilegge. Il giorno di quel quinto anniversario ha segnato anche l’Italia, perché al Cairo si perdevano le tracce del giovane ricercatore Giulio Regeni, dottorando all’università di Cambridge e impegnato nello studio dei sindacati indipendenti in Egitto. Il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato il 3 febbraio, portando con sé mille interrogativi per quegli evidenti segni di tortura che hanno subito fatto affiorare il più terribile dei sospetti, quello di un coinvolgimento dei servizi di sicurezza. Le autorità egiziane hanno promesso di fare piena luce sul caso e assicurato la loro collaborazione agli investigatori italiani, ma le contrastanti versioni sull’accaduto che giorno dopo giorno arrivano dalle rive del Nilo appaiono immediatamente poco credibili, dalla notizia di un incidente stradale, all’ipotesi di un omicidio collegato al mondo della droga, alle voci di un presunto delitto a sfondo sessuale. Poi ricompare la pista della criminalità comune, vengono mostrate le fotografie dei documenti di Giulio, che sarebbe stato assassinato da una banda specializzata nel rapimento di cittadini stranieri i cui membri - ovviamente uccisi - erano soliti travestirsi da poliziotti. Anche questa tesi tuttavia non regge: il borsone rosso mostrato negli scatti non sarebbe infatti del ricercatore italiano; decisamente improbabile poi che dei criminali comuni conservino per mesi i documenti di una loro vittima. Il governo italiano, lasciando trasparire irritazione, mantiene ferma la sua posizione e ribadisce che non accetterà verità di comodo; da parte sua Il Cairo fa sapere che il caso non è chiuso e le indagini proseguono. In attesa dell’incontro a Roma tra gli investigatori italiani e i loro colleghi egiziani – fonti parlano di un dossier di 2000 pagine – il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha rimarcato che, senza un vero cambio di marcia, l’Italia è pronta a reagire con misure tempestive e proporzionate. Parole che, ovviamente, Il Cairo non ha gradito.
L’Egitto continua a essere un attore di grande rilevanza nello scacchiere del Grande Medio Oriente, oggi in particolar modo per la sua prossimità al magmatico fronte libico e per la lotta contro un terrorismo che nell’incontrollato Sinai – con l’attentato all’aereo russo dell’ottobre 2015 – ha dimostrato di poter colpire con drammatica brutalità. Alle dinamiche geopolitiche si affiancano poi importanti interessi economici, che coinvolgono le principali potenze occidentali e anche l’Italia, peraltro non solo attraverso l’ENI.
Per gli eredi dei faraoni il momento è delicato, con una crescita economica in fase di rallentamento e carenti riserve di valuta estera. Le difficoltà hanno determinato un calo della popolarità del presidente, ma secondo gli analisti al-Sisi può per il momento restare tranquillo sia perché – come ha ricordato Eric Trager su Foreign Policy – dopo anni convulsi gli egiziani sembrano poco propensi a nuove sollevazioni, sia perché – hanno evidenziato Marina e David Ottaway per Foreign Affairs – il capo dello Stato controlla saldamente le istituzioni del paese.
Sul caso Regeni sarà necessario fare chiarezza nel più breve tempo possibile, senza dimenticare – riportando le parole di una risoluzione comune votata dal Parlamento europeo nel mese di marzo – che purtroppo non si tratta di un ‘evento isolato, ma si colloca in un contesto di torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto l’Egitto negli ultimi anni’.
C’è ancora troppo buio lungo le sponde del Nilo.

03 dicembre 2012

L’Egitto: un potenziale perno diplomatico negli equilibri geopolitici medio orientali

di Vincenzo Piglionica

Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe” (l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella situazione nazionale dei Paesi coinvolti.  Il costante aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli elefantiaci apparati burocratici di regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni, producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.

28 giugno 2012

La presidenza dell’Egitto ai Fratelli musulmani: una vittoria a metà

di Anthony Santilli

Mohammed Mursi, il candidato dei Fratelli musulmani, è il primo Presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto post-Mubarak. Questo è quanto comunicato da Faruq Sultan, presidente della Commissione elettorale, che domenica scorsa [24 giugno ndr] ha finalmente diramato i risultati, ad una settimana dalla conclusione del ballottaggio. A detta della stessa Commissione, Mursi ha vinto la corsa alla presidenza aggiudicandosi 13.2 milioni di voti, ovvero il 51% dei consensi. Il suo rivale, Ahmed Shafiq, ne ha invece ottenuti 12.3 milioni. Circa 800 mila schede sono state invalidate.

Una settimana piena di tensioni
A causa dei continui rinvii da parte della Commissione, tutta la settimana è trascorsa in Egitto nell’attesa dei risultati ufficiali, con i due candidati che facevano a gara nel dichiarare, cifre alla mano, di aver ottenuto il maggior numero di voti, accusandosi reciprocamente di brogli.
Parallelamente a questa guerra dei numeri, le piazze egiziane si sono nuovamente riempite dei sostenitori dei due candidati. Durante la settimana la preponderanza delle manifestazioni a sostegno del candidato dei Fratelli musulmani è stata costante, anche grazie all’affluenza di quanti percepivano la possibile vittoria di Shafiq come un ritorno al potere del vecchio regime. L’ultimo evento di questa battaglia a distanza si è svolto sabato scorso [23 giugno ndr], quando migliaia di sostenitori di Ahmed Shafiq hanno manifestato contro i Fratelli musulmani ed il loro candidato, occupando alcune delle più importanti strade di Nasr City, al Cairo. A poche centinaia di metri di distanza, un’imponente manifestazione aveva luogo nella centrale Piazza Tahrir, tradizionale epicentro delle proteste contro il regime, animata principalmente dai sostenitori degli Ikhwan.


Una vittoria a metà
La vittoria di Mursi ribadisce quello che le elezioni parlamentari di qualche mese fa avevano già annunciato, ovvero che i Fratelli musulmani rimangono la forza politica meglio organizzata e maggiormente radicata nel paese.
Non solo. La sua vittoria conferma allo stesso tempo la notevole capacità di negoziazione del movimento con chi detiene il potere. Questa abilità ha permesso alla Fratellanza di sopravvivere politicamente anche nei momenti di più dura repressione, come nel secondo quinquennio di Sadat, o nell’ultimo decennio del regime di Mubarak. Oggi come in passato, accanto alle imponenti manifestazioni di piazza promosse dalla struttura organizzativa dei Fratelli musulmani, i negoziati con le forze militari si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Numerosi quotidiani arabi hanno riportato i dettagli degli incontri prodottisi all’indomani della tornata elettorale; tra i più risolutivi l’incontro avvenuto tra i generali del Consiglio Supremo delle Forze armate (SCAF) e il leader della Fratellanza Khairat al-Shatir, per la definizione dei poteri del nuovo Presidente.
A seguito dei provvedimenti presi dalle alte sfere militari negli ultimi giorni, ancora non è chiaro in effetti che ruolo potrà svolgere il nuovo Presidente egiziano nei prossimi mesi. Mursi si trova infatti privo del sostegno del Parlamento, disciolto dopo che lo scorso 14 giugno la Corte costituzionale suprema ha dichiarato incostituzionale alcune parti della legge attraverso la quale si sono regolamentate le elezioni parlamentari. Tre giorni dopo lo SCAF ha inoltre pubblicato sulla Gazzetta ufficiale egiziana una Dichiarazione di modifica del testo costituzionale che gli stessi militari avevano promulgato lo scorso 30 marzo 2011. Con tale dichiarazione sono stati ulteriormente limitati i poteri del Presidente egiziano, a tutto vantaggio del Consiglio Supremo delle forze armate, che deterrà il potere legislativo fino alla formazione di un nuovo Parlamento; secondo questa dichiarazione lo SCAF avrebbe inoltre il potere di nominare una nuova Assembla costituente qualora quella esistente “incontri degli ostacoli che possano impedirne il regolare svolgimento dei lavori”. Come ha affermato Ahmed Raghib dell’Hisham Mubarak Law Center lo scorso 19 giugno sulle pagine del quotidiano al-Shuruq, con questo nuovo emendamento il Consiglio Supremo delle forze armate è oramai “il vero capo dell’Egitto”.
La strategia dello SCAF è sin troppo chiara. Sarà da vedere invece nelle prossime settimane quale atteggiamento adotteranno i Fratelli musulmani e soprattutto se i negoziati degli ultimi giorni abbiano realmente definito i limiti dell’azione che il movimento potrà svolgere sullo scenario politico egiziano.
Un primo indizio delle prossime mosse sarà dato dall’atteggiamento che gli Ikhwan adotteranno nei riguardi dell’avvenuto scioglimento del Parlamento egiziano. Sabato 16 giugno il Partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli musulmani) aveva infatti rilasciato un comunicato nel quale rifiutava categoricamente la decisione della Corte Suprema di invalidare le elezioni parlamentari. Ancora mercoledì scorso [20 giugno ndr] l’omonimo quotidiano del partito insisteva nel diramare una road map per i prossimi mesi, nel caso di vittoria del proprio candidato. Tra i punti salienti vi era il “ripristino del disciolto Parlamento”.
L’atteggiamento del movimento nelle prossime ore potrà essere quindi rivelatore. Certo è che la vittoria di Mohammed Mursi, per quanto ufficiale, non sembra sancire la fine del tribolato processo di transizione egiziano.

