lunedì 11 giugno 2012

Assediare i palazzi, non entrarci !

A difesa dell’art.18 la Fiom proclami sciopero generale!
Assediare i palazzi, non entrarci! di Sergio Bellavita, Segretario Nazionale FIOM - Sarà necessario aprire una riflessione profonda su quanto sta accadendo in questi ultimi mesi sul terreno sociale. Sarà necessario e impellente farlo per chi si pone il problema di verificare, fuori dalla retorica di piazza o mediatica, l’adeguatezza o meno della risposta che è in campo rispetto alla inaudita gravità dell'attacco che viene portato da padroni governo e dai loro complici. Dobbiamo purtroppo constatare che stiamo procedendo a passo spedito verso la sconfitta sociale più cocente dal dopoguerra ad oggi e senza nessuna vera resistenza organizzata.
Al di là dei tempi della dinamica parlamentare, da qui a poche settimane lo screditato e mai cosi poco amato parlamento italiano approverà la sostanziale cancellazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, rendendo praticamente libero il licenziamento per instaurare, grazie al drammatico combinato disposto con la crisi e i suoi effetti, la paura nelle fabbriche, negli uffici.
Prima della necessaria riflessione vorrei però si facesse di tutto per tentare di bloccare il Parlamento.
L’agenda dell'opposizione sociale è clamorosamente scarna di impegni. Sono programmati presidi davanti al parlamento venerdì 8, la Fiom sostiene iniziative il 13 e il 14.
Il 22 giugno il variegato mondo del sindacalismo di base ha proclamato sciopero ed è un fatto positivo sebbene non sia lo sciopero generale di cui abbiamo un disperato bisogno.
Oggi solo la Fiom, grazie allo straordinario consenso che in questi due anni si è accumulato, potrebbe rappresentare il perno su cui costruire un vasto fronte sociale. La proclamazione dello sciopero generale dei metalmeccanici avrebbe il pregio di aggregare tutte le soggettività resistenti. Produrrebbe nuove pressioni verso un gruppo dirigente Cgil appagato dalla finta modifica sull’art. 18.
Lo sciopero Fiom rimetterebbe al centro della discussione del paese l’art. 18, mentre oggi è del tutto evidente che in campo ci sono solo le pressioni di segno opposto, da Confindustria a settori politici. Lo sciopero Fiom potrebbe essere il volano per quella mobilitazione generale, prolungata che è resa necessaria dalla dimensione dello scontro.
Ma il segretario generale Landini ha detto no, prima in segreteria poi all’assemblea dei delegati Fiom, ad una nuova proclamazione di sciopero della sola Fiom dopo quello dello scorso 9 marzo. Capisco la necessità di chiedere conto ad una Cgil che proclama 16 ore di sciopero per non farle, ma se non lottiamo ora, prima che il parlamento cancelli l’art. 18, quando lo faremo? Se non ora quando? Dobbiamo proclamare sciopero generale e da subito organizzare il presidio permanente dei palazzi, evitando di interloquire, come nell'iniziativa di sabato 9, con partiti di governo come il PD, al cospetto del quale il moderato Hollande è un temibile sovversivo. I palazzi vanno presidiati, non bisogna entrarci.
Ci avviamo sempre più rapidamente verso la stagione politica più paradossale nella storia repubblicana dell'Italia. Il governo dei tecnici, per bocca del suo più alto rappresentante, il primo ministro Monti, ha perduto il consenso dei "poteri forti" e di Confindustria nonostante gli enormi servigi a questi forniti. Manco a dirlo, Monti cita le due riforme più dolorose in assoluto per la stragrande maggioranza dei lavoratori e dei pensionati, ovvero la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Sono questi i trofei che rivendica e che, sottolinea, nemmeno il governo precedente (benché, ricordiamo noi, ci avesse già messo non poco di suo...) era riuscito a fare. Monti non nasconde il suo essere di parte, anzi, di Classe. Lui appartiene e difende i padroni, i finanzieri e le banche. Lui appariene a Goldman Sachs e all'oligarchia mondiale del Gruppo Bildeberg. Da lui, e dai suoi ministri, si sa cosa c'è da aspettarsi. E allora, poveretto, perché non piace più ...? C'è da dire, intanto, che anche i tonti che non volevano credere alle parole delle solite "cassandre" come gli scriventi, e che magari hanno cantato persino "Bella Ciao" (!!!) nel giorno del suo insediamento, hanno dovuto prendere atto della propria dabbenaggine, (e tra questi molti docenti universitari, innamorati e forse rassicurati della comune appartenenza di casta) e denunciare il carattere antipopolare del "salvatore" Monti e depennarlo dalla lista dei loro "preferiti". Ma i tonti, si sa, si possono ingannare innumerevoli volte, e non mancheranno certo le occasioni a venire. Si pensi a Grillo ... Ad ogni modo, Monti ha preso atto del suo calo di popolarità e, soprattutto, che gli è ora negato anche il sostegno di Corsera, Confindustria, e dei "poteri forti". Ovvero, gli viene a mancare l'appoggio dei suoi soggetti di riferimento in loco. Ma chi lo sostiene, allora ...? C'è da domandarselo ...? Suvvia, la domanda è più che retorica. E' la risposta che invece è paradossale: il sostegno di Monti oggi si chiama PD e CGIL !!! Nel momento in cui si rende più che mai necessaria - e possibile! - la caduta del governo più antisociale di tutto il dopoguerra, il PD e la CGIL di Camusso sono il suo puntello più stabile. Un masochismo da harakiri! Non sprechiamo altri commenti e rimandiamo all'intervento di Sergio Bellavita, Segretario Nazionale FIOM, riprodotto qui di seguito. Riassume tutto ciò che anche noi condividiamo. Piuttosto, consigliamo una visita più attenta ai vari report pubblicati questa settimana sul blog, soprattutto a quelli relativi al terremoto ed ai ricatti che intorno a quella tragedia si stanno sviluppando ...
Fonte: PROLETARIA VOX Giugno 2012

domenica 10 giugno 2012

Piotr (Пётр): Arlechin servidor de do paroni

"Arlechin servidor de do paroni" di Piotr (Пётр)
1. «Davanti a Obama, lite tra Monti, Hollande e Merkel. Eurolandia si spacca sul rischio contagio a Madrid».
Questo un titolo in grande rilievo nella sezione di economia dell’edizione di Venerdì 1° giugno dell’organo italiano del Democratic Party americano, “La Repubblica”.Si riferiva ad una videoconferenza tra Monti, Merkel, Cameron, Hollande e il presidente statunitense.
Obama attacca subito spingendo con insistenza sull’ipotesi di Unione Bancaria europea e per l’intervento diretto del fondo salva-stati (l’EFSF che è sul punto di trasformarsi nel più potente Esm) nel salvataggio delle banche spagnole. Monti e Hollande appoggiano subito il pressing di Obama mentre la Merkel oppone un netto rifiuto: “La Germania è contraria ad un intervento diretto dell’EFSF; non vogliamo che il fondo con i soldi dei governi, spenda milioni in cambio di collaterali di banche già cotte”.
Sembra di sentire gli echi antinterventisti e moralistici della cosiddetta Scuola Austriaca.
Monti la scongiura di rifletterci sopra. In cambio l’Italia respingerà i tentativi di cambiamento dello statuto della BCE (cioè rinuncerà a chiedere che la BCE diventi prestatore di ultima istanza). Ma niente da fare: la partita è rimandata sotto gli auspici-minacce di Monti: “La Germania deve riflettere profondamente e rapidamente”.

2. Penso che il 90% della sinistra a questo punto non sia più in grado di capire cosa stia veramente succedendo (per non parlare della destra il cui più alto punto di riflessione ha sfornato la pseudo-teoria del “signoraggio” purtroppo sposata anche da alcuni settori della sinistra radicale).

Ma come? Non c’era forse la “dittatura della finanza”? Monti non era un servo della Merkel e del suo euro-marco? Hollande non era il simbolo del riscatto della sinistra per la crescita? La Germania non era solo un burattino subimperiale degli USA e l’euro una dependance del dollaro? Il capitalismo non è forse uno e trino?

Sulle pagine di Megachip, ad esempio qui, qui e qui, si è cercato di dimostrare che Monti gioca tenendo bene in mente gli interessi dominanti in Europa, Italia e Stati uniti, ma in fondo è un uomo di Obama. Sulle stesse pagine, ad esempio qui e recentemente qui, si è cercato di far capire che si è da tempo aperto un profondo contrasto tra – schematizzando – l’economia finanziarizzata anglosassone e l’economia materiale tedesca; un contrasto che ricorda quello degli anni Trenta. Se non ci sentono oggi in Occidente tamburi di guerra è perché la Germania è pre-occupata dal suo alleato d’oltreoceano. In molteplici occasioni si è cercato di argomentare che “dittatura della finanza” e “dittatura delle banche” sono titoli ad effetto che vanno bene per lo strillonaggio politico, ma non sono concetti cui affidarsi per capire cosa sta succedendo e mettere a punto una strategia, anche solo di resistenza.

L’alta finanza si allea con uno Stato predominante e questo Stato per rimanere predominante deve mantenere quell’alleanza. Alta finanza e Stato predominante sono come suocera e nuora: non c’è una se non c’è l’altra, anche se litigano perché la logica degli Stati e quella dell’alta finanza sono differenti e seguono obiettivi che tendono a divergere e devono essere periodicamente ricondotti ad un compromesso comune.

Se non si capisce questo non si capisce la storia mondiale per lo meno dal Rinascimento ad oggi. E si finisce nella confusione da commedia dell’arte: ma come, la serva Germania osa rispondere male al suo padrone a stelle e strisce e l’Italia, serva della Germania, prende le parti del padrone della sua padrona, per giunta in combutta con la sempre intrigante Francia? Ma come, il socialista parakeynesiano Hollande difende le banche sacrificando la crescita e la monetarista liberista Merkel difende le fabbriche tedesche contro le banche mentre il suo ministro delle Finanze dichiara addirittura di sostenere le richieste sindacali nell’industria privata e di voler alzare motu proprio del 6% gli stipendi dei dipendenti pubblici? Ma qui non ci si capisce più nulla! Cos’è questo mondo alla rovescia?

Beh, ovviamente basta partire con la mappa sbagliata per perdersi facilmente. E la sinistra lo fa con metodo: anche quando ha la cartina giusta la tiene in mano all’incontrario.


3. Chi vincerà? Possiamo solo avanzare delle ipotesi. La Germania ha dalla sua solo la potenza economica. Ma come, si dirà, la potenza economica è tutto ciò che conta nel capitalismo! Ecco la mappa tenuta in mano al contrario, ad onta di Marx che avvertiva che dietro ogni fenomeno economico c’è in realtà un fenomeno sociale, ci sono rapporti sociali.

La potenza economica se non si allaccia a quella politica, militare, diplomatica e culturale è inservibile, anzi addirittura serve ad altri. Gli esempi non si contano. Alla fine del 1700 la ricchissima India fu conquistata dall’Inghilterra che era una pulce economica al suo confronto. Attorno alla metà del 1800 la straricca Cina fu soggiogata sempre dalla pulce inglese. I Cinesi abituati al commercio, al calcolo economico e ai problemi di politica interna (un po’ come i nostri economicisti), nemmeno pensavano che fosse possibile che agli Inglesi potesse venire in mente un’idea così bislacca e furono colti del tutto impreparati allo scontro.

