sabato 8 ottobre 2016
domenica 1 maggio 2016
Il PRIMO MAGGIO
La
scelta della data non fu certo casuale: si optò per il 1° maggio perché
tre anni prima, nel 1886, un corteo operaio svoltosi a Chicago era
stato represso nel sangue. A metà del 1800, infatti, i lavoratori non
avevano diritti: lavoravano anche 16 ore al giorno, in pessime
condizioni, e spesso morivano sul luogo di lavoro. Il 1° maggio 1886 fu
indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ridurre la
giornata lavorativa a 8 ore. La protesta durò 3 giorni e culminò, il 4
maggio, col massacro di Haymarket: una vera e propria battaglia in cui morirono 11 persone.
Perché il 1° maggio. Festa del lavoro o
dei lavoratori ha una lunga tradizione. Il Primo maggio nasce infatti a
Parigi il 20 luglio del lontano 1889. L’idea venne lanciata durante il
congresso della Seconda Internazionale, che in quei
giorni era riunito nella capitale francese. Durante i lavori venne
indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche
di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.
Oltreconfine.
L’iniziativa superò i confini nazionali e divenne il simbolo delle
rivendicazioni degli operai che in quegli anni lottavano per avere
diritti e condizioni di lavoro migliori. Così, nonostante la risposta
repressiva di molti governi, il 1° maggio del 1890 registrò un’altissima
adesione. Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi.
Naturalmente Cuba, Russia, Cina, ma anche Messico, Brasile, Turchia e i
Paesi dell’Ue. Non lo è, invece, negli Stati Uniti. Abolito dal fascismo. Nel
1923, sotto il fascismo venne abolito il 1° maggio e la festa dei
lavoratori confluì nel Natale di Roma (21 aprile), leggendaria data di
fondazione della Capitale, nel 753 a. C. Nel 1947 infine la festa del
lavoro e dei lavoratori divenne ufficialmente festa nazionale.
Storia per immagini del PRIMO MAGGIO (Fonte: R A I )
sabato 9 aprile 2016
Generazione carcere: la gioventù egiziana dalle proteste alla prigione ... ed altro
È il titolo forte, quasi lancinante, di un rapporto pubblicato nel giugno 2015 da Amnesty International, per denunciare la repressione del dissenso nel nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi
. Sono le storie di 14 giovani, attivisti per i diritti
umani, studenti, blogger, arrestati assieme ad altre migliaia di persone
per la loro partecipazione alle proteste, mentre le autorità
giustificavano il giro di vite sottolineando la necessità di garantire
sicurezza e stabilità al paese.
Era il 25 gennaio 2011 quando, per la
prima volta, l’avanguardia di Tahrir occupava la piazza fino a farla
straripare di gente, sognando un Egitto finalmente libero dai
trentennali giochi di potere della cricca mubarakiana. Tutto era
cominciato nel centro tunisino di Sidi Bouzid, nel dicembre precedente,
quando con un gesto estremo di protesta il venditore di frutta Mohamed
Bouazizi aveva risposto alle angherie subite dalle autorità dandosi
fuoco. Lì avevano iniziato a germogliare i gelsomini della rivoluzione,
che avrebbero portato in meno di un mese alla caduta del presidente Ben
Ali. I venti delle primavere arabe superarono rapidamente i confini
tunisini, prendendo a soffiare impetuosi sulla cruciale regione
geopolitica del Grande Medio Oriente. Quella di Mubarak
fu la seconda dittatura a capitolare, aprendo la strada a un futuro
ricco di incognite ma altrettanto denso delle speranze di tanti
egiziani. Nel giugno del 2012, dopo oltre un anno di reggenza del
feldmaresciallo Tantawi, la vittoria alle elezioni presidenziali di Mohammed Mursi,
esponente del partito Giustizia e libertà, emanazione diretta della
Fratellanza musulmana. È una parentesi che dura solo un anno: la piazza
si ribella ai decreti dal sapore neofaraonico emanati dal capo dello
Stato e la protesta monta, fino all’ultimatum dell’esercito. Il 3 luglio
Mursi viene deposto: non un golpe, dicono i militari, ma una risposta
alle rivendicazioni popolari. La transizione è affidata al presidente
della Corte costituzionale Adly Mansour e nel frattempo comincia a
imporsi la figura del generale al-Sisi, che smette la divisa e - come
prevedibile - si candida alle elezioni presidenziali del maggio 2014,
stravincendole con quasi il 97% dei consensi.