06 giugno 2012

Le complicate elezioni in Egitto

di Bruna Soravia

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto, che si è tenuto il 23 e 24 maggio scorsi, ha condotto a un risultato largamente inatteso da chi pronosticava la vittoria degli esponenti del rinnovamento politico e una fluida transizione verso la normalizzazione. Il testa a testa del candidato islamista conservatore Mohamed Mursi e di Ahmed Shafiq, militare e uomo di Mubarak – insieme al terzo posto di Hamdin
Sabahi, oppositore del regime in nome del ritorno all’ortodossia rivoluzionaria nasserista – ha invece riconfermato la polarizzazione dell’opinione pubblica fra il blocco islamista e la fedeltà al passato regime, pur tenendo conto della debole percentuale di votanti (il 46,42% degli aventi diritto) e delle inevitabili denunzie di brogli a favore di Shafiq, sostenute soprattutto da Sabahi.
La tenuta del partito sommerso dei sostenitori e nostalgici del regime è probabilmente il dato più sorprendente, soprattutto perché ha interessato alcuni dei principali distretti elettorali che avevano garantito la vittoria degli islamisti alle elezioni parlamentari. La stretta disciplina della Fratellanza musulmana e la sua capillare propaganda nel paese hanno comunque garantito la scelta di Mursi (24,3% dei voti), designato dall’organizzazione dopo che la Commissione elettorale aveva, con una decisione assai controversa, estromesso Khairat El-Shater, miliardario islamista e candidato ben più popolare, poche settimane prima della consultazione. Il successo di Shafiq (23,3%) rivela invece la rapida ripresa dell’apparato del partito di regime, il Partito Nazionale Democratico, scomparso dalla ribalta dopo la rivolta del 2011 ma ancora radicato nella struttura economica e nei media nazionali. Shafiq, l’ultimo primo ministro designato da Mubarak prima delle dimissioni, è infatti emerso a sorpresa nelle ultime fasi della campagna, dopo essere stato riammesso alla competizione nonostante la legge appositamente approvata dal nuovo parlamento per impedire ai membri del regime di partecipare. Quasi ignorato dagli analisti occidentali e dai sondaggi pre-elettorali, egli ha rapidamente ricostruito intorno a sé le reti di supporto del regime, proponendo una piattaforma basata sul ripristino della legalità, dell’ordine e della sicurezza – richieste particolarmente sentite nel paese, dove violenze e rapine sono oggi in aumento – e sulla ripresa economica, mentre Mursi fa appello, ma solo oggi, alla riconciliazione con le forze politiche laiche e con la minoranza cristiana copta, arrivando a prospettare la possibilità che il vice-presidente non sia un islamista. Proprio il voto copto (i copti compongono il 12% della popolazione egiziana) ha probabilmente influito sul successo di Shafiq. Inizialmente convergenti su ‘Amr Musa, l’ex-presidente della Lega Araba dato come favorito fra i candidati laici, i voti della comunità hanno infatti premiato Shafiq dopo che Musa era stato accusato, in uno degli ultimi colpi di scena di questa drammatica campagna elettorale, di ricercare un accordo con i partiti islamisti.
La cattura dei voti andati ad altri candidati e la mobilitazione degli astenuti è oggi il principale obiettivo della campagna, prima del voto finale del 16 e 17 giugno, e non appare un obiettivo facile. Tanto Musa che Sabahi hanno dichiarato di non voler sostenere né gli islamisti né i rappresentanti del regime, ma è probabile che i voti del primo finiscano a Shafiq e quelli del secondo – almeno in parte – a Mursi. Il candidato islamista ha intanto ricevuto inaspettato sostegno da Alaa al-Aswany, il più famoso scrittore egiziano contemporaneo, già sostenitore di El-Baradei, il candidato liberale ritiratosi all’inizio della campagna per motivi tuttora poco chiari, ma è prevedibile che il voto liberale conterà poco nel risultato finale. Anche la sentenza che ha condannato all’ergastolo il 2 giugno il ra’is morente Hosni Mubarak avrà sulla campagna in corso effetti che è ancora difficile prevedere. Quanto agli alleati occidentali dell’Egitto, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton ha ufficialmente dichiarato che l’amministrazione Obama accetterà qualunque governo eletto democraticamente.
E’ prevedibile che un risultato a favore di Shafiq possa condurre ad una impasse politica capace di paralizzare il paese e di accentuare le divisioni, poiché il parlamento eletto (al 70% islamista) e il presidente dovranno riscrivere la Costituzione del paese, oggi retto, in modo confuso e controverso, da una dichiarazione costituzionale provvisoria emanata dallo SCAF (il Consiglio supremo delle forze armate). L’esercito, che gestisce non solo la difesa, ma anche la politica estera e l’economia nazionale, pretende che la nuova costituzione salvaguardi le sue prerogative, in particolare la segretezza del bilancio militare e l’ultima parola in caso di dichiarazione di guerra. Quest’ultima clausola è indirettamente volta a tutelare il trattato di pace con Israele, condizione degli ingenti aiuti statunitensi all’Egitto, la cui revisione è stata più volte minacciata dal blocco islamista mentre Shafiq si è espresso a favore della sua conservazione.
Il perdurante potere dei militari è oggi il principale ostacolo alla transizione democratica in Egitto e il limite di ogni suo passo in avanti. Appare per questo tanto più incoraggiante la notizia che il 31 maggio è definitivamente decaduta la legislazione di emergenza, ininterrottamente in vigore in Egitto dal 1981, dopo l’assassinio di Sadat, e con essa un importante strumento di repressione e di controllo della popolazione nelle mani dei militari.