Dal canto loro il potentissimo Impero Britannico fu sconfitto dal trentennale scontro militare con la Germania – che gli Inglesi nominalmente vinsero – e dall’alleanza militare con gli USA che gli permise quella vittoria.

Non solo, questi ultimi entrarono nella II Guerra Mondiale che ancora si leccavano le ferite della crisi del ’29 (il PIL non era nemmeno ritornato ai livelli pre-crisi) ma dopo quattro anni di carneficina disegnavano le sorti economiche, finanziarie, politiche e militari del mondo del dopoguerra, a Bretton Woods.

Oggi gli USA sono uno dei Paesi messi economicamente peggio: deficit pubblico fuori controllo e deficit commerciale fuori di testa, dove questi due “fuori” sono dei fuori economicistici, ma hanno una precisa valenza politica. La potenza economica sta in Germania, in Cina, nei BRICS. Ma l’alta finanza non sta né a Francoforte né a Shanghai. Risiede a New York, a poche ore di auto da Washington, sede decisionale dell’ancora ineguagliata superpotenza militare, politica e diplomatica degli Stati Uniti d’America. Sono queste le leve competitive degli USA. E le utilizzeranno. In che modo? Anche in questo caso possiamo solo fare delle ipotesi. 4. Innanzitutto con pressioni dirette di ogni tipo sulla Germania coadiuvate dal lavoro ai fianchi di Francia, Italia e Gran Bretagna (e di Paesi della stessa “area d’influenza tedesca”) e tagliando i retroterra alternativi geopolitici e commerciali dell’Europa, impedendole che essa, e in primo luogo la Germania, sposti i suoi interessi economici e politici verso Est.

Questo gli USA lo hanno già iniziato a fare destabilizzando la costa meridionale del Mediterraneo. Con ciò hanno reso difficoltosa sia un’ipotesi di Ostpolitik tedesca sia un’ipotesi di defezione di un’Europa del Sud da una Europa del Nord (se non eventualmente sotto l’egida statunitense), obbligando quindi l’Europa a rimanere unita e in preda alle proprie contraddizioni interne, che i popoli europei pagano salatamene ma che sono sul gobbo della Germania e della sua politica miope di potenza economica solitaria.

La Germania sa benissimo che sul fronte Siria-Iran si giocano gran parte delle sue possibilità di nuova Ostpolitik, e quindi di sganciamento economico dall’Europa del Sud e dagli USA. Ma lo sanno anche gli USA e cercheranno di impedirglielo. La Merkel avendo capito il gioco aveva cercato di boicottarlo, dissociandosi lo scorso anno dall’aggressione alla Libia. Oggi però ripete che sarebbe disposta ad aggredire la Siria. Lo dice soltanto per non entrare in contrasto con gli USA su tutta la linea o perché sta prendendo atto che l’aggressività destabilizzante statunitense in Nord Africa e in Medio Oriente sta pagando e fa buon viso a cattivo gioco? Lo fa perché ha paura o lo fa perché sta ottenendo in cambio qualcosa che ancora non conosciamo? Fatto sta che è stata in prima fila nell’assedio diplomatico antiucraino che ha fatto leva sul caso Julija Tymošenko. In altre parole sembra che sul lato militare e diplomatico gli USA stiano segnando dei punti nel cuore dell’Europa.

Hollande, per non venir meno alla tradizione guerrafondaia filoatlantica inaugurata dal marito di Carla Bruni, ha già fatto sapere che se richiesto sarà il primo a bombardare la Siria. Il socialista Hollande è organicamente (economia e politica estera) nel campo statunitense. La liberista Merkel lo è disorganicamente. Attenzione a questa inversione, perché gli imbonitori politici europei, e quelli italiani per primi e con più sfacciataggine, la utilizzeranno per mascherare di progressismo (antiliberismo, neokeynesismo, ecologismo, eccetera) la scelta di campo a favore degli USA.

Come abbiamo avuto più volte modo di ripetere, la politica estera degli attori in campo chiarirà molte cose. Ci dirà chi sta vincendo tra finanziarizzazione a guida anglosassone ed “economia reale” tedesca, più precisamente e forse prima di quanto ci dirà la querelle sugli eurobond.

Io, se fossi la Segretaria di Stato, darei ordine ai tagliagole ai miei ordini in Siria di fare in modo che il piano Annan salti al più presto. Senza più lo schermo dell’ONU rimetterei quindi all’ordine del giorno l’attacco militare alla Siria, a quel punto con o senza il benestare del Consiglio di Sicurezza. Metterei così in difficoltà Cina e Russia, obiettivo primario, e contemporaneamente ricompatterei l’Europa sotto la politica economica e geostrategica degli USA, obiettivo complementare necessario. Come si è fatto altre volte, ad esempio con l’Iraq, semplicemente facendo l’appello degli alleati. Così obbligherei anche la Germania a prendere posizione proprio mentre è al centro del fuoco incrociato di tutti i grandi Pesi europei e degli USA stessi, costringendola a capitolare su tutti i fronti.


5. La “riscossa” della sinistra in Francia già mostra la sua natura: l’austerità non è in discussione, il keynesismo bancario non è in discussione; gli investimenti per la crescita, le deroghe al fiscal compact e quelle a Maastricht vengono invece subordinate all’accettazione tedesca del keynesismo bancario. D’altra parte, per “crescita” si intende sostanzialmente qualche mega intervento sulle infrastrutture e qualche micro intervento sull’impatto ecologico, oltre all’aiuto al settore delle armi e a quello energetico, vuoi per difenderli vuoi per acquisirli (nel caso patologico dell’Italia invece si svenderanno a spezzatino). Non ci sarà nessun rilancio dell’espansione materiale adeguato al mantenimento del benessere materiale raggiunto nei secoli passati dalle società capitalistiche storiche. E’ quindi “naturale” che questi interventi – che avranno in gran parte un carattere politico – siano considerati secondari rispetto al salvataggio delle banche (chi denuncia il ritrarsi dello Stato dall’economia e perora un suo nuovo interventismo, deve essere molto più preciso, perché a memoria capitalistica gli Stati non sono mai intervenuti così pesantemente come nell’epoca del cosiddetto “pensiero unico neoliberista”, quando trilioni di dollari e centinaia di miliardi di euro sono serviti a salvare le banche).

Al convegno della SPD alla fine dello scorso anno, l’anziano Helmut Schmidt ha fatto un nobile discorso. Con esso ha cercato di far capire alla propria nazione che il suo interesse di medio e lungo periodo è quello di ritornare ad una vocazione europeista, ovvero di anteporre agli immediati interessi tedeschi quelli strategici europei. Il sostrato materialistico del nobile intervento è stato analizzato qui. Non ho nulla da aggiungere a quell’analisi, ad esempio non penso che sia necessario insinuare secondi fini filoamericani diretti. Il problema è che ogni discorso, per quanto nobile possa essere, deve incunearsi in un contesto reale complesso e conflittuale. E deve essere cosciente sia di questa complessità sia della conflittualità che la permea e che deve saper sfruttare altrimenti saranno i nobili intenti ad essere sfruttati. Se non si entra in quest’ottica si pecca d’ingenuità, che è un errore e quindi è peggio di un crimine perché non permette di cogliere le contraddizioni nel fronte avversario. Quelle ad esempio che le recenti “riscosse” di sinistra in Francia e in Germania segnalano e che esse stesse aprono.

L’ingenuità degli intellettuali di sinistra e dei loro seguaci in estasi per la “riscossa” francese e per quella preannunciata dal Länder tedeschi, ricorda invece da vicino una barzelletta scollacciata, che spero venga perdonata. È quella della cosiddetta “masturbazione cinese”: darsi tanti colpi di martello sui testicoli, così che quando si sbaglia il colpo si gode come dei pazzi.

In realtà fenomeni come quelli della succitata “riscossa” sono colpi andati a finire sull’altro testicolo, quello ormai divenuto insensibile per via del trattamento. Ci si continua a far del male ma stavolta godendo come pazzi.
Fonte: http://www.sinistrainrete.info/geopolitica/2120-piotr--arlechin-servidor-de-do-paroni.html

Assassini "democratici"

"Gli assassini della Casa Bianca" di Michele Paris
Un agghiacciante articolo apparso settimana scorsa sul New York Times ha descritto esaustivamente le modalità con cui la Casa Bianca autorizza l’assassinio mirato di presunti terroristi islamici in paesi come Pakistan, Yemen e Somalia. Il lungo resoconto del quotidiano americano fa luce su un programma palesemente illegale e condotto nella quasi totale segretezza, nel quale il presidente Obama si assume l’intera responsabilità di decidere della vita e della morte di individui che quasi mai rappresentano una reale minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.
Con cadenza settimanale, un centinaio di membri dell’apparato anti-terrorismo americano si riuniscono in videoconferenza per valutare le biografie di sospettati di terrorismo che vengono poi raccomandati al presidente per entrare in una apposita “kill list”. Questo processo segreto di “nomination”, scrive macabramente il Times, si risolve nella decisione finale di Obama, il quale stabilisce personalmente chi debba essere assassinato con un’incursione dei droni impiegati oltreoceano. Secondo le parole del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, il presidente “è determinato nello stabilire fin dove debbano arrivare queste operazioni”, cioè in sostanza si attribuisce il potere di uccidere chiunque sia sospettato di far parte di organizzazioni terroristiche e si trovi sul territorio di paesi sovrani non in guerra con gli USA, senza passare attraverso un procedimento legale. Nelle sue decisioni, Obama è costantemente assistito dal capo dei consiglieri per l’anti-terrorismo, John Brennan, veterano della CIA profondamente implicato nelle torture dei detenuti durante l’amministrazione Bush.

I reporter del Times, Jo Becker e Scott Shane, hanno potuto contare su decine di interviste con esponenti del governo americano, alcuni dei quali descrivono quella che appare come un’evoluzione senza precedenti nella condotta di un presidente che, già docente di diritto costituzionale, è passato dalle promesse di chiudere Guantanamo e di porre fine agli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati del suo predecessore all’approvazione senza battere ciglio di operazioni letali.

In seguito ad un bombardamento sferrato all’inizio del 2009 dai droni in Pakistan, che fece un elevato numero di vittime civili, la Casa Bianca emise una direttiva per chiedere maggiore precisione ai vertici della CIA. In realtà, il programma non sembra essere cambiato in maniera significativa. L’amministrazione Obama si è semplicemente limitata ad adottare un diverso metodo nel conteggio dei morti causati dai droni, considerando tutti i maschi adulti assassinati come “nemici in armi”, a meno che non emergano prove della loro innocenza, ovviamente dopo il loro decesso.

Secondo la logica dell’antiterrorismo USA, d’altra parte, tutte le persone che si trovano in un’area conosciuta per le attività terroristiche, o dove sono stati individuati operativi di Al-Qaeda, sono esse stesse militanti che meritano di essere eliminati sommariamente.