Oggi, a più di 5
anni da quel 25 gennaio 2011, il sogno di un futuro diverso coltivato
dai manifestanti d’Egitto al grido di ‘pane, libertà e giustizia
sociale’, resta un ricordo sbiadito. E, denuncia Amnesty, la
‘generazione della protesta’ del 2011 è diventata nel 2015 una
‘generazione in galera’. Appartiene a questa gioventù Alaa Abdel Fattah,
attivista e blogger, condannato nel febbraio 2015 a 5 anni di
reclusione per aver violato la legge che non consente manifestazioni
senza autorizzazione; ne fa parte l’avvocatessa per i diritti umani
Mahienour el-Masry, arrestata con l’accusa di aver attaccato la stazione
di polizia di El-Raml nel marzo del 2013; ne è invece da poco uscita
Yara Sallam, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, condannata
per protesta non autorizzata e poi graziata nel settembre 2015 dal
presidente al-Sisi.
Per il quinto anniversario della
Rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, il governo era stato chiaro,
ricorrendo addirittura a motivazioni religiose per spiegare la sua
posizione: era necessario non cedere alle sirene della protesta che
riecheggiavano sui social media, perché trascinare il paese nel caos e
nella violenza ‘va contro i principi della sharia’. Nel
frattempo, gli amministratori di alcune pagine Facebook erano già stati
arrestati con l’accusa di aizzare contro le istituzioni dello Stato e di
far parte della Fratellanza musulmana, tornata nuovamente fuorilegge.
Il giorno di quel quinto anniversario ha segnato anche l’Italia, perché
al Cairo si perdevano le tracce del giovane ricercatore Giulio Regeni,
dottorando all’università di Cambridge e impegnato nello studio dei
sindacati indipendenti in Egitto. Il suo corpo senza vita sarebbe stato
ritrovato il 3 febbraio, portando con sé mille interrogativi per quegli
evidenti segni di tortura che hanno subito fatto affiorare il più
terribile dei sospetti, quello di un coinvolgimento dei servizi di
sicurezza. Le autorità egiziane hanno promesso di fare piena luce sul
caso e assicurato la loro collaborazione agli investigatori italiani, ma
le contrastanti versioni sull’accaduto che giorno dopo giorno arrivano
dalle rive del Nilo appaiono immediatamente poco credibili, dalla
notizia di un incidente stradale, all’ipotesi di un omicidio collegato
al mondo della droga, alle voci di un presunto delitto a sfondo
sessuale. Poi ricompare la pista della criminalità comune, vengono
mostrate le fotografie dei documenti di Giulio, che sarebbe stato
assassinato da una banda specializzata nel rapimento di cittadini
stranieri i cui membri - ovviamente uccisi - erano soliti travestirsi da
poliziotti. Anche questa tesi tuttavia non regge: il borsone rosso
mostrato negli scatti non sarebbe infatti del ricercatore italiano;
decisamente improbabile poi che dei criminali comuni conservino per mesi
i documenti di una loro vittima. Il governo italiano, lasciando
trasparire irritazione, mantiene ferma la sua posizione e ribadisce che
non accetterà verità di comodo; da parte sua Il Cairo fa sapere che il
caso non è chiuso e le indagini proseguono. In attesa dell’incontro a
Roma tra gli investigatori italiani e i loro colleghi egiziani – fonti
parlano di un dossier di 2000 pagine – il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni
ha rimarcato che, senza un vero cambio di marcia, l’Italia è pronta a
reagire con misure tempestive e proporzionate. Parole che, ovviamente,
Il Cairo non ha gradito.