04 maggio 2012

Egitto. I risvolti politici della cessazione delle forniture di gas a Israele

di Anthony Santilli

Mentre in Egitto il processo di transizione democratica avanza attraverso un tortuoso percorso ad ostacoli, nuovi scenari si profilano anche in riferimento alla posizione del paese nel più ampio scacchiere mediorientale.
Domenica scorsa [22 aprile NdR] l’esportazione di gas naturale egiziano verso Israele è cessata ufficialmente. Questa si fondava su di un accordo del 2005 quando, attraverso un memorandum d’intesa, l’Egitto dell’allora presidente Mubarak si impegnò a fornire a Tel Aviv circa 1.7 bilioni di metri cubi annui di gas, per una durata variabile tra i quindici e i venti anni. Numerosi analisti evidenziarono all’epoca come il prezzo concordato per l’esportazione del gas egiziano verso Israele fosse nettamente inferiore a quello di mercato. Negli anni successivi, l’Egitto rinegoziò molte forniture di gas, ad eccezione di quella siglata con Israele.
L’impopolarità di questo accordo in Egitto è a tutti nota. La crisi economica che il sistema-paese sta attraversando da anni e il crescente disappunto per l’atteggiamento israeliano verso il popolo palestinese rappresentano, agli occhi dell’opinione pubblica egiziana, delle ragioni più che valide per rivedere un accordo al ribasso, simbolo della complicità egiziana con lo scomodo vicino.
Ecco perché, sin dal 2008, esiste nel paese una campagna popolare contro l’esportazione di gas verso Israele, e perché, dallo scoppio della rivolta del lontano 25 gennaio 2011, si contano ben 14 attacchi contro il gasdotto che dal Sinai arriva fino ai suoi territori.
Sulla stampa egiziana la rottura del contratto - ufficialmente rescisso perché dal 2008 Israele non avrebbe corrisposto l’importo pattuito - ha assunto sin da subito connotazioni politiche.
Quotidiani filo-governativi come al-Jumhuriyya (lett. “La Repubblica”) approfittavano martedì scorso dell’anniversario del ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Sinai per istituire un parallelismo, tra la funzione “emancipatrice” esercitata a loro dire dai militari in quel lontano 25 aprile del 1982 e l’attuale rescissione attribuita, a loro dire, al risoluto intervento del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF). Un parallelismo a dir poco forzato, se si pensa alla vera storia di quel lontano episodio, nel quale le alte sfere militari egiziane svolsero un ruolo a dir poco marginale.
Molte testate indipendenti pongono l’accento invece sul carattere propagandistico della decisione assunta nei giorni scorsi. Citando un’anonima “fonte governativa”, il quotidiano al-Shuruq ha sottolineato ad esempio come il provvedimento di cessazione dell’esportazione di gas sia stato adoperato dallo SCAF come uno strumento per invertire quella crisi di consensi verso i militari che da mesi sembra irreversibile. Ecco quindi spiegato, sempre secondo al-Shuruq, perché il provvedimento sia stato adottato proprio alla vigilia del succitato anniversario.
Una considerazione condivisa anche da Ibrahim Eissa che tuttavia, in un lungo editoriale dal titolo “I pericoli di una grande decisione” apparso sul quotidiano indipendente al-Tahrir (lett. “La Liberazione”), si chiede come mai, se davvero trattasi di questione politica, l’esercito o il governo egiziano non lo abbiano rivendicato in maniera più esplicita.
In realtà, alcuni membri del gabinetto ministeriale si sono esposti con dichiarazioni alquanto esplicite, seppur contraddittorie. Già lunedì scorso [23 aprile 2012 NdR] il quotidiano di stato al-Ahram ha dato risalto alle dichiarazioni del Ministro dell’Energia Hassan Yunis, secondo cui il gas sino ad allora esportato verso Israele verrà “destinato agli impianti elettrici egiziani” perché “noi ne abbiamo più diritto di loro”. Sulle pagine di al-Tahrir leggiamo invece le dichiarazioni del Ministro per la cooperazione internazionale Fayza Abu al-Naga, che apre ad una inedita fase di esportazione di gas verso Tel Aviv, seppur secondo nuove (e più alte) tariffe.
Affermazioni discordanti, che rivelano tuttavia come il governo stia tentando di giocare la carta del “patriottismo energetico” per risalire, come i militari, nei sondaggi di gradimento.
Più equilibrata l’analisi proposta da ‘Abd al-Rahman Hussein dalle pagine del quotidiano indipendente al-Masri al-yawm (lett. “L’Egitto oggi”). L’autore, pur riconoscendo che la rescissione del contratto è stata provocata da fattori prettamente commerciali, non nasconde l’esistenza di implicazioni politiche, manifestatesi a suo dire nelle modalità e nella tempistica adottate per affrontare la questione. Citando l’opinione di Nabil ‘Abd al-Fatah, analista del Centro studi politici e strategici del gruppo editoriale al-Ahram, l’autore ricorda come la rescissione dell’accordo “avrà effetti importanti anche in politica interna, poiché si inserisce nello scontro tra lo SCAF e le altre forze politiche egiziane, in particolare quelle islamiste”.
È evidente oramai come la questione dei rapporti israelo-egiziani sia parte integrante della battaglia fra le differenti forze politiche nel paese. Sarà da capire nelle prossime settimane se, al di là della sua attuale strumentalizzazione, si arriverà ad una più generale ridefinizione degli Accordi di Camp David.

09 luglio 2013

Perché al Nour è così importante in Egitto?

di Jean-Marie Rossi

Alle quattro di mattina di lunedì 8 luglio l’esercito egiziano ha sparato sulla folla che stava manifestando di fronte alla sede della Guardia Repubblicana al Cairo, uccidendo 51 persone e ferendone diverse centinaia. Molti manifestanti si erano riuniti per protestare contro il colpo di stato dell'esercito ai danni del deposto presidente Mohammed Mursi, che si crede sia trattenuto proprio presso la sede della Guardia Repubblicana. Non è molto chiara la dinamica di quello che è successo - manifestanti ed esercito hanno diffuso dei video che mostrano diverse fasi della sparatoria, ma che non chiariscono le responsabilità effettive - ma una delle reazioni più significative agli eventi di domenica notte è stata quella del partito salafita egiziano Al Nour: i suoi membri prima hanno comunicato di volersi ritirare dalle consultazioni presidenziali per la formazione del nuovo governo, poi hanno "ammorbidito" le loro posizioni, dicendo al quotidiano del Qatar Al-Jazeera che in realtà la loro era una sospensione, più che un ritiro.
Erano state proprio le riserve di Al Nour, secondo più importante partito islamista dopo i Fratelli Musulmani, a bloccare la nomina di Mohamed El Baradei a primo ministro - e poi a vice primo ministro - del governo ad interim che i militari stanno cercando di formare per guidare il paese nel periodo di transizione fino alle prossime elezioni. Dopo il veto di Al Nour, il nuovo presidente dell'Egitto, Adli Mansour, aveva comunicato alla stampa che non c’era ancora certezza riguardo alle diverse nomine e che i negoziati tra le varie forze politiche sarebbero dovuti continuare.
Il partito Al Nour, visto fino a due anni fa non tanto come una formazione politica quanto come un gruppo di estremisti islamici con poche possibilità di ottenere ampio consenso, è riuscito a crearsi un certo spazio politico dopo avere scaricato Mursi durante il colpo di stato dei militari dei giorni scorsi. Al Nour è stato l’unico partito islamista che ha appoggiato il colpo di stato contro Mursi, sebbene fosse molto legato ai Fratelli Musulmani. Inoltre, la sua presenza a fianco dei militari ha dato il segnale agli elettori egiziani che la mossa dell'esercito non era rivolta contro l’Islam, o i partiti islamisti al potere.
Con il passare dei giorni, Al Nour ha acquisito un ruolo sempre più necessario nelle negoziazioni per la formazione del nuovo governo. Molti esperti hanno scritto che non è possibile, ad oggi, pensare di formare un governo ad interim nel nuovo Egitto post-Mursi senza che questo ottenga l'appoggio e il sostegno dei salafiti di Al Nour. Il problema, stanno dicendo alcuni leader più laici dell'Egitto, è che i salafiti stanno imponendo delle condizioni sempre più stringenti: hanno rifiutato le candidature del primo ministro e del vice primo ministro avanzate dall'esercito e dalle altre opposizioni, e mantengono una posizione di intransigenza rispetto alla presenza della religione islamica nell'assetto politico e istituzionale del paese.
Le fazioni politiche più laiche dell'Egitto si stanno mostrando sempre più preoccupate sulle richieste di Al Nour, soprattutto dopo le dichiarazioni di lunedì della loro sospensione nelle negoziazioni per il nuovo governo. Samer Shehata, politologo all’Università dell’Oklahoma esperto di islamismo, ha detto che gli ultraconservatori di Al Nour stanno sfruttando le fratture che si sono create in questi giorni all'interno del movimento dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi due anni Al Nour ha fatto una grande campagna per rafforzare i princìpi islamici all'interno delle istituzioni dello stato: ad esempio, si è battuto per inserire nella Costituzione egiziana non solo un blando riconoscimento ai princìpi dell’islamismo, ma una vera e propria ristrutturazione della carta costituente in favore della legge islamica. Ora, con il ruolo sempre più decisivo nel futuro dell'Egitto, Al Nour potrebbe volere - e potere - avanzare delle richieste a cui gli alleati potrebbero non poter dire di no. E questo vale sia per la Costituzione, sia per la nomina di personalità non laiche nei posti che contano del nuovo governo ad interim dell'Egitto.