Una delle operazioni che secondo il Times ha maggiormente diviso l’amministrazione Obama è stata quella che ha portato all’uccisione di Baitullah Mehsud, leader dei Talebani del Pakistan le cui attività non rappresentavano una minaccia imminente per Washington, dal momento che erano rivolte in gran parte al governo di Islamabad. Obama, dietro insistenza delle autorità pakistane che volevano Mehsud morto, prese la decisione di eliminarlo poiché era una minaccia per il personale americano in Pakistan.

Inoltre, quando nell’agosto 2009 l’allora direttore della CIA, l’attuale Segretario alla Difesa Leon Panetta, informò Obama che il bersaglio era in vista, avvertì che un attacco avrebbe causato danni collaterali significativi, dal momento che Mehsud si trovava presso un’abitazione assieme alla moglie e ad alcuni familiari. Senza alcuno scrupolo, il presidente diede l’ordine di colpire, causando la morte dei civili innocenti presenti sul posto.

A dare un impulso decisivo al programma dei droni in Yemen fu poi il fallito attentato del giorno di Natale del 2009, quando un giovane nigeriano addestrato nel paese della penisola arabica cercò di fare esplodere un aereo diretto all’aeroporto di Detroit. La stagione delle stragi in Yemen sotto la direzione di Obama era peraltro già iniziata poco prima. Il 17 dicembre 2009, infatti, un’incursione aerea uccise, assieme al bersaglio stabilito, anche due intere famiglie del tutto innocenti, mentre le “cluster bombs” rimaste sul terreno fecero poco più tardi ulteriori vittime civili, provocando le violente proteste della popolazione locale.

Il nuovo giro di vite che la Casa Bianca avrebbe deciso dopo questi fatti non portò ad una maggiore cautela nell’uso dei droni, tanto che oggi il Pentagono può condurre attacchi in Yemen contro sospettati di cui non conosce nemmeno il nome. I presunti “principi” a cui si ispirerebbe Obama nell’autorizzare gli assassini mirati, per il Times sono stati messi alla prova nella vicenda di Anwar al-Awlaki, il predicatore estremista con cittadinanza americana trasferitosi in Yemen. Secondo gli americani, Awlaki era coinvolto non solo nel già ricordato attentato del Natale 2009, ma anche nella sparatoria di Fort Hood del mese precedente, nella quale un maggiore dell’esercito USA uccise 13 persone.

Di fronte all’eventualità di uccidere un cittadino statunitense in un paese sovrano con un procedimento segreto e senza processo spinse Obama a chiedere il parere dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia. Quest’ultimo, calpestando il dettato del Quinto Emendamento della Costituzione, stabilì in maniera sconcertante che la garanzia di un giusto processo per Awlaki poteva essere assicurata da una semplice deliberazione interna di un organo dell’esecutivo. Con questa copertura pseudo-legale, scrive il Times, il presidente democratico sostenne che il via libera all’assassinio di un sospetto con passaporto americano diventò “una decisione semplice”.

Lo scopo dell’articolo non è in ogni caso quello di smascherare uno degli aspetti più oscuri del governo degli Stati Uniti, ma sembra piuttosto essere stato realizzato con la collaborazione stessa dell’amministrazione Obama per propagandare un’immagine forte del presidente sulle questioni della sicurezza nazionale, prevenendo gli attacchi da destra dei repubblicani in campagna elettorale.

Il ritratto di Obama che ne esce è comunque quello di un presidente che appare perfettamente in sintonia con l’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, le cui politiche criminali intende portare avanti senza scrupoli o esitazioni. Tutto ciò nonostante la sua elezione nel 2008 sia stata dovuta in gran parte alla repulsione diffusa nel paese per gli abusi commessi sotto l’amministrazione Bush. Significativo nel delineare la personalità di Obama, a cui, va ricordato, nel 2009 è stato assegnato il Nobel per la Pace, è il commento del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, che lo definisce perfettamente “a suo agio con l’uso della forza”.

Ancora più allarmante è però lo scenario politico americano che il Times contribuisce a descrivere. Dopo oltre un decennio di “guerra al terrore”, ogni organo dello stato dimostra un progressivo disinteresse, se non aperto disprezzo, per i più elementari diritti democratici.

L’autorità autoassegnatasi da Obama di decidere gli assassini mirati condotti dalla CIA e dal Pentagono sancisce infatti la legittimità di un programma criminale senza precedenti per un paese civile, con profonde e inquietanti implicazioni per gli Stati Uniti e non solo.

Una deriva quella raccontata dal New York Times che risulta ancora più preoccupante alla luce del sostanziale silenzio non solo dell’intera classe politica ma anche di intellettuali e commentatori liberal, da tempo ormai quasi interamente allineati alla causa dell’anti-terrorismo, così come della “guerra umanitaria”, e disposti ad accettare qualsiasi eccesso per assicurare la permanenza alla Casa Bianca di un presidente democratico.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/estero/2119-michele-paris-gli-assassini-della-casa-bianca.html

L'avanzata cinese, gli scenari di guerra e l'uscita politica dalla crisi

Stefano Galieni intervista Bruno Amoroso - Con questa lunga intervista, il professor Bruno Amoroso, a suo tempo allievo di Federico Caffè, definisce gli aspetti di storia economica e di mutamenti geopolitici che hanno attraversato il pianeta negli ultimi cinquanta anni. Un testo ricco di spunti e di riflessioni che potrebbero innescare un interessante dibattito fra chi vuole guardare alla crisi attuale con una prospettiva di ampio respiro. Il professor Bruno Amoroso è uno dei pochi intellettuali italiani che guarda alla crisi economica con lo sguardo ampio di chi è abituato ad osservare la complessità del pianeta. Sono passati tanti anni da quando preconizzava uno scontro politico ed economico fra le potenze tradizionali e quelle emergenti, uno scontro che potrebbe anche tradursi in conflitto militare. «Per spiegarmi debbo partire da alcune riflessioni attorno alla crisi. Stanno cambiando velocemente i rapporti fra i diversi sistemi economici che ridefiniscono anche la geopolitica del mondo. Nasceranno nuovi equilibri e si tratta insomma di capire quello che sarà il futuro. Tutto parte dal riconoscimento alla fine degli anni Sessanta, di quelli che sarebbero stati i limiti dello sviluppo conseguenti alla scarsità di risorse. Nasceva consapevolezza e molti fra tecnici e scienziati, non solo marxisti, cominciavano a pensare al futuro dell’umanità. Il sistema capitalistico funzionava basandosi sul profitto, un profitto che avrebbe creato nuova occupazione e maggiore produzione. Si legittimava l’espansione a livello globale. Questa capacità espansiva veniva messa a confronto con i livelli di consumo pro capite a livello energetico. Si definivano gli scenari di una serie di conflitti per l’accesso alle risorse».


Un dibattito attuale ancora oggi?

«Si, sui limiti dello sviluppo. La direzione delle nostre riflessioni era rivolta a come ripensare il modello, come uscire dal capitalismo, come garantire il benessere tenendo conto delle risorse. Si è cominciato a parlare di ambiente e di qualità della vita. Era un occasione storica per l’occidente. . Se avesse fatto una critica dei propri sistemi produttivi si poteva pensare una alternativa. Il dibattito si arenò e si scelse un'altra: quella di bloccare lo sviluppo degli altri. La popolazione mondiale, all’epoca di 4 miliardi, era in crescita e ha vinto quel meccanismo, che nasce negli anni Settanta e che chiamiamo globalizzazione. Si è arrestata anche l’espansione in Occidente, erodendo via via lo stato di benessere, diminuendo la diffusione del consumo di massa e limitandolo a gruppi ristretti della popolazione. Dagli anni Ottanta ci si chiude agli altri continenti, Africa, Asia e America Latina. Si crea quello che con un libro ho definito “Apartheid globale” e si seguita a controllare gli altri popoli utilizzando gli apparati militari. Si comincia ad utilizzare la loro mano d’opra a costo più basso diminuendo quantitativamente la classe operaia autoctona. Ma gli altri popoli se ne accorgono e reagiscono. Iniziano quelle che noi chiamiamo rivolte islamiche nel mondo arabo e soprattutto inizia a correre l’Asia, soprattutto la Cina. La Cina in 15 anni ha fatto quello che l’occidente ha realizzato in un secolo e mezzo».


Si apre una fase di conflitti in concomitanza con il crollo del blocco sovietico.

«Si il primo problema diviene quello di bloccare gli altri che cominciano a crescere. Dagli anni Settanta in poi si cominciano a dare botte a chi tenta di rialzarsi per conto proprio. Si gettano le basi per frantumare la Yugoslavia e poi via via si prende di mira l’Irak, e ci si confronta con le prime rivolte arabe per il controllo delle risorse. Si sfascia il medio oriente attraverso un nuovo tentativo di colonizzazione ancora in atto, trasformando rivolte sociali in guerre di religione. Ora toccherà all’Iran. Ma con l’Asia la situazione è diversa. Rendiamoci conto che da qui a dieci anni o la Cina viene fermata o si fa una seria autocritica e si partecipa al progresso economico e sociale dell’Asia. Ma si tratta di una autocritica di cui ancora non c’è traccia, si continua a guardare a certi Paesi come se fossero ancora sospesi fra barbarie e medioevo. Un errore anche della sinistra. Eppure noi siamo rimasti come europei, quattro gatti spelacchiati, potremmo divenire una struttura di servizio per quei popoli e invece si imbocca la strada che porta ad un conflitto. La Cina chiederà presto di assumere il ruolo istituzionale che oggi è degli Usa. Se continuiamo a dire che il nostro modo di vita non è negoziabile, se pensiamo ad una riforma delle istituzioni internazionali garantendo a certi paesi il solo ruolo di osservatori, significa che non abbiamo capito nulla. Significa che vogliamo riformare le istituzioni secondo il nostro modo di vedere le cose. Oggi il ruolo di Cina o Russia è quello di bloccare i nostri piani di colonizzazione. Se noi non ripensiamo il ruolo dell’occidente non ne usciamo. Le guerre in medio oriente sono in realtà rivolte alla Cina, per impedire la sua espansione. Siamo riusciti a trasformare il conflitto con l’islam in uno scontro fra sciiti e sunniti per fare in modo che la guerra contro l’Iran la combattano paesi come l’Arabia Saudita, alcuni emirati come il Qatar ecc… E in Italia tutto questo passa sotto silenzio. Qualche mese fa è uscito un piccolo articolo su un quotidiano, rispetto al fatto che la base americana di Sigonella sarebbe stata abbandonata. Da anni pensavamo di farla divenire una università euro mediterranea. Invece pochi giorni fa, in perfetto silenzio, Monti ha concluso un accordo con la Nato per farla divenire una base per droni, gli aerei utilizzati per omicidi mirati. Si vuole stabilire il controllo Nato su tutto il Medio Oriente da estendere fino alla Cina e non si può far finta di non sapere. Così si espone il Paese ad un rischio, a ritorsioni. Risultiamo solidali e complici in un piano imperiale che sta andando a rotoli da solo».


E perché accade questo?