L’Egitto continua a essere un attore
di grande rilevanza nello scacchiere del Grande Medio Oriente, oggi in
particolar modo per la sua prossimità al magmatico fronte libico e per
la lotta contro un terrorismo che nell’incontrollato Sinai – con
l’attentato all’aereo russo dell’ottobre 2015 – ha dimostrato di poter
colpire con drammatica brutalità. Alle dinamiche geopolitiche si
affiancano poi importanti interessi economici, che coinvolgono le
principali potenze occidentali e anche l’Italia, peraltro non solo
attraverso l’ENI.
Per gli eredi dei faraoni il momento è
delicato, con una crescita economica in fase di rallentamento e carenti
riserve di valuta estera. Le difficoltà hanno determinato un calo della
popolarità del presidente, ma secondo gli analisti al-Sisi può per il
momento restare tranquillo sia perché – come ha ricordato Eric Trager su
Foreign Policy – dopo anni convulsi gli egiziani sembrano poco
propensi a nuove sollevazioni, sia perché – hanno evidenziato Marina e
David Ottaway per Foreign Affairs – il capo dello Stato controlla saldamente le istituzioni del paese.
Sul caso Regeni sarà necessario fare chiarezza nel più breve tempo
possibile, senza dimenticare – riportando le parole di una risoluzione
comune votata dal Parlamento europeo nel mese di marzo – che purtroppo
non si tratta di un ‘evento isolato, ma si colloca in un contesto di
torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto
l’Egitto negli ultimi anni’.
C’è ancora troppo buio lungo le sponde del Nilo.
L’Egitto: un potenziale perno diplomatico negli equilibri geopolitici medio orientali
di Vincenzo Piglionica

Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno
costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe”
(l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in
corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella
situazione nazionale dei Paesi coinvolti. Il costante aumento dei
prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli
elefantiaci apparati burocratici di
regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie
al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della
popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni,
producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali
dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.
28 giugno 2012
La presidenza dell’Egitto ai Fratelli musulmani: una vittoria a metà
di Anthony Santilli

Mohammed Mursi, il candidato dei Fratelli musulmani, è il primo Presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto
post-Mubarak. Questo è quanto comunicato da Faruq Sultan, presidente
della Commissione elettorale, che domenica scorsa [24 giugno ndr] ha
finalmente diramato i risultati, ad una
settimana dalla conclusione del ballottaggio. A detta della
stessa Commissione, Mursi ha vinto la corsa alla presidenza
aggiudicandosi 13.2 milioni di voti, ovvero il 51% dei consensi. Il suo
rivale, Ahmed Shafiq, ne ha invece ottenuti 12.3 milioni. Circa 800 mila
schede sono state invalidate.
Una settimana piena di tensioni
A causa dei continui rinvii da parte della Commissione, tutta la settimana è trascorsa in Egitto nell’attesa dei risultati ufficiali, con i due candidati che facevano a gara nel dichiarare, cifre alla mano, di aver ottenuto il maggior numero di voti, accusandosi reciprocamente di brogli.
Parallelamente a questa guerra dei numeri, le piazze egiziane si sono nuovamente riempite dei sostenitori dei due candidati. Durante la settimana la preponderanza delle manifestazioni a sostegno del candidato dei Fratelli musulmani è stata costante, anche grazie all’affluenza di quanti percepivano la possibile vittoria di Shafiq come un ritorno al potere del vecchio regime. L’ultimo evento di questa battaglia a distanza si è svolto sabato scorso [23 giugno ndr], quando migliaia di sostenitori di Ahmed Shafiq hanno manifestato contro i Fratelli musulmani ed il loro candidato, occupando alcune delle più importanti strade di Nasr City, al Cairo. A poche centinaia di metri di distanza, un’imponente manifestazione aveva luogo nella centrale Piazza Tahrir, tradizionale epicentro delle proteste contro il regime, animata principalmente dai sostenitori degli Ikhwan.
Una vittoria a metà
La vittoria di Mursi ribadisce quello che le elezioni parlamentari di qualche mese fa avevano già annunciato, ovvero che i Fratelli musulmani rimangono la forza politica meglio organizzata e maggiormente radicata nel paese.