05 marzo 2012

L’Egitto e l’Occidente, un rapporto che muta?

In Egitto la difficile transizione verso la democrazia e verso un governo civile inizia ad avere dei punti fermi, delle date stabilite: le prime elezioni presidenziali del dopo Mubā'rak si terranno il 23 e 24 maggio e il vincitore, che con ogni probabilità avrà un ruolo fondamentale nella definizione della politica estera, sarà annunciato il 21 giugno. Il percorso è sempre quello immaginato un anno fa: elezioni parlamentari, nuova costituzione, elezioni presidenziali, ritorno dei militari nelle caserme e governo civile. Ma ogni nuovo passaggio verso il nuovo assetto si realizza attraverso rotture e conflitti, non gradualmente; le proteste di piazza nel novembre 2011, la frattura tra il movimento democratico e il governo militare, la netta vittoria dei Fratelli Musulmani alle elezioni. L’Occidente segue questo percorso con preoccupazione; la contraddizione è evidente, poiché Mubā'rak era un fedele alleato mentre le prospettive future restano incerte. I segnali non sono tranquillizzanti per i tradizionali alleati dell’Egitto: i Fratelli Musulmani sono critici nei confronti della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e restano istintivamente ostili a uno stile di vita e a un modello di società che sentono estranei. Le recenti polemiche sulle ‘scuse’ per i crimini del colonialismo, rilanciate dall’Università sunnita Al-Azhar, se sono prive di concrete conseguenze, rimangono un indicatore significativo dell’umore della società egiziana. Naturalmente la questione di Israele rimane il nodo cruciale; è probabile che alle radicali dichiarazioni di principio corrisponda il tradizionale pragmatismo dei Fratelli Musulmani. Nondimeno molti osservatori temono passi indietro rispetto alle prospettive di una pace duratura nell’area. Anche la situazione economica sembra instabile; la visita in Egitto nel gennaio 2012 del ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi di Sant'Agata ha messo al centro più i rapporti economici bilaterali che le considerazioni di geopolitica ma anche da questo punto di vista, permangono difficoltà. L’instabilità politica ha danneggiato il turismo e il sabotaggio dei gasdotti, attribuito ai beduini del Sinai, rischia di bloccare una delle più importanti risorse economiche del paese.

18 luglio 2013

Tre possibili scenari per la crisi in Egitto

di Niccolò De Scalzi

In Egitto, dopo il colpo di stato che lo scorso 3 luglio ha deposto il presidente Morsi, continuano i disordini e le proteste di piazza. Lo scorso lunedì ci sono stati altri scontri fuori dalla Moschea di al Adawija e nei pressi dell’Università del Cairo tra sostenitori dei Fratelli Musulmani e l’esercito ora al potere. Secondo fonti del ministero della salute egiziano, riportate dal quotidiano arabo Ahramonline, a seguito di un lancio di lacrimogeni e pietre nella notte tra lunedì e martedì vi sarebbero stati 7 morti e oltre 260 feriti. Le proteste della Fratellanza Musulmana sono iniziate per le dichiarazioni del vicesegretario di stato americano William Burns che, dopo aver incontrato nella giornata il presidente ad interim Adli Mansour, il primo ministro Hazem al-Beblawi e il generale Al Sisi, capo dell’esercito che ha deposto il leader dei Fratelli Musulmani Morsi, ha parlato di una seconda possibilità per la democrazia egiziana.
Domenica 14 luglio il New York Times ha riportato la notizia secondo cui il nuovo governo ha congelato i beni, bloccandone l’accesso, a 14 imprenditori e uomini influenti molto vicini ai Fratelli Musulmani. Tra le vittime delle misure sanzionatorie vi sarebbe anche Khairat el-Shater, un miliardario egiziano considerato la “mente finanziaria” dei Fratelli musulmani. Il governo ha difeso le misure sanzionatorie, parlando di una manovra necessaria per costringere i Fratelli Musulmani a sedersi al tavolo delle trattative con i militari e definire una road map condivisa per far uscire il paese fuori dalla crisi.
Secondo le dichiarazioni ufficiali del nuovo presidente ad interim Mansour entro una settimana circa dovrebbe essere nominata una commissione che si occuperà di preparare le proposte per emendare l’attuale costituzione che è stata sospesa al momento della deposizione di Morsi. Le modifiche dovranno essere ratificate da un successivo referendum che si terrà entro 4 mesi. Solo dopo il referendum si terranno, entro il febbraio 2014 le elezioni parlamentari e subito dopo le nuove elezioni presidenziali.

L’importanza dei militari. Il cammino di transizione è osservato con apprensione dagli Stati Uniti, paese che ogni anno elargisce all’Egitto circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti economici in cambio di garanzie di stabilità politica e il rispetto degli accordi di Camp David del 1978. Una parte consistente di questi aiuti economici, dal 1979, finisce nelle mani dei militari tramite il programma statunitense “Foreign Military Financing” (FMF).  Gli aiuti all’Egitto sono ripartiti con Israele (l’altro paese assieme agli Stati Uniti che ha firmato gli accordi del 1978) secondo proporzioni di 3:2. Su 100 milioni erogati dagli Stati Uniti, 60 vanno a Israele e 40 all’Egitto, e ad ogni misura di sostegno a un paese corrispondono precise garanzie. Dal 1979 ad oggi gli aiuti militari sono andati aumentando di due milioni l’anno ogni anno circa. Questi aiuti vengono indirizzati al  ”Supreme Council of the Armed Forces”  egiziano (SCAF), l’organo più importante della catena di comando militare che oggi è tornata al potere.
Nel dicembre 2011, a seguito dell’arresto di 43 operatori di ONG statunitensi attive in Egitto, una grave crisi diplomatica tra Stati Uniti e Egitto sembrò poter interrompere il flusso monetario. Tra gli arrestati c’era anche Sam LaHood, figlio dell’ex ministro dei trasporti americano e Morsi si era trovato sospeso tra le pressioni dei militari per appianare la crisi con gli Stati Uniti e non interrompere gli aiuti e i conservatori salafiti che spingevano per alzare ancora di più i toni con l’amministrazione americana a costo di interrompere le sovvenzioni americane. La vicenda si è conclusa lo scorso 4 giugno con la condanna da parte di una corte egiziana dei 43 lavoratori alla prigione, anche se i condannati hanno già abbandonato il paese.
Secondo l’analista statunitense Ian Bremmer, il potere dei militari non è stato mai realmente scalfito dai Fratelli Musulamani, se si esclude la rimozione del potentissimo ex capo delle forze armate Mohammed Tantawi da parte di Morsi, nell’agosto del 2012. Mentre molti analisti sul mensile americano Foreign Policy si chiedono se quello del 3 luglio scorso possa considerarsi un colpo di stato, secondo Bremmer è più corretto chiedersi se quella che ha portato al potere Morsi è stata davvero una rivoluzione, dato che il potere della casta militare non è mai stato realmente intaccato.

Tre scenari per il futuro. Secondo Bloomberg il futuro dell’Egitto dipenderà molto dalle prossime mosse dei militari guidati dal generale al Sisi e dalle reazioni che seguiranno soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani. Il primo scenario, il più ottimista, prevede che i militari assumano un ruolo più defilato da qui alle prossime elezioni, candidando un politico che non sembri troppo un “fantoccio” nelle loro mani. Le elezioni, secondo questa previsione, dovrebbero concludersi con una sconfitta dei Fratelli Musulmani senza ripercussioni violente. La seconda ipotesi è che l’esercito egiziano decida di ripetere un’esperienza analoga a quella sperimentata in Turchia nel 1997, quando un gruppo di generali inviarono un memorandum al primo ministro Necmettin Erbakan intimandogli le dimissioni. Erbakan fu arrestato e il partito islamista Welfare Party fu chiuso favorendo l’ascesa di Recep Tayyip Erdoğan, attuale primo ministro turco. Non vi fu alcun carro armato nelle strade e gli stessi generali favorirono la transizione dei voti islamisti del Welfare Party verso nuovi soggetti politici come il Partito per la Giuistizia e lo Sviluppo dello stesso Erdogan. Un modello di transizione politica passata alla storia come “colpo di stato post-moderno“. La terza possibilità è che l’esercito egiziano continui a considerare i sostenitori di Morsi e dei Fratelli Musulmani come degli insorti, creando così le condizioni per uno scenario da guerra civile sul modello di quella scoppiata in Algeria dopo il colpo di stato del 1992 con cui i militari deposero il partito islamista che aveva appena vinto le elezioni.