«Ignoranza. Manca una analisi di quello che avviene in Asia, pensiamo ancora il mondo come una fotocopia dell’occidente e classifichiamo alcuni Paesi come governati dal capitalismo selvaggio e da dittature. Eppure dimentichiamo che sono gli Stati europei ad aver inventato le dittature, Hitler ha agito in Europa non in Cina. Invece forse accade qualcosa di diverso che dobbiamo comprendere. Lo stesso ragionamento vale per le “primavere arabe”. Si tratta di rivolte sostenute dall’islam e per noi sono inconcepibili rivolte etico religiose, non sappiamo leggerle, rischiamo di sostenere nuovi paesi che costituiranno un muro di cemento. Comunque si tratta di forze che determineranno un nuovo equilibrio mondiale. Noi siamo ancora presi dal discorso sull’euro, nel frattempo Cina e Giappone hanno stretto un accordo per togliere di mezzo il dollaro negli scambi asiatici fra le maggiori potenze. Anche il marxismo non ha compreso questi cambiamenti. Pensavamo di restare egemoni grazie alle tecnologie ma ora queste le hanno anche gli altri paesi. Neanche i droni saranno sufficienti a fermare la Cina. Sei mesi fa hanno deciso un piano di sviluppo per l’aeronautica che riguarderà certamente anche investimenti in campo militare. Nella costruzioni di nuove armi non c’è limite alla follia umana. La loro industria entrerà in concorrenza con quella statunitense e verranno realizzati strumenti offensivi terribili entro pochi anni. Anche la nostra sinistra continua a ragionare solo di diritti, a fare il tifo per chi teoricamente li rispetta di più e non ragioniamo su come cambiare le nostre istituzioni». Uno scenario inquietante - «In realtà non è la prima volta che i rapporti mondiali si modificano. È ovvio che i rapporti monetari, cambiano con i rapporti internazionali fra gli stati. Pensiamo a quando dollaro e oro erano legati, Tutti organizzavano il proprio sistema a partire da questo. Nixon, se ricordo bene, decise lo sganciamento dall’oro e ci fu un periodo in cui si ricontrattarono i rapporti di cambio. Quando iniziò la formazione del sistema monetario europeo e poi del Serpente monetario, le cose cambiarono ancora. L’euro ha funzionato per 10 anni, ora purtroppo la Germania è divenuta troppo potente e bisogna riorganizzare i sistemi monetari come si è fatto nel secondo dopo guerra. Non si può restare insieme per difendere posizioni di privilegio. Questo vale anche per i rapporti internazionali, dobbiamo ridefinire radicalmente le istituzioni. Un altro esempio per capire come non si tratti di nulla di inedito: guardiamo la sterlina. Un tempo era moneta internazionale, con l’impero, ora non è più dominante ed è stata sostituita negli scambi dal dollaro. Capiterà anche al dollaro e semplicemente le persone non ne prenderanno più per gestire gli scambi. Non sarà la fine del mondo, si tratta di passaggi storici che andrebbero seguiti con giustizia, come dovremmo dire da sinistra».

Una sinistra che pare in forte ritardo

«Si, spaventoso. Soprattutto rispetto alla conoscenza dei paesi asiatici. Quando nacque il marxismo, il mondo occidentale, che comandava, pensava a quei popoli come barbari. Lo si pensava in Inghilterra e ne era convinto anche Marx. Non si poteva neanche immaginare che l’egemonia occidentale potesse essere messa in discussione. Oggi dovremmo cominciare a parlare di sistema pluralistico e multipolare in cui ogni paese deve avere pari dignità in base alle proprie dinamiche. Invece seguitiamo ad essere eurocentrici. Veltroni e Obama vanno a braccetto. Sul piano culturale e teorico questo è terribile. Alla sinistra istituzionale va bene così e si tratta di un modello mentale che vede lo sviluppo capitalista come parte fondante della cultura occidentale. E invece in altri paesi le cose funzionano in modo diverso, noi utilizziamo indicatori che in altri contesti non significano nulla e viceversa. Si tratta poi di criteri ipocriti che ad esempio non siamo in grado di applicare in Italia e pretendiamo di vedere applicati a Cuba».

Ce ne accorgiamo nel modo con cui sono accolti i migranti

«Non possediamo il concetto di intercultura. La nostra logica si basa sul miserabilismo e sull’integrazione. Ovvero sul fatto che chi arriva a lavorare qui faccia propri in toto quelli che definiamo nostri principi. Ma noi non siamo in grado di comprendere neanche la cultura statunitense. Ci accontentiamo di riconoscerci in quello che è scritto nella loro costituzione, così vicino ai dettami europei eppure lì c’è la pena di morte, esempi assurdi di comunitarismo anche di stampo religioso, modalità particolari per determinare i processi elettorali. Un substrato che dovremmo conoscere e invece ci chiudiamo e perdiamo».

Lo stesso concetto di Europa andrebbe rivisto?

«Il continente europeo è composto da entità diverse. Altiero Spinelli europeista ma comunista ( anche se questo è stato dimenticato) insieme ad altre menti forti confinate a Ventotene, ragionava su come fare ad uscire dalle guerre, a come costruire una società di pace, come trasformare la competizione in cooperazione fra popoli diversi che dovevano imparare a convivere, senza annullare gli Stati nazionali. Ma dopo 5 anni dalla fine del conflitto è iniziata la Guerra Fredda. In funzione di questa è stata riarmata l’economia tedesca e finanziata la sua ricostruzione. L’Europa si è militarizzata, è ridiventata competitiva, l’Occidente si è imposto come superiore. C’era un piano preciso, Berlino doveva diventare, in quanto divisa, una città splendida per dimostrare come il nostro modello fosse migliore di quello sovietico. Si è creata una Europa asimmetrica di cui hanno beneficiato soprattutto la Germania e i paesi del confine orientale. Si pensi a come le politiche agricole si siano trasferite da sud a nord. Il mercato unico ha garantito investimenti all’asse tedesco olandese per realizzare un Europa anti Urss. Col crollo del muro si è cementata questa condizione di squilibrio. La Germania si è riunificata e in Germania si sono costruite le istituzioni che contano ei centri di eccellenza, anche se oggi si fa finta che nulla sia successo».

E si arriva all’euro

«Ma dobbiamo ricordarci che l’euro non è la moneta europea. È una delle 11 monete in circolazione. Una situazione simile a quella che c’era con il serpente monetario dove i rapporti di cambio erano basati prima sul dollaro e poi sul marco tedesco. Ma si trattava quasi di un accorgimento tecnico. Oggi i 10 paesi che stanno fuori dalla “zona euro” stanno messi benino perché hanno rapporti di cambio fissi o flessibili ma mantengono una propria sovranità monetaria, decidono dei propri bilanci e delle proprie priorità di spesa e di investimento. Chi è dentro l’euro non può più decidere, siamo incardinati in parametri inaccettabili. Keynes oggi proporrebbe di tornare al serpente monetario e di ricontrattare i rapporti monetari chiederebbe di realizzare un fondo di solidarietà con cui i paesi ricchi possano sostenere i più poveri, come accadde dopo la seconda guerra mondiale. La mia teoria è un'altra, io non penso di tornare alle monete nazionali: i 17 paesi che utilizzano l’euro sono divisi fra una zona forte, concentrata in Germania e una diversa e indebolita che corrisponde al sud ma in parte comprende anche la Francia. Restiamo dentro l’euro ma ridiscutiamo per definire due aree due diversi euro con un rapporto di cambio che favorisca paesi più deboli e istituisca un fondo di solidarietà. La formula giusta sarebbe quella keyenesiana ma dobbiamo dirci una cosa. I borghesi non è che non capiscono e li si può convincere della fondatezza delle nostre opinioni. Fanno semplicemente un lavoro diverso, difendono i propri interessi . Io non penso ad un euro forte e a uno debole ma a due aree produttive diverse. Da economista dico che teoricamente si può fare, certo che ci sono aspetti politici che non analizziamo perché siamo presi dalla retorica dei diritti. Le leggi non modificano gli assetti produttivi, noi dobbiamo arrivare a ricontrattare su posizioni di forza e non ridurci, ogni singolo paese, a cercare di ottenere favori dalla Germania».


In quale maniera e con quali soggetti in campo?

«Se la si smettesse di condannare la Grecia, se i paesi del Sud Europa e i movimenti sociali che li attraversano si unissero attorno alla Grecia in un fronte comune potrebbero tutti insieme andare a dire due cose alla Merkel, parlando di mercato unico e di coesione sociale. Dovremmo dire: “cari amici ricontrattiamo rapporti di cambio e lasciateci la nostra sovranità ed in cambio lasciamo aperto il mercato unico e garantiamo la coesione sociale. Altrimenti chiudiamo il mercato unico”. La Germania sarebbe costretta a trattare, sarebbero messe a rischio le sue possibilità di esportazione. Finora ci si è arenati nel rapporto fra singoli Stati che hanno perso e perdono sempre più sovranità. Ci sarà comunque un crollo dell’euro: o escono i paesi deboli o la Germania. Bisogna noi avanzare una proposta politica per il blocco sociale sud europeo. Su questo la nostra sinistra ancora discute su come mettersi in relazione con i movimenti di protesta. Monti è appoggiato dal Pd perché ha contrattato con la Merkel, ma non può rinegoziare nulla da solo. In questo senso il contesto è cambiato. Negli anni del boom se non c’era il rischio del comunismo non ci sarebbe stato il welfare, oggi occorre ancora costruire un blocco sociale capace di confrontarsi per ridare sovranità politica ai popoli in cambio di una apertura condizionata dei mercati. In Grecia e in Spagna ci sono movimenti molto estesi, solo l’Italia non si muove. C’è stata la grande intuizione di occupare la piazza della Banca d’Italia ma poi le nostre sinistre che non avevano capito, hanno portato le proprie bandiere e hanno tentato di dirottare la protesta contro Berlusconi e la Gelmini e i ragazzi che erano in piazza da una settimana si sono giustamente incazzati La sinistra deve imparare ad offrire sponda a questi movimenti e non pensare solo a difendere i propri percorsi. Possiamo anche vincere dieci referendum ma poi non cambia nulla invece dobbiamo attrezzarci per sfondare, insieme, un grande muro».
Fonte: http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/2118-bruno-amoroso-lavanzata-cinese-gli-scenari-di-guerra-e-luscita-politica-dalla-crisi.html

Coscienza illusoria di sè

"Coscienza illusoria di sè"* di Elisabetta Teghil
Uno dei nodi del nostro impegno come femministe è lo scardinamento dei ruoli. Lottare solo contro l’ideologia, la mentalità, la cultura patriarcale senza mettere in discussione i meccanismi che la producono, è insufficiente se non fuorviante. Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali. Disoccupazione, inquinamento, controllo, lavoro sempre più monotono ,noioso, sempre più disumano…….. qualsiasi condizione, situazione, fisica, mentale, affettiva….. trasformata in occasione di profitto, è qui il carattere propriamente tragico degli anni che viviamo.

Ma, questa condizione non si realizza a partire dall’automatismo in sé, non dipende dalle nostre possibilità o capacità, ma ha le radici dentro le condizioni sociali cioè nella natura della società e può essere dissolta soltanto dalla prassi consapevole di soggetti che intendono liberarsi.