Non solo. La sua vittoria conferma allo stesso tempo la notevole capacità di negoziazione del movimento con chi detiene il potere. Questa abilità ha permesso alla Fratellanza di sopravvivere politicamente anche nei momenti di più dura repressione, come nel secondo quinquennio di Sadat, o nell’ultimo decennio del regime di Mubarak. Oggi come in passato, accanto alle imponenti manifestazioni di piazza promosse dalla struttura organizzativa dei Fratelli musulmani, i negoziati con le forze militari si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Numerosi quotidiani arabi hanno riportato i dettagli degli incontri prodottisi all’indomani della tornata elettorale; tra i più risolutivi l’incontro avvenuto tra i generali del Consiglio Supremo delle Forze armate (SCAF) e il leader della Fratellanza Khairat al-Shatir, per la definizione dei poteri del nuovo Presidente.
A seguito dei provvedimenti presi dalle alte sfere militari negli ultimi giorni, ancora non è chiaro in effetti che ruolo potrà svolgere il nuovo Presidente egiziano nei prossimi mesi. Mursi si trova infatti privo del sostegno del Parlamento, disciolto dopo che lo scorso 14 giugno la Corte costituzionale suprema ha dichiarato incostituzionale alcune parti della legge attraverso la quale si sono regolamentate le elezioni parlamentari. Tre giorni dopo lo SCAF ha inoltre pubblicato sulla Gazzetta ufficiale egiziana una Dichiarazione di modifica del testo costituzionale che gli stessi militari avevano promulgato lo scorso 30 marzo 2011. Con tale dichiarazione sono stati ulteriormente limitati i poteri del Presidente egiziano, a tutto vantaggio del Consiglio Supremo delle forze armate, che deterrà il potere legislativo fino alla formazione di un nuovo Parlamento; secondo questa dichiarazione lo SCAF avrebbe inoltre il potere di nominare una nuova Assembla costituente qualora quella esistente “incontri degli ostacoli che possano impedirne il regolare svolgimento dei lavori”. Come ha affermato Ahmed Raghib dell’Hisham Mubarak Law Center lo scorso 19 giugno sulle pagine del quotidiano al-Shuruq, con questo nuovo emendamento il Consiglio Supremo delle forze armate è oramai “il vero capo dell’Egitto”.
La strategia dello SCAF è sin troppo chiara. Sarà da vedere invece nelle prossime settimane quale atteggiamento adotteranno i Fratelli musulmani e soprattutto se i negoziati degli ultimi giorni abbiano realmente definito i limiti dell’azione che il movimento potrà svolgere sullo scenario politico egiziano.
Un primo indizio delle prossime mosse sarà dato dall’atteggiamento che gli Ikhwan adotteranno nei riguardi dell’avvenuto scioglimento del Parlamento egiziano. Sabato 16 giugno il Partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli musulmani) aveva infatti rilasciato un comunicato nel quale rifiutava categoricamente la decisione della Corte Suprema di invalidare le elezioni parlamentari. Ancora mercoledì scorso [20 giugno ndr] l’omonimo quotidiano del partito insisteva nel diramare una road map per i prossimi mesi, nel caso di vittoria del proprio candidato. Tra i punti salienti vi era il “ripristino del disciolto Parlamento”.
L’atteggiamento del movimento nelle prossime ore potrà essere quindi rivelatore. Certo è che la vittoria di Mohammed Mursi, per quanto ufficiale, non sembra sancire la fine del tribolato processo di transizione egiziano.
Una settimana piena di tensioni
A causa dei continui rinvii da parte della Commissione, tutta la settimana è trascorsa in Egitto nell’attesa dei risultati ufficiali, con i due candidati che facevano a gara nel dichiarare, cifre alla mano, di aver ottenuto il maggior numero di voti, accusandosi reciprocamente di brogli.
Parallelamente a questa guerra dei numeri, le piazze egiziane si sono nuovamente riempite dei sostenitori dei due candidati. Durante la settimana la preponderanza delle manifestazioni a sostegno del candidato dei Fratelli musulmani è stata costante, anche grazie all’affluenza di quanti percepivano la possibile vittoria di Shafiq come un ritorno al potere del vecchio regime. L’ultimo evento di questa battaglia a distanza si è svolto sabato scorso [23 giugno ndr], quando migliaia di sostenitori di Ahmed Shafiq hanno manifestato contro i Fratelli musulmani ed il loro candidato, occupando alcune delle più importanti strade di Nasr City, al Cairo. A poche centinaia di metri di distanza, un’imponente manifestazione aveva luogo nella centrale Piazza Tahrir, tradizionale epicentro delle proteste contro il regime, animata principalmente dai sostenitori degli Ikhwan.