Troppo grande per fallire. La stabilità dell’Egitto non interessa solo gli Stati Uniti per cui Il Cairo rappresenta un paese chiave per la sicurezza in Medio Oriente, ma anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi che hanno recentemente inviato 8 miliardi di aiuti dopo la presa del potere da parte dei militari, una chiara manifestazione di fiducia nei confronti del ruolo assunto dai militari. Barack Obama fin dall’inizio della crisi si è detto “molto turbato” dai disordini, ma allo stesso tempo ha chiesto ai militari un ritorno quanto più rapido a libere elezioni senza l’esclusione di alcuna componente politica dal voto. Il vero argine ad una svolta autoritaria da parte dei militari egiziani è rappresentato, secondo Bremmer, più che dai Fratelli Musulmani, dalla presenza di una componente di popolazione civile attiva, influente, poco disposta a farsi mettere a tacere da un giro di vite degli uomini di al Sisi.

FONTE: Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali
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mercoledì 18 novembre 2015

La devastazione antropologica del capitalismo multinazionale

Guerre civili, operazioni di peacekeeping, campi di rifugiati e migranti: luoghi dove vivono e muoiono milioni di persone. Nella dimensione globale dell’esistenza umana del XXI secolo le persone ‘in esubero’, le vite di scarto, sono possibili esiti di processi sociali, economicamente e politicamente orientati dal capitalismo multinazionale, che producono incertezza e paura, quindi bisogno di sicurezza. Il fanatismo religioso sembra mettere in ombra la realtà materiale dei profughi modificando il paesaggio antropologico in un inferno che tutto divora, devasta, inaridisce. Le stragi quotidiane – a Parigi come in Siria ed altrove – diventano, nel racconto mediatico eterodiretto, icona e metafora di un’umanità che ha smarrito se stessa, dispersa nel deserto della violenza e delle relazioni spezzate, in fuga dalle città inclusive, un tempo, ora violate; diventano icona e metafora di luoghi di incontri e socialità non più espressi, icona e metafora di biografie possibili sospinte negli angusti carceri della “spietatezza”.
Ci vuole resilienza, reazione razionale e determinata per una ripresa del viaggio, rintracciando ‘tracce di cammino interetnico’, segni inequivocabili che indicano sentieri per un’etica e una prassi dell’incontro e della relazione d’aiuto nella reciprocità generatrice di polifonia culturale che "scuona" come urgente fuoriuscita dal capitalismo. Io guardo l’altro che mi guarda attraversando frontiere e fili spinati, scalando muri di recinzione, attraversando la terra di mezzo, spazio delle possibilità, opzioni di vite mai più rassegnate ad insipidi copioni da recitare. Apriamo nuovi spazi umanitari. Hic et nunc ! Costituzione della Repubblica italiana – Articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. “Chi sente soltanto il profumo di un fiore, non lo conosce, e nemmeno lo conosce chi lo coglie solo per farne materia di studio” Johann Christian Friedrich Hölderlin Oggi, portare la guerra nelle metropoli è come mettere una bomba alla stazione di Bologna. È un atto di terrore per disorientare. Su quest’atto, complottismo e islamofobia prospereranno. L’attacco contro Parigi permette di prendere in ostaggio milioni di persone di confessione musulmana in Francia e in Europa, come se fossero tutti loro e solo loro corresponsabili. Le immagini che arrivano in diretta da Parigi sono inquietanti. Non solo per la crudeltà riversata nei locali, nelle strade, nei non-luoghi di aggregazione di massa come lo stadio di una normale capitale europea, ma anche per l’obiettivo scelto – la popolazione non in armi -, le presunte motivazioni, la canea che si è scatenata immediatamente dopo. Tutto accade senza mettere, in realtà, pragmaticamente, in discussione l’antefatto tecnico, piuttosto che politico-culturale, della tragedia umana in corso: la produzione e la vendita di armi, fenomeno economico anch’esso spiegabile, del resto, in chiave storico-economico-politica, poiché rinvia al modello di società terribile nella quale viviamo ed alle forme egemoni di coatta relazione tra esseri umani che tale modello genera. Detto questo, non possiamo esimerci dal dire che l’attacco assassino è assolutamente funzionale ad una idea di destabilizzazione che ricorda la strategia della tensione. L’ISIS lo abbiamo potuto conoscere dopo l’avanzata in IRAQ e in KURDISTAN. Soprattutto abbiamo imparato a conoscerlo attraverso la resistenza kurda che lo combatte da anni e che nella città di Kobane lo respinge indietro, con il timido aiuto delle potenze occidentali. L’ISIS gode del supporto (più o meno velato) del Governo turco. Il suo uso in funzione anti-ASSAD è pressoché dimostrato. Ma l'evidenza più sconcertante è l’afflato politico con il quale i rappresentanti eletti nei Parlamenti italiano ed europeo si scagliano contro l’ISLAM inteso sempre come il diverso da combattere, auspicando misure sempre più restrittive e fasciste. Non è affatto vero che “politiche fasciste” possano aver la meglio sui neofascismi che si camuffano per culture religiose. C’è una perversa analogia strutturale tra autoritarismi europei, americani e russi – fatti anche di misure economiche liberiste – e quelli feudali ed intagralisti espressi, negli ultimi anni, dal Califfato. La lotta dei Kurdi in SIRIA, in IRAN, in TURCHIA, la resistenza a Kobane, il processo politico libertario e egalitario in Rojava, ci forniscono sicuramente una chiave di lettura utile che supera l’emergenza e lo sconcerto legato ad una “normale” serata europea inondata dal sangue.

venerdì 20 marzo 2015

Lettera alle lavoratrici e lavoratori

Care lavoratrici e cari lavoratori metalmeccanici, sabato 28 marzo ci ritroveremo a Roma per la dignità e la libertà del lavoro. Nei mesi scorsi, insieme, ci siamo battuti contro il Jobs Act del governo che non crea nuovo lavoro né affronta il dramma della precarietà e della disoccupazione giovanile. Insieme abbiamo proposto delle alternative e presentato le nostre idee frutto di tante assemblee e discussioni con voi. Ma il governo non ha voluto ascoltarci, ha messo in pratica le indicazioni di Confindustria, imboccato la strada della riduzione dei diritti, sposato le ricette di chi pensa che licenziando si crei nuova occupazione. Abusando della democrazia, il governo, a colpi di fiducia, ha ridotto il Parlamento a mero esecutore della sua volontà. La nostra lotta però non è finita con il varo del Jobs Act. Come promesso durante lo sciopero generale del 12 dicembre di Cgil e Uil, continueremo a spendere le nostre idee e le nostre energie per difendere il lavoro e i suoi diritti, cambiare il paese e renderlo più giusto.
Questo è un momento importante per il futuro di tutti noi, delle lavoratrici e dei lavoratori, del nostro sindacato che esiste e ha un senso solo se riesce a rappresentare democraticamente i vostri interessi e da voi riceve il sostegno, le idee e le energie necessarie. Per migliorare le condizioni del lavoro dipendente. Per rivendicare un sistema pensionistico più giusto con la riduzione dell’età pensionabile. Per dare un’occupazione a chi non ce l’ha con nuovi investimenti e con la riduzione dell'orario di lavoro. Per cancellare il precariato. Per combattere l'evasione fiscale e la corruzione. Per garantire il diritto alla salute e allo studio. Per istituire forme di reddito minimo. Per riconquistare veri contratti nazionali che tutelino il salario e diano uguali diritti a tutte le forme di lavoro. Per questo, nel ringraziarvi per quanto abbiamo fatto finora, vi invito a partecipare in massa alla manifestazione del 28 marzo. L'abbiamo chiamata “Unions!”, usando una lingua che non è la nostra ma utilizzando una parola che richiama le origini del movimento operaio e sindacale. Quando, tanti anni fa, lavoratrici e lavoratori senza diritti scoprirono insieme che per migliorare la propria condizione era necessario coalizzarsi e battersi per conquistare libertà e diritti comuni. Oggi milioni di lavoratrici e lavoratori hanno visto cancellati i diritti frutto di lunghe battaglie; altri milioni di lavoratrici e lavoratori quei diritti non li hanno neppure mai avuti, dispersi nelle tante forme di lavoro saltuario e sottopagato. Per tutte e tutti il lavoro sta diventando più povero e precario. Oggi abbiamo bisogno di riprendere il filo dell'impegno comune, delle lotte contro le politiche dei governi che in Italia e in Europa hanno voluto far pagare al lavoro il costo di una crisi prodotta dalla finanza e dalle speculazioni. Per dare rappresentanza al lavoro. Per confrontarci con tutte quelle realtà, associazioni, gruppi e movimenti che nella società affrontano e contrastano il degrado civile prodotto dalla crisi economica e dalla sua gestione politica. Per affermare i principi della nostra Costituzione.
Oggi abbiamo bisogno di un'alleanza, di costruire una coalizione sociale che unisca ciò che il governo e Confindustria vogliono separare, aggregando tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare con le metalmeccaniche e i metalmeccanici, con le delegate e i delegati, con le iscritte e gli iscritti alla Fiom. Per crescere e cambiare abbiamo bisogno di voi, perché la vostra partecipazione e la vostra intelligenza saranno la nostra comune forza. Vi aspettiamo a Roma il 28 marzo. E da lì continueremo insieme. Maurizio Landini