Pertanto, la liberazione di noi tutte non è un programma per il futuro ma l’inventario del presente, l’insieme delle potenzialità incorporate nel sapere sociale.

Nell’inventario del presente bisogna scrivere la possibilità di una grande trasformazione nei rapporti di produzione e di scambio fra gli esseri umani e, questo, a dispetto di tutte le culture che danno per scontata ed inevitabile questa società, sia che lo facciano per interesse, sia che lo facciano per ignoranza, perché l’uno e l’altra non comportano innocenza.

Infatti, hanno ripudiato, oltre il materialismo storico e quello dialettico, anche la lotta di classe che è diventata monopolio dell’iper-borghesia e sono approdate al “liberalismo umanitario” che è una spietata apologia del darwinismo politico-sociale e, attraverso questo, santificano lo stato delle cose presenti.

Passando attraverso la criminalizzazione e la demonizzazione delle parole.

Una generazione, per anni, si è riconosciuta chiamandosi compagna e la parola suggellava un patto di appartenenza e solidarietà, qualche cosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa di difficilmente verbalizzabile proprio per la ricchezza della sua estensibilità.

Compagna e femminista, ancor ieri provocavano vibrazioni che penetravano fin dentro gli abissi del disagio e della solitudine che pure c’erano anche allora.

Ma, se sono le parole che fanno le cose, disfare quelle parole che sono, allo stesso tempo, categorie di rappresentazione e strumenti di mobilitazione, ha contribuito alla smobilitazione di quello che, un tempo, si chiamava femminismo.

Il potere è la guerra. La guerra, continuata con altri mezzi, è iscrivere e riscrivere le disuguaglianze economiche, etniche e di genere fin nei corpi e, da qui, la gravità di quelle che si sono arruolate nelle Istituzioni che, di questa guerra fatta alle più, sono l’esercito.

Da qui lo sdoganamento della violenza che pervade tutta la società , la recrudescenza del femminicidio in una società patriarcale che ha legittimato il razzismo da parte di chi si ritiene superiore ad un altro /a.

E’ la banalizzazione della morte, l’introduzione della pena di morte extra-legem, la distruzione di tutti gli equilibri di cui si facevano forti piccola e media borghesia, lavoratrici e lavoratori cognitivi e liberi professionisti.

E’ in questo contesto che si assiste alla riproduzione amico/a-nemico/a, costruita artificialmente attraverso il richiamo ad un gruppo sociale, di volta in volta criminalizzato, che permetta di veicolare il concetto che siamo in guerra.

E, quando si è in guerra, si usa l’esercito e il fine giustifica i mezzi.

Ma, nessuna società può tollerare questo deprezzamento del valore della vita. Il valore della vita non solo si è deprezzato, è praticamente nullo.

E’ una società in corto circuito e la pretesa avallata e ripetuta come un “mantra” dalla socialdemocrazia, che da questa società non si può uscire e non si può cambiare, non le permette di sopravvivere se non al prezzo della repressione, della forza, del sangue.

Ed è per questo che lo Stato è in guerra contro le cittadine e i cittadini e chiama continuamente alla mobilitazione ed è disposto a cooptare chi si presta a concorrere all’oppressione delle/dei più.

Si delinea, così, uno Stato che colonizza il territorio e, amministrativamente, la vita privata, l’esperienza individuale e collettiva.

Il neoliberismo non riguarda più la conquista al mercato di tutti i territori e la riduzione a merce di tutto, ma, nella sua necessità autoespansiva, vuole impossessarsi anche degli aspetti più propriamente privati (soggettivazione-sessuazione).

Il neoliberismo fagocita nell’universo mercantile tutto, il lavoro, la natura, la sostanza vivente e, pertanto, anche l’immaginario e la mente.

La donna merce è donna incarcerata tra sbarre di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, è donna che inizia ad essere programmata sin dalla nascita, facendosi riproduttrice di merce e, quindi, anche di se stessa come merce.

Ogni donna realizza, inconsapevolmente, un programma che in lei è stato introdotto.

La sua “normalità” è così il dramma sociale dell’esecuzione automatica, inconscia , della propria programmazione fabbricata per lei dal capitale, espressione attuale del patriarcato.

La donna merce è senza “coscienza per sé”, è coscienza del capitale che opera per il suo tramite. Dominio reale del capitale significa assoggettamento della coscienza individuale delle donne ai programmi di comportamento patriarcali, è il trionfo della “coscienza illusoria di sé”, una catena che va spezzata e si può spezzare solo ponendo le proprie pratiche sociali in rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale. (Foto: Zaynab_contro_la_repressione_in_Bahrain) Il capitalismo è metabolismo sociale e investe tutti i rapporti sociali e, pertanto, l’alienazione della coscienza sociale individuale è generale e la si recupera con la rimozione di quei rapporti sociali di produzione che l’hanno generata. Pertanto il movimento espansivo della materia sociale è, necessariamente, connesso ad un processo sociale di accumulazione di informazione extragenetica con ciò intendendo tutta quell’informazione non riferita all’essere umano, come creatura biologica, e, cioè, non trasmessa con il patrimonio genetico/cromosomico.

L’accumulazione di informazioni è un processo essenziale e costitutivo della produzione e riproduzione sociale e, di conseguenza, anche dell’esistenza stessa dell‘umanità.

La cultura è il processo sociale generale di questa accumulazione.

La cultura è il movimento dell’informazione ed il processo di memoria dei collettivi umani: classe, genere, etnia….

Il processo sociale di informazione è un processo semiotico e ideologico, semiotico perché si avvale di segni, è produzione/scambio di segni, ideologico perché l’informazione è un microtesto che cristallizza la dialettica vivente nei rapporti sociali che lo hanno prodotto. E’, quindi, una traduzione ideologica.

Pertanto la donna viene inserita in un programma che, poi, automaticamente, sia pure inconsciamente, ne determinerà il comportamento per l’intera durata della vita.

Quindi, nella formazione sociale borghese-patriarcale codici, funzioni e canali della comunicazione culturale sono controllati dalla classe dominante e dal maschio che ne detengono la proprietà “privata”.

Dato il controllo che la borghesia ed il maschio esercitano sui codici, sui canali di comunicazione, sulle modalità di decodificazione e interpretazione del messaggio, sulla cultura tutta, la donna si trova spesso nella condizione di essere letta e parlata dalle sue stesse parole, di essere portavoce di una realtà e di valori di cui non comprende il fine e la funzione.

Affermare il carattere storicamente contestualizzato e segnico di tutte le zone della coscienza e della cultura tutta, significa ribadirne necessariamente il carattere ideologico.

Pertanto si rivela l’inconsistenza di tutte le teorie innatiste e idealiste, non solo la cultura, ma anche l’inconscio esiste come realtà materiale nella società e nella memoria collettiva.

E’ il luogo dove quello che è rifiutato dall’ideologia dominante viene privato di parole, posto nell’impossibilità di comunicare.

E, all’ingiunzione di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano sempre precisi divieti, stigma e punizioni.

Per questo, il divieto e la paura di infrangerlo (con relative conseguenze), soffoca il nostro presente ed il nostro futuro.

Da qui, la necessità di una pratica sociale antagonista che ha arricchito il movimento femminista nel corso della sua ormai lunga, diversificata e contradditoria esperienza nella consapevolezza che il privato è politico e che il sociale è il privato.

Di fronte all’ideologia dominante noi non scappiamo intimorite e ne lasciamo alla borghesia il monopolio, ma abbiamo la ricchezza del materialismo storico dialettico.

Strumento rivoluzionario perché consente e promuove un processo incessante di presa di coscienza delle stesse leggi di formazione della coscienza.

Il risultato è una pratica sociale trasgressiva e comunicata. Significa pratica sociale orientata al soddisfacimento dei nostri bisogni materiali, delle nostre aspirazioni, ma anche al raggiungimento della felicità e della gioia.

E’ un trasformarsi trasformando la società, è prassi politica, ma, contemporaneamente, prassi sociale. Significa guardare il presente con gli occhi del futuro.

Liberazione dal capitale e dal patriarcato significa produzione di festa e di autorealizzazione e diversa qualità del tempo e della vita.

Tempo e vita sottratti alla tirannia del plusvalore e al dominio patriarcale.

Qui acquista importanza la produzione della memoria sociale, di fronte alla pretesa del capitale di avere il monopolio della produzione e della circolazione dei meccanismi di funzionamento della memoria collettiva.

L’area della comunicazione sociale è l’area della vita sociale: come la sua espansione è misura di ricchezza, così il suo controllo, da parte della borghesia, è una forma di pauperismo culturale.

L’uso borghese patriarcale della memoria sociale produce un’informazione sempre più avvelenata che passa attraverso l’imposizione dell’oblio, la censura e la simulazione dei fatti. Accompagnata dalla selezione dei fatti stessi.

Il monopolio della lettura della memoria collettiva è una strategia di controllo sociale che passa dalla censura alla falsificazione dei segni ideologici e, per far questo, usa strumenti diversi compresa la socialdemocrazia ed il riformismo che, nelle reti della comunicazione quotidiana fanno guerra semiotica alla memoria e all’identità del movimento femminista.

Tutto ciò attraverso la produzione di falsificazioni e di segni ideologici che, mentre simulano eventi sociali reali, presenti e passati, ne propongono una “modellizzazione” menzognera.

La socialdemocrazia attua forme di dissimulazione per giungere, attraverso l’intossicazione e la manipolazione della memoria femminista, al controllo preventivo dei comportamenti potenzialmente antagonistici.

Poiché l’esperienza passata condiziona quella futura, si configura come codice dell’attività riproduttrice dei rapporti sociali. E, perciò, si capisce perché la declinazione della memoria collettiva assume una così grande importanza per la borghesia neoliberista e patriarcale. E, pertanto, concepisce il futuro come un semplice prolungamento dell’adesso.

Da qui, la necessità, per il movimento femminista, di conquistare una memoria autonoma e collettiva della lotta di liberazione delle donne.

La socialdemocrazia è incardinata sul principio di ricordare per conservare, mentre, noi femministe ricordiamo per trasformare.

La nostra memoria è, necessariamente, determinata da molteplici e contraddittorie accentuazioni.

All’interno di queste, come complesse trame su un ordito, si svolgono intrecci complicati di specifiche memorie, più o meno organizzati, più o meno frammentari, ma, il risultato finale è completamente unitario.

E’ un inno, un anelito alla nostra liberazione.

Le informazioni, la cultura, non sono affatto neutre, buone per tutti i generi, le classi, le etnie….La veicolazione della memoria collettiva, nella formazione semiotica ideologica borghese patriarcale, è esteriorizzazione di sapere che si realizza sotto il dominio del capitale.

Da qui, la necessità di rigettare i codici linguistici del potere che costituiscono la rete essenziale del controllo sociale.

Da qui, la necessità di costruire un nostro linguaggio, una nostra prassi che investa tutti gli aspetti della vita, dall’apprendimento del lavoro, dai linguaggi quotidiani, dall’eros, dalla capacità di sognare.