Una vittoria a metà
La vittoria di Mursi ribadisce quello che le elezioni parlamentari di qualche mese fa avevano già annunciato, ovvero che i Fratelli musulmani rimangono la forza politica meglio organizzata e maggiormente radicata nel paese.
Non solo. La sua vittoria conferma allo stesso tempo la notevole capacità di negoziazione del movimento con chi detiene il potere. Questa abilità ha permesso alla Fratellanza di sopravvivere politicamente anche nei momenti di più dura repressione, come nel secondo quinquennio di Sadat, o nell’ultimo decennio del regime di Mubarak. Oggi come in passato, accanto alle imponenti manifestazioni di piazza promosse dalla struttura organizzativa dei Fratelli musulmani, i negoziati con le forze militari si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Numerosi quotidiani arabi hanno riportato i dettagli degli incontri prodottisi all’indomani della tornata elettorale; tra i più risolutivi l’incontro avvenuto tra i generali del Consiglio Supremo delle Forze armate (SCAF) e il leader della Fratellanza Khairat al-Shatir, per la definizione dei poteri del nuovo Presidente.
A seguito dei provvedimenti presi dalle alte sfere militari negli ultimi giorni, ancora non è chiaro in effetti che ruolo potrà svolgere il nuovo Presidente egiziano nei prossimi mesi. Mursi si trova infatti privo del sostegno del Parlamento, disciolto dopo che lo scorso 14 giugno la Corte costituzionale suprema ha dichiarato incostituzionale alcune parti della legge attraverso la quale si sono regolamentate le elezioni parlamentari. Tre giorni dopo lo SCAF ha inoltre pubblicato sulla Gazzetta ufficiale egiziana una Dichiarazione di modifica del testo costituzionale che gli stessi militari avevano promulgato lo scorso 30 marzo 2011. Con tale dichiarazione sono stati ulteriormente limitati i poteri del Presidente egiziano, a tutto vantaggio del Consiglio Supremo delle forze armate, che deterrà il potere legislativo fino alla formazione di un nuovo Parlamento; secondo questa dichiarazione lo SCAF avrebbe inoltre il potere di nominare una nuova Assembla costituente qualora quella esistente “incontri degli ostacoli che possano impedirne il regolare svolgimento dei lavori”. Come ha affermato Ahmed Raghib dell’Hisham Mubarak Law Center lo scorso 19 giugno sulle pagine del quotidiano al-Shuruq, con questo nuovo emendamento il Consiglio Supremo delle forze armate è oramai “il vero capo dell’Egitto”.
La strategia dello SCAF è sin troppo chiara. Sarà da vedere invece nelle prossime settimane quale atteggiamento adotteranno i Fratelli musulmani e soprattutto se i negoziati degli ultimi giorni abbiano realmente definito i limiti dell’azione che il movimento potrà svolgere sullo scenario politico egiziano.
Un primo indizio delle prossime mosse sarà dato dall’atteggiamento che gli Ikhwan adotteranno nei riguardi dell’avvenuto scioglimento del Parlamento egiziano. Sabato 16 giugno il Partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli musulmani) aveva infatti rilasciato un comunicato nel quale rifiutava categoricamente la decisione della Corte Suprema di invalidare le elezioni parlamentari. Ancora mercoledì scorso [20 giugno ndr] l’omonimo quotidiano del partito insisteva nel diramare una road map per i prossimi mesi, nel caso di vittoria del proprio candidato. Tra i punti salienti vi era il “ripristino del disciolto Parlamento”.
L’atteggiamento del movimento nelle prossime ore potrà essere quindi rivelatore. Certo è che la vittoria di Mohammed Mursi, per quanto ufficiale, non sembra sancire la fine del tribolato processo di transizione egiziano.