mercoledì 25 febbraio 2015

"Ho fatto esperienza dell'estraneità"

By Giovanni Dursi "Ho fatto esperienza dell'estraneità. L'anima ha le sue forme. Spiritualità è la mia fame, la mia stanchezza, il mio sudore. Ruggito della vita, pochi secondi, suadente tempesta, ogni volta tutto è sconvolto. Perdo i compagni, uno ad uno, per strada, ridanciani. Ispirati, girano a destra e a manca, ansimanti come ronzini sfiancati, godono del disfacimento, neanche se ne avvedono. La loro anima, leccornia nel trogolo di avidi maiali. Pregano, tremebondi, credono, dopo tanti affanni, s'arrendono. Narciso padre li accoglie in grembo. Si specchiano e si donano. In certi periodi, in una vita, tutte le tensioni latenti sembrano addensarsi. Si prefigurano già quelle che segneranno il tempo a venire. Il libro più felice è quello da scrivere, zampilla come sangue dal polso lacerato, per non morire.
L'anima ha le sue forme. Il racconto in cifra della storia sottile e tormentosa mi scuote, mi riguarda. Il tempo delle preghiere, della speranza, dell'amore mi è estraneo. L'eco di frammenti dei lunghi dialoghi con con gli amici, sempre più debole. Mesi esacerbati, mi uccido, come tubercolosi la borghesia in me, cessa l'insano respiro. Partorisco nelle meravigliose domande, nelle succose intentate attività. Poco tempo prima di questi fatti, annoto nel mio diario: «Se guardo al futuro, ai cinquant’anni che seguiranno, vedo davanti a me un grande deserto grigio». La «metafisica della gioventù» non tonifica né nutre d'intensità. S'avvicina, per la sua dolente impudica realtà, al clima dell'hotel Auschwitz-Birkenau. . . .
", Ottobre 2013

giovedì 25 dicembre 2014

L'Internazionale

Guarda SCENARI GRECI Στην Αθήνα, τον Δεκέμβριο 2014. Κάποιοι πρωταγωνιστές της ελληνικής πολιτικής σκηνής δίνουν συνέντευξες σχετικά με την ενδεχόμενη επόμενη κυβέρνηση της αριστεράς.

Inside the revolutionary process. Inevitably, today !

Perché mimetizzare le cicatrici ? Il potere cerca di nascondere la devastazione materiale e cerca di contrastare la depressione emotiva dei popoli, auspicando che le “genti” passino la vita surrogando i bisogni reali. Le fila dei “malcontenti” s'ingrossano; timidezze estreme, autolesionistiche, vanno incontro, lasciandosi fagocitare del tutto, al trionfo proprietario delle relazioni umane. Il potere racconta la vita di miliardi di persone come favola archetipa, come un'eterna partita alla tombola. Alcuni, collaborativi, possono permettersi di sorridere alla sconfitta e fanno archeologia culturale pensando alla “democrazia reale” come unico, intangibile orizzonte sociale; altri, scelti dalla vita, piuttosto che messi in condizione d'effettuare una scelta di vita, si dedicano al conflitto, ad essere “partigiani”, avanguardia non della tecnica, scontatamente – per i guru della “rete – imprescindibile, ma in quanto depositari della “prospettiva” storica. Come se non si sapesse che i "filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" (rif. 11° Tesi su Feuerbach). Non sono gli scandali e la corruzione pubblica e privata a far crollare le Istituzioni, lo Stato perché essi sono parte integrante della “democrazia reale” nella versione eurostatunitense. La post-modernità non s'annuncia o s'avvera con le rivolte delle moltitudini, organizzate anche grazie alla pervasiva presenza dei social media nel conflitto, al di fuori dell'Occidente economicamente avanzato e tecnologicamente dotato, perché essa è dentro la visione fallimentare della “democrazia reale”, frutto avvelenato del rigenerato capitalismo delle multinazionali. Tant'è, dopo la rivolta, la rottura dell'ordine costituito e la deriva liberatrice sono ricondotte a subalternità della “nuova” integralista forma del potere. Le “crisi” che scompaginano i blocchi sociali, che permettono d'evadere dalle “trincee” del persistente conflitto sociale, devono essere vissute come una “crisi” di sistema che non può più essere ricompresa nella fisiologica, gattopardesca ristrutturazione degli assetti gerarchici nel corpo sociale, non sono contenute dall'ideologia del “riformismo” borghese e della “democrazia reale”. Si è in presenza d'una crisi “ontologica” del sistema capitalistico di vita. Non basta alludere all'azione del “riformare” i comportamenti delle classi contrapposte o indurre gli individui a camminare rettamente sul filo della moralità pubblica; queste illusioni parlano il linguaggio dell'inganno, creano ulteriori trincee e ghetti che non parlano al mondo reale. Necessario, viceversa, è riformulare la “novitas”, attualizzarla, renderla possibile, agire come mai in precedenza. Il conflitto deve esprimere un sentimento, drasticamente, irreversibilmente, "antidemocratico" (nel chiaro significato di contrarietà antagonistico-duale alle varianti storiche della "democrazia realizzata") e postresistenziale che sia in grado d'avviare la riorganizzazione politico-organizzativa del proletariato per il suo potere esclusivo e per la costituzione di nuove forme d'istituzionalità autenticamente popolare. Ciò che non è nelle previsioni del capitalismo delle multinazionali – il concreto rinnovamento/ribaltamento della società – è vincente; il prevedibile, suscettibile di repressione e stigmatizzazione culturale, il già visto può solo essere archiviato, soddisfacendo autoreferenzialmente le anime belle della retorica, sociologica, ideale congettura rivoluzionaria. Stellarmente e storicamente distanti dai velleitarismi insurrezionalisti e dell'insubordinazione di testimonianza è il processo politico-organizzativo del proletariato rivoluzionario. La società capitalistico-borghese, d'illuministica derivazione, è in procinto di fallire; non basta, però, pensare che essa crolli senza colpo ferire. Non basta pensare al fallimento dei postulati egualitari, dell'uguaglianza formale davanti alla legge; tale stagione, troppo subdolentemente lunga, ha prodotto atroci impedimenti per l'emancipazione politico-culturale delle masse subalterne e la liberazione degli uomini dal giogo schiavistico del lavoro sottoposto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, a sua volta causa dell'appropriazione personale della ricchezza socialmente generata. L’economia borghese considera il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica, il capitalista, utilizza il lavoro di una certa categoria di persone, i salariati, per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che va descritta in termini di sfruttamento e di logica del profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della proprietà privata e dalla costruzione del comunismo.
L’unico modo di abbattere la società alienante sarà la rivoluzione proletaria. Il lavoro è creatore di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed i mezzi di cui si servono per produrre (ad esempio: salariati; industria; azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione (la "relazione" capitale / lavoro necessita la contrapposizione tra capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia dall’economia. Quindi, l’economia è la struttura o la base della società, sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte, religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che determina le condizioni di vita sociale, come le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le filosofie e non viceversa. E' il materialismo storico a ritenere che le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta. Le forze produttive, in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà, tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie di crisi e di conflitti. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ma se sociale è la produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé la base del suo superamento. Il comunismo è lo sbocco delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico e di riproduzione dei rapporti sociali; nella storia ogni formazione economica e sociale è un gradino di un processo che porta al comunismo, società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, inteso come forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come padrone del proprio destino. "Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca). Il carattere dialettico della teoria rivoluzionaria proletaria si manifesta nella storia, intesa come un processo dominato dalla forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale che può essere realizzato dalla soggettività organizzata politicamente. La dialettica non è entità spirituale, bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste nel possibile, auspicabile passaggio dalla società capitalistica a quella comunista. Storicamente, vi saranno pochi capitalisti che deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (rif. all'"economia politica", alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari sfruttati prendono coscienza di classe e sono, in particolare, i comunisti, "l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato", che devono guidare la rivoluzione della classe sfruttata. La rivoluzione proletaria abbatte le istituzioni dello Stato borghese ed in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia del mondo. Vi sarà la dittatura del proletariato che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa sarà una fase di transizione e durerà solo fino all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra. Altra cosa rispetto al contrasto fra la liberté e le “libertà”, fra l'uguaglianza formale e quella materiale, altra cosa rispetto al tentativo di dare “concretezza” politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”. La strada verso la servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la libertà ne postula di più dure. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestia da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla rivoluzione proletaria e da quella sono totalmente respinte ! Presupposto fondamentale, lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli U.S.A. e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia destra/sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.