Finalmente potremmo avere per oggetto e scopo la nostra vita: il corpo, il piacere, le passioni, le emozioni…. insomma, la realizzazione di noi come universo illimitato di desideri.

La felicità è originata dall’autorealizzazione ed è la misura della civiltà.

In breve e insieme, rivoluzione sociale e culturale, rivoluzione totale fuori e dentro di noi.

*Relazione tenuta all'all'Incontro Nazionale Separato organizzato a Roma il 2 e 3 giugno "Il personale è politico, il sociale è il privato" contro la violenza maschile sulle donne, nello spazio sociale occupato dell'Ex51 in via Bacciarini 12 (metro A- Valle Aurelia).

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/societa/2117-elisabetta-teghil-qcoscienza-illusoria-di-seq.html

Controcorrente

"Controcorrente - Per fare in pezzi il conformismo della sinistra che c'è" di Francesco Raparelli
«Il conformismo, che fin dall'inizio è stato di casa nella socialdemocrazia, non è connesso solo con la sua tattica politica, ma anche con le sue idee economiche. Esso è una causa del suo successivo crollo. Non c'è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico era il favore della corrente con cui pensavano di nuotare. Di qui era breve il passo all'illusione che il lavoro di fabbrica, che si troverebbe nel solco del progresso tecnico, rappresenti un risultato politico». (W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia). Quando ero liceale, negli anni '90, e leggevo ancora con un po' di fatica le tesi benjaminiane, giunto alla Tesi XI non avevo dubbi: avevo per le mani un testo di formidabile attualità! Come descrivere diversamente le socialdemocrazie europee promotrici del Trattato di Maastricht? Quali parole migliori per dare conto della terza via blairiana che in Italia prendeva le sembianze del Pds prima e dei Ds dopo? Mi sembrava, davvero, che Benjamin nel '39, in fuga dal nazismo, aveva già capito tutto ciò che c'era da capire. Certo lo avevano aiutato il Marx critico del programma di Gotha e il Weber dello spirito del capitalismo, ma queste cose le ho imparate più tardi. Oggi, nell'epoca in cui la tecnica, quella degli economisti neoliberali, si è fatta governamentalità, il conformismo socialdemocratico è ancora più insopportabile. Un conformismo comprensibile, ma mai giustificabile, vent'anni fa, in piena fase espansiva della globalizzazione; un conformismo servile e intollerabile ora che la globalizzazione neoliberale è travolta dalla seconda Grande Contrazione.

Non c'è più alcuna ragione per essere conformisti con le idee economiche! Ma il problema è che la sinistra socialdemocratica ha dismesso completamente la propria capacità di pensare. E la testardaggine della realtà non può nulla contro il vuoto.

Per quanto di queste ultime affermazioni, nel movimento, ne siamo più che consapevoli, succede a volte di pensare, mossi un pochino dall'affetto per Mario Tronti, che in fondo, seppur di segno diverso dal nostro, ci sia un pensiero strategico nella segreteria del Pd o delle sinistre minori. Come dire, noi non siamo d'accordo, ma loro, i partiti, comunque qualcosa la stanno pensando. D'altronde le affermazione hollandiane (revisione del Fiscal Compact, tassazione delle transazione finanziarie, patrimoniale) e il coraggio di Syriza ci danno un briciolo di speranza: non è vero che la sinistra europea può essere solo montiana (anche perché Monti è di destra, un cristiano-democratico molto austero passato per la finanza americana, penso che per lui sia un'offesa sentirsi considerare uomo di sinistra), c'è anche una sinistra che vuole uscire dalla crisi pensando ai salari, al reddito, alla redistribuzione della ricchezza.

Sono le notizie di queste ore, invece, che ci fanno perdere nuovamente speranza, soprattutto quando i nostri occhi si appuntano sulla scena italiana. Nessuno più ne parla, ma lo spread tra i nostri titoli di Stato e i bund tedeschi ieri ha sfiorato i 500 punti per poi attestarsi a 467. Non è più una notizia, così come non è una notizia che il nostro Parlamento sta approvando una riforma costituzionale che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione. La disoccupazione in Europa cresce (11%), sono i dati Eurostat ad informarci, e l'Istat ci dice che in Italia la disoccupazione giovanile ha superato il 35%. Anche in America la disoccupazione cresce e Obama se la prende con la Merkel e la crisi dell'Eurozona. Tra l'altro, forse il dato più significativo, non ci sono più locomotive orientali che trainano il mondo fuori dalla crisi, la crescita di Cina e India rallenta e il motivo è semplice: il crollo dei consumi in Europa, oltre che negli Us. Insomma, mentre la catastrofe si abbatte in tutte le sue forme su di noi, dal terremoto che martorizza l'Emilia Romagna alla crisi economica che come una scure colpisce l'occupazione, imponendo nuove e sempre più radicate povertà, il Pd e le sinistre italiane, sono convinte di poter seguire la corrente. Con Monti pensano di tenere a bada la Merkel, con Draghi di salvare l'euro, con la Cgil di comprimere o mettere a tacere il malcontento che serpeggia nella società impoverita, con Manganelli e De Gennaro di sventare il pericolo anarco-insurrezionalista. Tra gli strateghi c'è Re Giorgio che, con i suoi moniti funesti, conferma la «dittatura commissaria», per utilizzare l'espressione schmittiana, che ormai tiene in scacco la nostra sfortunata penisola. Poi c'è Scalfari, un pensatore raffinato, che giustamente pensa di tenere a bada il grillismo con una lista civica giustizialista capeggiata dall'«eroe nazionale» Saviano. Già la immagino, una lista di eroi nazionali, nella quale non mi stupirebbe la presenza di Caselli, di Della Valle, di Benigni, di Fiorello. Che bello, no?

A me sembra così chiara una cosa. Le parole di Obama esprimono preoccupazione, ma anche rabbia. Obama ha capito che le sue pedine europee (avendo in conto che l'interesse americano rimane comunque quello di tenere a bada l'autonomia monetaria ed economica europea), da Monti a Hollande, non riescono a frenare la fuga tedesca. La fuga tedesca dall'euro che abbiamo conosciuto dal 2002 in poi esibisce ulteriormente la fine dell'egemonia americana nella scena globale. Non esistono sostituti, questo è altrettanto evidente, ma in assenza di sostituti nuove combinazioni prendono corpo: l'asse geo-strategico Germania-Russia-Cina è una di queste combinazioni. Se ne creeranno e se ne stanno già creando altre, indubbiamente, ma di tutto questo, la segreteria del Pd, non ha capito nulla. Dimostrazione: il sostegno «senza se e senza ma» al governo Monti. Il governo Monti è un governo americano, pensato per tenere a freno la spinta centrifuga tedesca. Chi non vede questo, semplicemente non legge i giornali la mattina, niente di male, ma evitiamo di perder tempo con discussioni inutili. Se nel Pd esistesse un pensiero, un pensiero riformista, si capirebbe che Monti ha rotto i coglioni, che la Merkel non lo sta a sentire e che la «gabbia d'acciaio» del Fiscal Compact va rotta. Per procedere dove? Verso una nuova Europa, quanto meno keynesiana, con una moneta comune, come dice Marazzi, e non unica, accompagnata dunque da monete nazionali vincolate alla moneta comune ma con un margine di autonomia espansiva, con una banca centrale analoga alla Fed e alla Banca d'Inghilterra, con il debito pubblico mutualizzato, con una durissima tassazione delle transazioni finanziarie e con una legge, di sapore roosveltiano, in grado di separare banche d'investimento e banche commerciali. Obiezione tipica del “democratico”: come la mettiamo con la fuga dei capitali? Bella obiezione. Ma basterebbe leggere Rampini per sapere che la fuga dall'euro non riguarda più solo gli hedge fund, ma che oramai riguarda corporation e multinazionali. A forza di salvaguardare l'interesse del capitale, i nostri grandi strateghi democratici faranno in pezzi l'Europa, e i capitali, che sanno badare da soli ai loro interessi, non hanno bisogno di Bersani o Letta, se ne saranno andati già da un pezzo.

D'altronde, pensandoci bene, e nonostante le parole di Tronti, è almeno dagli anni '60 che i dirigenti della sinistra non sono più le teste migliori che ci sono sulla piazza. Per quanto mi ricordo io, al liceo come all'università, i meno brillanti erano quelli che facevano già politica nei partiti di sinistra. Di certo non è un caso che siamo nella merda.

Allora da dove si riparte? Si riparte dalle costituenti o coalizioni sociali, da questa istanza trasversale e marxiana che mette al centro la tutela del lavoro contro lo sfruttamento, del reddito contro la rendita, della felicità contro la malinconia. Ci vuole una coalizione sociale che chiarisca senza timidezze un programma d'alternativa, un programma semplice, per il momento, ma non per questo meno radicale: farla finita con il Fiscal Compact, con il debito illegittimo (la tematica del default selettivo) e con la dittatura finanziaria! Da qui in poi si discute, il resto sono chiacchiere. Altrettanto: farla finita con l'attacco ai salari e ai diritti delle riforme del lavoro prescritte dalla Deutsche Bank (in Germania anticipate di un decennio dal governo Schröder) e dalla Bce! Prima mettiamo all'angolo Marchionne e Fornero e poi, solo poi, ne riparliamo. Fatte queste premesse programmatiche, la costituente sociale, che da subito deve procedere lungo una linea di sviluppo europea, può discutere e condizionare le forze politiche che, a sinistra, vogliono evitare la catastrofe. Ma l'autonomia programmatica e delle pratiche di lotta, oltre che del metodo organizzativo, per il movimento oggi è tutto, a maggior ragione se la sinistra, soprattutto quella italica, rimane quella descritta dalla XI Tesi di Benjamin.

Occorre ritrovare l'ebrezza di risalire il fiume, controcorrente, nella consapevolezza che il percorso è lungo e che gli orsi non mollano.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/politica/2116-francesco-raparelli-controcorrente.html

Illusioni perdute dell'altro mondo

"Illusioni perdute dell'altro mondo" di Pierre Macherey
Il pensiero utopico aiuta a interpretare i periodi di transizione, quando il vecchio non è ancora morto e il futuro si manifesta con difficoltà. Nella crisi attuale può infatti fornire strumenti per elaborare realistiche strategie di resistenza al neoliberismo. A differenza di quanto avveniva appena un secolo fa, oggi non si scrivono più grandi favole utopiche: le ultime, senza dubbio, sono state quelle di H. G. Welles le quali, però, si presentavano più come racconti d'anticipazione che come utopie in senso stretto.

Perché questo declino? Molto probabilmente perché si è consumata l'aspirazione che dava la forza di credere alla virtù delle utopie, quelle che si situavano all'incrocio dell'immaginario e del reale, in questo punto d'incertezza, ma anche di speranza, in cui sembra si prolunghino l'una nell'altra. È come se questa divisione tra immaginario e reale fosse divenuta insormontabile.