06 giugno 2012
Le complicate elezioni in Egitto
di Bruna Soravia

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto, che si è
tenuto il 23 e 24 maggio scorsi, ha condotto a un risultato largamente
inatteso da chi pronosticava la vittoria degli esponenti del
rinnovamento politico e una fluida transizione verso la normalizzazione.
Il testa a testa del candidato islamista conservatore Mohamed Mursi e
di Ahmed Shafiq, militare e uomo di Mubarak – insieme al terzo posto di Hamdin
Sabahi, oppositore del regime in nome del ritorno all’ortodossia rivoluzionaria nasserista – ha invece riconfermato la polarizzazione dell’opinione pubblica fra il blocco islamista e la fedeltà al passato regime, pur tenendo conto della debole percentuale di votanti (il 46,42% degli aventi diritto) e delle inevitabili denunzie di brogli a favore di Shafiq, sostenute soprattutto da Sabahi.
La tenuta del partito sommerso dei sostenitori e nostalgici del regime è probabilmente il dato più sorprendente, soprattutto perché ha interessato alcuni dei principali distretti elettorali che avevano garantito la vittoria degli islamisti alle elezioni parlamentari. La stretta disciplina della Fratellanza musulmana e la sua capillare propaganda nel paese hanno comunque garantito la scelta di Mursi (24,3% dei voti), designato dall’organizzazione dopo che la Commissione elettorale aveva, con una decisione assai controversa, estromesso Khairat El-Shater, miliardario islamista e candidato ben più popolare, poche settimane prima della consultazione. Il successo di Shafiq (23,3%) rivela invece la rapida ripresa dell’apparato del partito di regime, il Partito Nazionale Democratico, scomparso dalla ribalta dopo la rivolta del 2011 ma ancora radicato nella struttura economica e nei media nazionali. Shafiq, l’ultimo primo ministro designato da Mubarak prima delle dimissioni, è infatti emerso a sorpresa nelle ultime fasi della campagna, dopo essere stato riammesso alla competizione nonostante la legge appositamente approvata dal nuovo parlamento per impedire ai membri del regime di partecipare. Quasi ignorato dagli analisti occidentali e dai sondaggi pre-elettorali, egli ha rapidamente ricostruito intorno a sé le reti di supporto del regime, proponendo una piattaforma basata sul ripristino della legalità, dell’ordine e della sicurezza – richieste particolarmente sentite nel paese, dove violenze e rapine sono oggi in aumento – e sulla ripresa economica, mentre Mursi fa appello, ma solo oggi, alla riconciliazione con le forze politiche laiche e con la minoranza cristiana copta, arrivando a prospettare la possibilità che il vice-presidente non sia un islamista. Proprio il voto copto (i copti compongono il 12% della popolazione egiziana) ha probabilmente influito sul successo di Shafiq. Inizialmente convergenti su ‘Amr Musa, l’ex-presidente della Lega Araba dato come favorito fra i candidati laici, i voti della comunità hanno infatti premiato Shafiq dopo che Musa era stato accusato, in uno degli ultimi colpi di scena di questa drammatica campagna elettorale, di ricercare un accordo con i partiti islamisti.
La cattura dei voti andati ad altri candidati e la mobilitazione degli astenuti è oggi il principale obiettivo della campagna, prima del voto finale del 16 e 17 giugno, e non appare un obiettivo facile. Tanto Musa che Sabahi hanno dichiarato di non voler sostenere né gli islamisti né i rappresentanti del regime, ma è probabile che i voti del primo finiscano a Shafiq e quelli del secondo – almeno in parte – a Mursi. Il candidato islamista ha intanto ricevuto inaspettato sostegno da Alaa al-Aswany, il più famoso scrittore egiziano contemporaneo, già sostenitore di El-Baradei, il candidato liberale ritiratosi all’inizio della campagna per motivi tuttora poco chiari, ma è prevedibile che il voto liberale conterà poco nel risultato finale. Anche la sentenza che ha condannato all’ergastolo il 2 giugno il ra’is morente Hosni Mubarak avrà sulla campagna in corso effetti che è ancora difficile prevedere. Quanto agli alleati occidentali dell’Egitto, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton ha ufficialmente dichiarato che l’amministrazione Obama accetterà qualunque governo eletto democraticamente.