giovedì 11 dicembre 2014

L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse

La storia della lotta armata di sinistra in Italia ha partorito una produzione libraria copiosissima, ma per molti versi insoddisfacente. Lasciando da parte l’esorbitante paccottiglia “cospirazionista”, hanno prevalso opere di taglio giornalistico, oppure memorie, non sempre attendibili o significative, di singoli personaggi, fossero attori effettivi (il più efficace e sincero: Prospero Gallinari), magistrati o congiunti delle vittime. Alcuni autori hanno cercato di ricostruire gli eventi con obiettività, ma i libri degni di nota si contano sulle dita di una mano. Ne citiamo quattro: Storia delle Brigate Rosse, di Marco Clementi (Odadrek, 2007); Vorrei che il futuro fosse oggi. Nap: ribellione, rivolta e lotta armata, di Valerio Lucarelli (L’Ancora del Mediterraneo, 2010); La lotta è armata. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato, 1969-1972, di Gabriele Donato (IRMS Friuli-Venezia Giulia, 2012); Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse, di Andrea Casazza (Derive-Approdi, 2013). Oltre, naturalmente, ai volumi de La mappa perduta pubblicati da Sensibili alle foglie, che peraltro si limitano a offrire materiali a un ipotetico storico a venire. Sta di fatto che la vicenda complessiva resta ampiamente nell’ombra, vittima di una ritrosia tutta politica a trattarla se non in termini esclusivamente giudiziari; per cui ogni frammento di essa riportato alla luce va accolto con favore. Vale anche per la produzione teorica delle formazioni armate, genericamente definita “delirante”, oggi come trent’anni fa. Ci sembra quindi opportuna la riedizione integrale de L’ape e il comunista, forse il testo più ampio e articolato mai redatto dalle Brigate Rosse (o meglio, da una loro ala). Riportiamo l’introduzione, in cui chi ha curato la pubblicazione ne spiega le finalità.] (VE) L’ape e il comunista, pubblicato dalla rivista Corrispondenza Internazionale nel 1980, rappresenta il punto di approdo dell’analisi brigatista a nove anni dalla nascita dell’organizzazione. Scritto tra il 1979 e il 1980 dai militanti prigionieri reclusi nelle neonate carceri speciali in regime di articolo 90 (1), il testo appare come il tentativo di sintetizzare le conquiste teoriche e pratiche di un’organizzazione passata, in pochi anni, dagli incendi delle autovetture di qualche capetto inviso agli operai, al rapimento del presidente della Democrazia Cristiana. All’origine de L’ape e il comunista vi fu anche un confronto dialettico tra linee politiche divergenti, che contrapponevano alcuni prigionieri delle Brigate Rosse e alcuni militanti in clandestinità. Ma non è questo aspetto che a noi oggi interessa trattare. L’attualità dello scritto non risiede in quel confronto, che per le modalità e le contingenze in cui si espresse appare superato. Non sono quelle le sollecitazioni principali che, a nostro avviso, emergono dalla lettura delle pagine del libro. Quali sono, dunque, le ragioni della ristampa di questo libro, oggi? Prima di tutto si tratta di un’opera quasi introvabile. La sua pubblicazione su Corrispondenza Internazionale ebbe, come si può immaginare, una vasta diffusione, soprattutto nel circuito dei militanti politici. La prima edizione andò esaurita in poche settimane e fu seguita da una sola ristampa, rendendo il testo di difficile reperibilità, oscurato, oltre che dalla forza dei suoi contenuti, anche dalle vicende giudiziarie che seguirono la sua pubblicazione. L’intera redazione della rivista, infatti, venne arrestata poco dopo l’uscita del libro con l’accusa di favoreggiamento e banda armata. Il processo farsa per direttissima si concluse con l’assoluzione degli imputati. Una seconda ragione che rende ancora attuale questo testo sta nelle diverse esigenze che L’ape e il comunista riuscì a conciliare. Si tratta, infatti, di un lavoro collettivo capace di coniugare analisi teorica, esigenza didattica e iniziativa militante. In alcune parti può apparire datato e deve dunque essere letto nella sua contingenza. Per rigore storiografico, la nuova edizione andrebbe corredata dalle pubblicazioni della risoluzione strategica scritta dalle BR nel 1978 e dai comunicati dell’”azione Moro”, che, come dicevamo più sopra, esprimevano tesi parzialmente in contrasto con quelle del “documentone”, come venne anche chiamato dai suoi autori. Oggi noi ristampiamo L’ape nella sua versione originale, senza modificarne una sola parola o correggerne un solo refuso, proponendolo nella sua prima veste, nella speranza che possa stimolare una riflessione sull’eredità che ha lasciato: quella di un documento politico che appartiene alla storia del movimento rivoluzionario italiano. Esiste anche una terza ragione – forse più speculativa, ma non per questo meno importante – che ci spinge alla nuova edizione: restituire la parola direttamente ai militanti rivoluzionari e all’espressione del loro pensiero e della loro azione. Una scelta che riporta quell’esperienza alla sua concretezza e alla sua materialità, lontana dalle pastoie della dietrologia e della cosiddetta “memoria condivisa”, che generano confusione e appiattiscono ogni processo storico a una lettura univoca e grossolana della realtà. Un piccolo contributo, il nostro, affinché chi intenda oggi comprendere gli snodi storici e politici che caratterizzarono un’epoca pervasa da spinte rivoluzionarie, eppur così vicina a noi, possa farlo attingendo ai documenti originali e alla parola dei protagonisti di allora.
Molti sostengono che, in realtà, ne L’ape e il comunista di attuale vi sia ben poco. Non siamo d’accordo. Esistono senz’altro parti dello scritto che possono apparire datate, slegate dalla realtà che ci circonda. Trattandosi di un testo complesso e che risale a più di trent’anni fa, è inevitabile che la sua interpretazione si presti a opposte valutazioni. Vi saranno senz’altro lettori e militanti che reputano “superati” I dannati della terra (2), Fratelli di Soledad (3), o il Che fare di Lenin; ciò non toglie che la scomparsa di questi testi dalle biblioteche, in particolare da quelle dei militanti politici, rappresenta una prospettiva inaccettabile. La citazione di Vygotskij (4) che apre il primo capitolo del libro, non a caso intitolato Dall’inizio alla fine, spiega bene questo punto: “Ancora molti studiosi, al giorno d’oggi identificano la storia con il passato, per cui studiare qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel fatto del passato. Da qui deriva quella concezione ingenua che vede un’insormontabile separazione tra lo studio di forme storiche e lo studio di forme attuali. Invece, compiere lo studio storico di un determinato argomento, significa semplicemente applicare a esso la categoria dello sviluppo. Studiare storicamente alcunché significa studiarlo in movimento. È questa un’esigenza fondamentale del metodo dialettico. Soltanto cogliendo come oggetto di indagine il processo dello sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti i suoi mutamenti, dal momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua natura e rivelare che cosa è esso in sostanza, poiché soltanto nel suo movimento un corpo mostra che cosa è.” L’ape e il