La forma di pensiero propria all'utopia è quella che si adatta meglio ai periodi di transizione, di passaggio, durante i quali non si sa più bene quale posizione si occupi, se si è nel vecchio o nel nuovo: l'utopia opera a fondo questo tipo di equivoco, per questo si può dire che essa sia l'espressione di una crisi. Ma cosa vuol dire «vivere in un periodo di crisi?» È una situazione oggettiva, che obbedisce a dei parametri riconoscibili, oppure, per usare una terminologia corrente, si tratta di un «sentito» soggettivo, della presa di coscienza di un qualcosa che potrebbe essere in procinto di passare, ma di cui non si riescono a definire con esattezza gli antecedenti e le conseguenze, i pro e i contro?

L'utopia prospera nell'intervallo tra i due, quando i due bordi soggettivo e oggettivo della crisi - e tutte le epoche sono, in un modo che non è mai lo stesso, delle epoche di crisi - entrano in comunicazione nonostante ciò che li oppone. Forse viviamo in un tempo in cui questa opposizione è così nettamente definita che non riusciamo più a vedere il nesso che, nonostante tutto, confusamente, ne lega i termini, un tempo nel quale non è più possibile, non è più autorizzata, una «follia» come quella di don Chisciotte che, senza scrupoli, passava incessantemente dall'immaginario al reale e dal reale all'immaginario senza tenere conto della loro separazione.


La misticazione svelata

A furia di renderci «positivi», e di perdere il senso del negativo, siamo diventati terribilmente lucidi, sarebbe a dire disincantati: potrebbe essere questo che caratterizza la nostra crisi, di cui un certo declino del pensiero utopico sarebbe il sintomo.

Ciò che trovo interessante nella lettura dei testi utopici è che permettono di fare teoria diversamente, ma più in generale, di pensare diversamente, sotto forme più libere, meno rigide, le quali, allo stesso tempo, rivelano i limiti sui quali inciampa inevitabilmente ogni ragionamento astratto quando si nutre, illusoriamente, del sentimento della sua autosufficienza e della sua completezza.

Il pensiero utopico è fondamentalmente critico, corrosivo, ironico, sospensivo prima che conclusivo: i miti che esso costruisce hanno tutti una funzione demistificatrice, ed è per questo che bisogna conoscerli. Ma noi non sappiamo più giocare con i miti ed approfittare della funzione perturbatrice che essi sono capaci di assolvere quando rinunciamo ad assegnare loro un ruolo limitato di indottrinamento e di consolazione, quindi, di propaganda: e questo perché ci fa soffrire pensare efficacemente, adeguatamente, ossia in modo non conforme, irrispettoso, reso produttivo dal fatto di essersi liberato da ogni a priori.

Dal lato della letteratura e delle forme di narratività che essa elabora, le cose, forse, vanno meno male: ed è perché, a mio parere, la filosofia avrebbe molto da guadagnare se rinunciasse a procedere isolatamente, e farebbe bene a occuparsi principalmente di letteratura, a mescolarsi con la letteratura, invece di trattarla come una forma piuttosto vana di divertimento, autorizzandosi così a rifiutarla. La letteratura, di certo, da sola non trasforma il mondo; ma il mondo non si trasformerà senza la partecipazione della letteratura che introduce nel pensiero un fermento di inquietudine, una dose di lavoro del negativo di cui esso ha bisogno per sbarazzarsi delle forme esclusive di convinzione, fisse, tanto più vane quanto più perentorie.

L'utopia non è fatta per essere applicata. Si fraintende la sua natura quando si vede in essa un possibile destinato a essere realizzato, cioè un'anticipazione. Ed è perché, sia detto velocemente, ciò che si chiama letteratura d'anticipazione (o science-fiction) dopo la fine del XIX secolo, in particolare dopo Jules Verne, non coglie lo spirito dell'utopia, ma va ad occupare altre regioni dell'immaginario: risponde ad altri bisogni intellettuali, ed è interessante per altri aspetti.


Il miraggio di Timbuktu

Per farsi un'idea di cosa sia l'utopia bisogna pensare all'esploratore René Caillé il quale, alla fine del XIX secolo, ha attraversato parti ancora sconosciute o poco frequentate dell'Africa, con l'idea fissa di essere il primo ad entrare nella città santa di Timbuktu, allora completamente interdetta agli occidentali, un risultato ottenuto attraverso mille difficoltà e affrontando pericoli di ogni sorta; la narrazione del suo percorso è molto lunga e, da questo punto di vista, appassionante, si legge come un romanzo d'avventure, con i diversi ostacoli che il protagonista ha dovuto superare nel corso della sua pericolosa peripezia; e, quando alla fine raggiunge lo scopo al termine di una progressione sinuosa e contrastante nel corso della quale la tensione non ha mai smesso di crescere, sembra che non abbia più niente da dire: la fine agognata è come un luogo vuoto il cui contenuto è condannato a restare indeterminato.

Questa traiettoria, che si è sviluppata su di un territorio che non può essere più materiale della geografia, può servire da illustrazione per comprendere meglio ciò che Kant chiama, nella terminologia sofisticata della filosofia, un'idea regolatrice della ragione, distinta dalle categorie determinate dell'intelletto che si applicano all'esperienza: con queste idee regolatrici la ragione si impianta nell'ordine del puro «come se», ossia della finzione la quale, sebbene non corrisponda a nulla di reale, può tuttavia giocare un ruolo di incitazione e di guida per la conoscenza e l'azione, persuadendo, a titolo d'ipotesi, ma nulla più di un'ipotesi, che il mondo è comprensibile e trasformabile, in una prospettiva di miglioramento.

L'idea di comunismo ha giocato, ed ha ancora da giocare, un ruolo importante a titolo di idea regolatrice, così come lo è stata la visione quasi allucinatoria di Timbuktu per un René Caillé, visione i cui prestigi si sono sgonfiati in un colpo quando il suo contenuto è stato a portata di mano. L'errore - commesso da persone che erano allo stesso tempo dei criminali e degli imbecilli, e questo ha prodotto delle conseguenze spaventose (la Cambogia !) - è stato quello di installare l'idea di comunismo su di un altro terreno e di trattarla come un programma sperimentale la cui messa in opera non poteva che portare ad un disastro collettivo. Il comunismo, l'umanità probabilmente non lo vivrà mai, in fondo, tanto meglio: ma tutto ciò non impedisce che essa se ne serva come di un'idea regolatrice che ne stimola il progresso; a questo titolo sì, è e deve restare un'utopia. Contro l'utopia comunista si formulano argomenti basati sul fatto che essa si è bloccata, sì è infranta contro il muro del reale: ma era fatta per realizzarsi? la sua finalità non si sottrae forse all'alternativa della riuscita o dello scacco? Continuo a pensare che l'utopia comunista non ha perso niente della sua attualità proprio in quanto idea, e che ha sempre un ruolo importante da giocare. Infatti, il pensiero liberale borghese è riuscito a rimodellare fin troppo alla perfezione il mondo a suo modo, e se ci è riuscito è perché non si è mai preso il lusso di installarsi sul terreno dell'utopia; ha preferito sviluppare e propagare le sue procedure, le sue «pratiche», tutto ciò che Michel Foucault chiama «tecnologie del potere », «bio-potere», etc., sul terreno della realtà, e questo con un pragmatismo perfetto; si è impadronito della società prendendola, non dall'alto, ma dal basso; è riuscito a investire i più infimi dettagli della vita quotidiana nei quali è pervenuto, gradualmente erodendo il terreno, ad insinuare i suoi rapporti di dominazione e di autorità.

Senza false aspettative

E allora, come resistere? Forse prendendo coscienza della vanità di opporre al programma di sperimentazione che il pensiero liberale borghese è riuscito, con un'astuzia infinita, a mettere in opera - spesso anche improvvisando, procedendo per prove ed errori, senza sapere chiaramente in anticipo dove stesse andando - un contro-programma dalle linee ben definite, coerente e consistente, ma che si rifà, in fin dei conti, a delle promesse senza domani e si accontenta di garantire che «domani, la barba è gratis», il che vuol dire, in ogni modo, non vincolarsi a nulla.

Piuttosto bisogna sfruttare i punti di resistenza isolati quando si presentano, abbandonando l'illusione che essi si inscrivano in un progetto finalizzato, globalmente difendibile, che condurrebbe l'umanità verso la sua fine. È auspicabile, soprattutto desacralizzare l'azione politica, non gravarla di false aspettative, destinate inevitabilmente ad essere deluse.

Da questo punto di vista, è preferibile rinunciare ad essere utopisti in primo grado, sarebbe a dire nel senso peggiore del termine: bisogna servirsi dell'utopia conservandone lo statuto di idea regolatrice che accompagna il pensiero e l'azione, ma che non è fatta per realizzarsi nei fatti.

La società nella quale viviamo è, più che mai, divisa, sottomessa a dei modelli di adattamento normalizzati, tagliata in settori autonomi piegati sulla difesa, cioè sulla conservazione dei loro pretesi valori; si crede di andare avanti anche quando non si va da nessuna parte, quando ci si ritira del tutto. È per questo che resto convinto che l'utopia, il cui spirito ci ha momentaneamente lasciato, ci manchi e che avremmo bisogno di nuove utopie la cui figura rimane interamente da disegnare.

Traduzione di Fabrizio Denunzio

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/teoria/2115-pierre-macherey-illusioni-perdute-dellaltro-mondo.html

Fine dell'€: Guida alla sopravvivenza

"Fine dell'Euro: Guida alla Sopravvivenza" di Peter Boone e Simon Johnson

Nel loro Blog The Baseline Scenario Simon Johnson e Peter Boone sostengono che l'uscita della Grecia farà crollare l'eurozona, e qui spiegano come secondo loro accadrà In ogni crisi economica arriva un momento di chiarezza. In Europa, presto, milioni di persone si sveglieranno e si renderanno conto che l'euro-come-lo-conosciamo non c'è più. Li attende il caos economico.

Per capire perché, prima spogliatevi delle vostre illusioni. La crisi Europea fino ad oggi è stata una serie di presunti "decisivi" punti di svolta, ciascuno dei quali si è rivelato essere solo un altro passo giù verso il burrone. Le prossime elezioni del 17 giugno in Grecia sono un altro momento del genere. Benché le forze cosiddette "pro-bailout" possano prevalere in termini di seggi parlamentari, una qualche forma di nuova moneta presto invaderà le strade di Atene. E' già quasi impossibile salvare l'appartenenza della Grecia alla zona euro: i depositi fuggono dalle banche, i contribuenti ritardano i pagamenti delle imposte, e le aziende posticipano il pagamento dei loro fornitori - sia perché non possono pagare sia perché si aspettano che presto potranno pagare in dracme a buon mercato.
La troika della Commissione Europea (CE), Banca Centrale Europea (BCE), e Fondo Monetario Internazionale (FMI), non si è dimostrata in grado di riportare la Grecia in una prospettiva di ripresa, e qualsiasi nuovo programma di prestiti incontrerà le stesse difficoltà. Con un'evidente frustrazione, il capo del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha osservato la scorsa settimana, "Per quanto riguarda Atene, penso anche a tutte quelle persone che cercano continuamente di sfuggire al carico fiscale."