E’ prevedibile che un risultato a favore di Shafiq possa condurre ad una impasse politica capace di paralizzare il paese e di accentuare le divisioni, poiché il parlamento eletto (al 70% islamista) e il presidente dovranno riscrivere la Costituzione del paese, oggi retto, in modo confuso e controverso, da una dichiarazione costituzionale provvisoria emanata dallo SCAF (il Consiglio supremo delle forze armate). L’esercito, che gestisce non solo la difesa, ma anche la politica estera e l’economia nazionale, pretende che la nuova costituzione salvaguardi le sue prerogative, in particolare la segretezza del bilancio militare e l’ultima parola in caso di dichiarazione di guerra. Quest’ultima clausola è indirettamente volta a tutelare il trattato di pace con Israele, condizione degli ingenti aiuti statunitensi all’Egitto, la cui revisione è stata più volte minacciata dal blocco islamista mentre Shafiq si è espresso a favore della sua conservazione.
Il perdurante potere dei militari è oggi il principale ostacolo alla transizione democratica in Egitto e il limite di ogni suo passo in avanti. Appare per questo tanto più incoraggiante la notizia che il 31 maggio è definitivamente decaduta la legislazione di emergenza, ininterrottamente in vigore in Egitto dal 1981, dopo l’assassinio di Sadat, e con essa un importante strumento di repressione e di controllo della popolazione nelle mani dei militari.
Sabahi, oppositore del regime in nome del ritorno all’ortodossia rivoluzionaria nasserista – ha invece riconfermato la polarizzazione dell’opinione pubblica fra il blocco islamista e la fedeltà al passato regime, pur tenendo conto della debole percentuale di votanti (il 46,42% degli aventi diritto) e delle inevitabili denunzie di brogli a favore di Shafiq, sostenute soprattutto da Sabahi.
La tenuta del partito sommerso dei sostenitori e nostalgici del regime è probabilmente il dato più sorprendente, soprattutto perché ha interessato alcuni dei principali distretti elettorali che avevano garantito la vittoria degli islamisti alle elezioni parlamentari. La stretta disciplina della Fratellanza musulmana e la sua capillare propaganda nel paese hanno comunque garantito la scelta di Mursi (24,3% dei voti), designato dall’organizzazione dopo che la Commissione elettorale aveva, con una decisione assai controversa, estromesso Khairat El-Shater, miliardario islamista e candidato ben più popolare, poche settimane prima della consultazione. Il successo di Shafiq (23,3%) rivela invece la rapida ripresa dell’apparato del partito di regime, il Partito Nazionale Democratico, scomparso dalla ribalta dopo la rivolta del 2011 ma ancora radicato nella struttura economica e nei media nazionali. Shafiq, l’ultimo primo ministro designato da Mubarak prima delle dimissioni, è infatti emerso a sorpresa nelle ultime fasi della campagna, dopo essere stato riammesso alla competizione nonostante la legge appositamente approvata dal nuovo parlamento per impedire ai membri del regime di partecipare. Quasi ignorato dagli analisti occidentali e dai sondaggi pre-elettorali, egli ha rapidamente ricostruito intorno a sé le reti di supporto del regime, proponendo una piattaforma basata sul ripristino della legalità, dell’ordine e della sicurezza – richieste particolarmente sentite nel paese, dove violenze e rapine sono oggi in aumento – e sulla ripresa economica, mentre Mursi fa appello, ma solo oggi, alla riconciliazione con le forze politiche laiche e con la minoranza cristiana copta, arrivando a prospettare la possibilità che il vice-presidente non sia un islamista. Proprio il voto copto (i copti compongono il 12% della popolazione egiziana) ha probabilmente influito sul successo di Shafiq. Inizialmente convergenti su ‘Amr Musa, l’ex-presidente della Lega Araba dato come favorito fra i candidati laici, i voti della comunità hanno infatti premiato Shafiq dopo che Musa era stato accusato, in uno degli ultimi colpi di scena di questa drammatica campagna elettorale, di ricercare un accordo con i partiti islamisti.