comunista non è un testo di semplice lettura. In esso si sviluppano, attraverso un filo logico ininterrotto, diversi temi: l’analisi marxista dell’economia politica e del sistema di produzione capitalistico (primi sette capitoli); la crisi, le sue forme e le risposte che la borghesia è in grado di opporle (capitoli ottavo e nono); l’analisi delle classi sociali e dello stato italiano (capitoli decimo e undicesimo); l’analisi dei due principali partiti politici dell’epoca, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, delle loro relazioni e delle reciproche funzioni. Infine, Le venti tesi finali, dove i prigionieri delle Brigate Rosse preconizzano la nascita del Partito Comunista Combattente e pongono la questione degli “Organismi di massa rivoluzionari”. Come vi sono passaggi del testo che appaiono superati e poco comprensibili se letti fuori dalla contingenza in cui vennero scritti, ve ne sono altri che mantengono inalterata la loro freschezza analitica soprattutto in relazione al dibattito che attraversa oggi la sinistra anticapitalista. Citiamo alcuni di questi passaggi come stimolo e introduzione alla lettura. A proposito delle teorie del crollo spontaneo del capitalismo: “La teoria marxista della crisi, nella misura in cui nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, disperde le nebbie delle concezioni che deducono il comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo e dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. […] Così, quando i soggettivisti sostengono che l’unica barriera del capitale è la lotta operaia, dimostrano solo di confondere la causa oggettiva della crisi con uno dei fattori che ne accelerano il corso.” (5) A proposito di certe teorie tanto in voga oggi e che spostano dalla sfera della produzione a quella della circolazione la contraddizione principale del sistema borghese: “Interpretare le crisi come crisi di sottoconsumo e individuare così la contraddizione principale non nella produzione, ma nella circolazione, implica pertanto la possibilità di compiere un errore gravissimo: ritenere eliminabili le crisi intervenendo sulla circolazione, cioè sul movimento del denaro; sarebbe sufficiente aumentare la massa monetaria in circolazione e il problema sarebbe facilmente risolto, lasciando inalterato il modo di produzione capitalistico.” (6) Sulla questione della precarizzazione del lavoro, gli autori, analizzando i contenuti del Piano Triennale presentato dal governo italiano nel 1979, anticipano di trentacinque anni la situazione nella quale ci troviamo oggi: “Si offre al proletariato di sostituire l’utilizzo parziale e illegale del lavoro nero, estendendo le condizioni di precarietà a tutto il mercato del lavoro, generalizzando questi rapporti di sfruttamento attraverso una forma di legittimazione garantita da un controllo concertato tra sindacati-imprenditori-governo.” (7) Sul destino dell’Italia gli autori furono profetici: “Se continueremo a rimanere l’anello debole della catena imperialista, saremo il teatro di scontri ferocissimi fra grandi gruppi, terra di conquista delle multinazionali straniere più forti, un cimitero di piccole-medie-grandi imprese spazzate via dalla concorrenza più agguerrita del mondo, una vera colonia dell’epoca attuale. […] Le lavorazioni a maggior valore aggiunto saranno concentrate in USA, RFT (Germania, ndr) e Giappone; a noi resterà solo lo spazio di fare concorrenza nel costo del lavoro ai paesi emergenti.” (8) Altrettanto profetici lo furono sul reale significato dell’integrazione europea: “L’operazione Europa è un progetto di ingegneria istituzionale e politica che risponde agli interessi economici esclusivi della borghesia imperialista e, in particolare, del suo segmento più forte, quello tedesco.” (9) A proposito della relazione tra lotta di classe e lotta rivoluzionaria: “Alla coscienza della dicotomia tra lavoro salariato-capitale corrisponde una coscienza tradeunionistica; alla coscienza della contraddizione borghesia-proletariato corrisponde la coscienza comunista. Ma quest’ultima non discende dalla semplice esperienza di fabbrica e di lotta economica, la si può conquistare solo attraverso il rapporto della classe operaia con le altre classi e strati, attraverso il rapporto-scontro con la borghesia e il suo Stato, solo attraverso la lotta politica rivoluzionaria.” (10) A proposito della funzione dello Stato: “Fuor di metafora, intendiamo dire che lo Stato, se da un lato opera in un rapporto di dipendenza sostanziale dal movimento del capitale, dall’altro maschera questa dipendenza finché gli è possibile, apparendo in superficie come formalmente indipendente. Questa simulazione, precisamente, è la condizione prima della sua funzione globale: quella di impedire la disintegrazione della formazione sociale minata dagli antagonismi di classe e, di conseguenza, garantire la riproduzione dei rapporti sociali e delle classi. […] Tocca ai media, principalmente, trasmettere linearmente e diffondere nei differenti containers e con gli opportuni adattamenti secondo i profili sociali di ciascuno, le ingiunzioni dello Stato: e su di essi riposa la buona riuscita di tutta l’operazione.” (11) Stimoli, ripetiamo, che suggeriamo solo per introdurre alla lettura del libro, attraverso i passaggi che ne anticipano meglio l’ampiezza teorica e argomentativa. Forse, però, ciò che più conta in questo testo, come nell’eredità delle tante esperienze rivoluzionarie degli anni Sessanta e Settanta, è la sua natura di classe: il superamento in esso della differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra chi si occupa della pratica e chi della sola teoria. Un prodotto collettivo, figlio del proletariato e delle lotte di quegli anni, con le sue vittorie e le sue sconfitte. Un libro che, come e forse più di ieri, continuerà a fare paura. (1) L’articolo 90, inserito nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n. 354 del 1975, consentiva al Ministro di Grazia e Giustizia di sospendere, temporaneamente, le regole previste dall’ordinamento penitenziario, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza. L’applicazione di questo articolo di legge sancì nei fatti la sospensione della Costituzione nelle carceri dove veniva applicato, abbandonando i detenuti alla totale mercé dei propri carcerieri. Oltre a un uso indiscriminato della tortura, l’art. 90 favorì la depersonalizzazione dei detenuti attraverso l’isolamento quasi totale, la sorveglianza 24 ore su 24, l’impossibilità di cucinare o di accedere alla socialità. (2) Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi 2007 (3) George Jackson, Fratelli di Soledad, Einaudi 1970 (4) Lev Semenovic Vygotskij, 1896-1934, fondatore della scuola storico-culturale sovietica e studioso presso l’Istituto di Psicologia di Mosca. (5) AA.VV., L’ape e il comunista, Cap. 6 (Teorie sulla crisi) (6) Ibidem, Cap. 8, par. 3.2 (Sulla crisi) (7) Ibidem, Cap. 8, par. 6.3 (Sulla crisi) (8) Ibidem, Cap. 9, par. 9 (Sulla struttura produttiva) (9) Ibidem, Cap 11, par. 27 (Sullo Stato) (10) Ibidem, Cap. 10, par. 7.1 (Sulle classi) (11) Ibidem, Cap. 11. Par. 8 (Sullo Stato) L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse, Pgreco edizioni, 2013, pp. 307, € 17,00.