L'empatia di Ms. Lagarde si sta esaurendo, e questo è un peccato – soprattutto perché il fallimento Greco dimostra quanto sia sbagliata una moneta unica per l'Europa. La reazione Greca riflette l'enorme pena e difficoltà connessa al tentativo di organizzare una "svalutazione interna" (un eufemismo per pesanti tagli salariali e dei consumi) al fine di ripristinare la competitività e ripagare un eccessivo livello di indebitamento.

Di fronte a cinque anni di recessione, a oltre il 20 per cento di disoccupazione, a ulteriori tagli, e a una serie di promesse non mantenute dai politici dentro e fuori il paese, una reazione politica sembra del tutto naturale. Con i dirigenti del FMI, i funzionari Europei, e i giornalisti finanziari che fanno ventilare l'idea di una "exit Greca" dall'euro, chi ora potrebbe investire o firmare contratti a lungo termine in Grecia? L'economia della Grecia può solo peggiorare.

Alcuni politici Europei ora ci dicono che nelle condizioni attuali un'uscita ordinata della Grecia è possibile, e che la Grecia sarà l'unico paese ad uscire. Si sbagliano. L'uscita della Grecia è semplicemente un altro passo in una serie concatenata di eventi che conduce verso una dissoluzione caotica dell'eurozona.

Durante la prossima fase della crisi, l'elettorato Europeo aprirà bruscamente gli occhi sui grandi rischi finanziari che gli sono stati imposti nei tentativi falliti di mantenere in vita la moneta unica. Se la Grecia abbandona l'euro entro la fine dell'anno, il suo governo andrà in default per circa 300 miliardi di euro di debito pubblico estero, compresi i circa € 187 miliardi dovuti al FMI e al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (EFSF). Ancora più importante, e allo stato attuale meno evidente agli occhi dei contribuenti Tedeschi, la Grecia probabilmente andrà in default per 155 miliardi direttamente nei confronti del sistema dell'euro (composto dalla BCE e dalle 17 banche centrali nazionali dell'eurozona). Questo include 110 miliardi di euro forniti automaticamente alla Grecia attraverso il sistema dei pagamenti Target2 - che gestisce le transazioni tra le banche centrali dei paesi che utilizzano l'euro. Man mano che i depositanti e gli istituti di credito fuggono dalle banche Greche, qualcuno deve finanziare questa fuga di capitali, altrimenti le banche Greche fallirebbero. Questo ruolo viene assunto dalle altre banche centrali dell'area dell'euro, che hanno a disposizione dei fondi ingenti, con i saldi riportati nel conto Target2. La maggior parte di questi prestiti è, in pratica, fatto dalla Bundesbank, dal momento che la fuga di capitali si dirige per lo più verso la Germania, anche se tutti i membri del sistema euro condividono le perdite in caso di default.

La BCE ha sempre negato con veemenza di aver assunto dei rischi eccessivi, nonostante le sue politiche di finanziamento sempre più largo. Ma soltanto tra Target2 ed acquisti diretti di obbligazioni, i crediti del sistema dell'euro verso i paesi periferici in difficoltà ammontano a circa € 1.100 miliardi (questa è la nostra stima basata sui dati ufficiali disponibili). Che equivale a oltre il 200 per cento del capitale (in senso lato) del sistema euro. Nessuna banca responsabile dovrebbe sostenere che queste somme sono rischi marginali per il suo capitale o per i contribuenti. Questi crediti corrispondono anche al 43 per cento del PIL Tedesco, che ora è intorno a 2.570 miliardi di euro. Con la Grecia che sta a dimostrare come tutto questo finanziamento sia profondamente rischioso, il sistema euro apparirà molto più fragile e pericoloso ai contribuenti e agli investitori.

Jacek Rostowski, il Ministro delle Finanze Polacco, ha recentemente avvertito che la calamità di un default Greco è suscettibile di provocare una fuga da banche e debito sovrano in tutta la periferia, e che - per evitare una sciagura più grande - tutti i paesi membri restanti devono essere provvisti di un finanziamento illimitato per almeno 18 mesi. Mr. Rostowski esprime la preoccupazione, tuttavia, che la BCE non sia pronta a fornire un firewall di questo genere, e che nessun altro soggetto abbia la capacità, la legittimità, o la volontà di farlo.

Siamo d'accordo: una volta che la gente si accorgerà che la BCEha già una grande quantità di rischio di credito sui suoi libri, sembra molto improbabile che la BCE possa iniziare a fornire fondi illimitati a tutti gli altri governi che si trovino sotto pressione nel mercato obbligazionario. La traiettoria Greca di austerità-default è probabile che si ripeta altrove - quindi perché i Tedeschi dovrebbero acconsentire a che la BCE improvvisamente raddoppi o quadruplichi i prestiti a tutti gli altri?

Lo scenario più probabile è che la BCE, con esitazione e riluttanza, fornisca fondi ad altri paesi – secondo un modello di sostegno a singhiozzo - e che semplicemente questi fondi non saranno sufficienti a stabilizzare la situazione. Dopo aver visto la distruzione di un'uscita Greca, e sapendo che sia la BCE che i contribuenti Tedeschi non tollereranno un numero illimitato di ulteriori perdite, gli investitori e i depositanti risponderanno con la fuga dalle banche degli altri paesi periferici ed evitando investimenti e spese.

La fuga di capitali potrebbe durare per mesi, lasciando le banche della periferia a corto di liquidità e costringendole a contrarre il credito - portando le loro economie verso la più profonda recessione e mandando in collera gli elettori. Anche se la BCE si rifiuta di fornire grandi quantità di finanziamenti visibili, i meccanismi automatici del sistema dei pagamenti Europeo farà sì che la fuga di capitali dalla Spagna e dall'Italia verso le banche Tedesche si trasformerà de facto in sempre maggiori prestiti dalla Bundesbank alla Banca d'Italia e al Banco de Espana, in sostanza agli stati Italiano e Spagnolo. I contribuenti Tedeschi cominceranno a comprendere questo schema e avranno paura di ulteriori perdite.

La fine del sistema dell'euro sembra che sarà così. La periferia soffre sempre più profonde recessioni - non riuscendo a rispettare gli obiettivi fissati dalla troika - e il peso del loro debito pubblico diventerà ovviamente sempre più insostenibile. L'euro si deprezzerà notevolmente rispetto alle altre valute, ma non in un modo che possa rendere l'Europa più attraente come luogo per gli investimenti.

Invece, ci sarà la consapevolezza che la BCE ha perso il controllo della politica monetaria, è stata costretta a creare crediti per finanziare la fuga di capitali e sostenere i sovrani in difficoltà - e che tali crediti potrebbero non essere rimborsati in pieno. Il mondo non considererà più l'euro come moneta sicura, gli investitori eviteranno i titoli emessi da tutta l'area, e anche la Germania potrebbe avere problemi di emissione del debito a tassi di interesse ragionevoli. Infine, i contribuenti Tedeschi dovranno sopportare un'inflazione inaccettabile e un conto che sembrerà diventare incontrollabile per salvare i loro partners dell'euro.

La soluzione più semplice sarà che la Germania stessa lasci l'euro, costringendo le altre nazioni ad affrettarsi per seguirne l'esempio. Il senso di colpa della Germania per i conflitti del passato e la paura di perdere i benefici di 60 anni di integrazione Europea senza dubbio potranno rimandare l'inevitabile. Ma qui sta il guaio di rimandare l'inevitabile - quando la diga finalmente si rompe, le conseguenze saranno molto più devastanti, dal momento che i debiti saranno maggiori e l'antagonismo più intenso.

Una rottura disordinata dell'area dell'euro sarà molto più dannosa per i mercati finanziari globali della crisi del 2008. Nell'autunno 2008, la decisione era se e come i governi avrebbero dovuto fornire un sostegno alle grandi banche e ai creditori delle banche. Ora, alcuni governi Europei devono essi stessi affrontare l'insolvenza. L'economia Europea equivale a quasi 1/3 del PIL mondiale. Il debito sovrano totale in essere ammonta a circa 11.000 miliardi di dollari, di cui almeno 4.000 miliardi devono essere considerati come a rischio di ristrutturazione a breve termine.

I ricchi mercati Europei dei capitali e il sistema bancario, compreso il mercato di 185.000 miliardi di dollari in contratti derivati in essere denominati in euro, saranno in fermento e ci sarà una grande fuga di capitali fuori dall'Europa verso gli Stati Uniti e l'Asia. Chi può essere sicuro che le nostre megabanche globali siano realmente in grado di sopportare le probabili perdite? E' quasi certo che un gran numero di pensionati e di famiglie vedranno i loro risparmi direttamente spazzati via, o erosi dall'inflazione. Il potenziale di disordine politico e di disagio umano è sconcertante.

Negli ultimi tre anni i politici Europei hanno promesso di "fare tutto il possibile" per salvare l'euro. E' ormai chiaro che questa promessa va oltre la loro capacità di mantenerla - in quanto richiede misure che sono inaccettabili per i loro elettori. Nessuno sa con certezza quanto tempo potranno ritardare il completo collasso dell'euro, forse mesi o ancora diversi anni, ma ci stiamo muovendo costantemente verso una brutta fine.

Ogni volta che le nazioni vanno in crisi, inizia il gioco della colpa. Alcuni nella leadership Europea e del FMI stanno già cercando di coprire le loro tracce, intendendo che la corruzione e quei "Greci che non pagano le tasse" hanno portato tutto al fallimento. E' sbagliato: il sistema euro sta generando disoccupazione e crisi profonde in Irlanda, Italia, Grecia, Portogallo e Spagna. Nonostante i programmi di aggiustamento sponsorizzati dalla Troika, nella periferia la situazione continua a peggiorare. Non possiamo incolpare di tutto questo i politici Greci corrotti.

E' tempo che i funzionari Europei e del FMI, con il sostegno degli Stati Uniti e di altri, si mettano a lavorare su come smantellare l'area dell'euro. Anche se nessuno scioglimento sarà mai veramente ordinato, ci sono mezzi per ridurre il caos. Molte questioni tecniche, legali e finanziarie potrebbero essere risolte in anticipo. Abbiamo bisogno di piani per gestirlo: l'introduzione di nuove valute, molteplici default sovrani, la ricapitalizzazione delle banche e dei gruppi assicurativi, e distribuire le attività e le passività del sistema euro. Alcuni paesi avranno presto bisogno di riserve in valuta estera per sostenere loro nuove valute. La cosa più importante, l'Europa deve recuperare i suoi grandi successi, tra cui il libero scambio e la mobilità del lavoro in tutto il continente, mentre cerca di districarsi da questo errore colossale della moneta unica.

Purtroppo per tutti noi, i nostri politici si rifiutano di farlo - odiano ammettere gli errori e le incompetenze del passato, e in ogni caso, il compito di coordinare diciassette paesi in disaccordo nella fase calante di questo regime monetario è, forse, irraggiungibile.

Dimenticatevi di un salvataggio del G20, del G8, del G7, di un nuovo Tesoro dell'Unione Europea, dell'emissione di eurobonds, di un grande schema di mutualizzazione del debito su larga scala, o di qualsiasi altra favola. Siamo da soli.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/europa/2114-pboone-e-sjohnson-fine-delleuro-guida-alla-sopravvivenza.html