La cattura dei voti andati ad altri candidati e la mobilitazione degli astenuti è oggi il principale obiettivo della campagna, prima del voto finale del 16 e 17 giugno, e non appare un obiettivo facile. Tanto Musa che Sabahi hanno dichiarato di non voler sostenere né gli islamisti né i rappresentanti del regime, ma è probabile che i voti del primo finiscano a Shafiq e quelli del secondo – almeno in parte – a Mursi. Il candidato islamista ha intanto ricevuto inaspettato sostegno da Alaa al-Aswany, il più famoso scrittore egiziano contemporaneo, già sostenitore di El-Baradei, il candidato liberale ritiratosi all’inizio della campagna per motivi tuttora poco chiari, ma è prevedibile che il voto liberale conterà poco nel risultato finale. Anche la sentenza che ha condannato all’ergastolo il 2 giugno il ra’is morente Hosni Mubarak avrà sulla campagna in corso effetti che è ancora difficile prevedere. Quanto agli alleati occidentali dell’Egitto, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton ha ufficialmente dichiarato che l’amministrazione Obama accetterà qualunque governo eletto democraticamente.
E’ prevedibile che un risultato a favore di Shafiq possa condurre ad una impasse politica capace di paralizzare il paese e di accentuare le divisioni, poiché il parlamento eletto (al 70% islamista) e il presidente dovranno riscrivere la Costituzione del paese, oggi retto, in modo confuso e controverso, da una dichiarazione costituzionale provvisoria emanata dallo SCAF (il Consiglio supremo delle forze armate). L’esercito, che gestisce non solo la difesa, ma anche la politica estera e l’economia nazionale, pretende che la nuova costituzione salvaguardi le sue prerogative, in particolare la segretezza del bilancio militare e l’ultima parola in caso di dichiarazione di guerra. Quest’ultima clausola è indirettamente volta a tutelare il trattato di pace con Israele, condizione degli ingenti aiuti statunitensi all’Egitto, la cui revisione è stata più volte minacciata dal blocco islamista mentre Shafiq si è espresso a favore della sua conservazione.
Il perdurante potere dei militari è oggi il principale ostacolo alla transizione democratica in Egitto e il limite di ogni suo passo in avanti. Appare per questo tanto più incoraggiante la notizia che il 31 maggio è definitivamente decaduta la legislazione di emergenza, ininterrottamente in vigore in Egitto dal 1981, dopo l’assassinio di Sadat, e con essa un importante strumento di repressione e di controllo della popolazione nelle mani dei militari.
04 maggio 2012
Egitto. I risvolti politici della cessazione delle forniture di gas a Israele
di Anthony Santilli

Mentre in Egitto
il processo di transizione democratica avanza attraverso un tortuoso
percorso ad ostacoli, nuovi scenari si profilano anche in riferimento
alla posizione del paese nel più ampio scacchiere mediorientale.
Domenica scorsa [22 aprile NdR] l’esportazione di gas naturale egiziano verso Israele è cessata ufficialmente. Questa si fondava su di un accordo del 2005 quando, attraverso un memorandum d’intesa, l’Egitto dell’allora presidente Mubarak si impegnò a fornire a Tel Aviv circa 1.7 bilioni di metri cubi annui di gas, per una durata variabile tra i quindici e i venti anni. Numerosi analisti evidenziarono all’epoca come il prezzo concordato per l’esportazione del gas egiziano verso Israele fosse nettamente inferiore a quello di mercato. Negli anni successivi, l’Egitto rinegoziò molte forniture di gas, ad eccezione di quella siglata con Israele.
L’impopolarità di questo accordo in Egitto è a tutti nota. La crisi economica che il sistema-paese sta attraversando da anni e il crescente disappunto per l’atteggiamento israeliano verso il popolo palestinese rappresentano, agli occhi dell’opinione pubblica egiziana, delle ragioni più che valide per rivedere un accordo al ribasso, simbolo della complicità egiziana con lo scomodo vicino.
Ecco perché, sin dal 2008, esiste nel paese una campagna popolare contro l’esportazione di gas verso Israele, e perché, dallo scoppio della rivolta del lontano 25 gennaio 2011, si contano ben 14 attacchi contro il gasdotto che dal Sinai arriva fino ai suoi territori.
Sulla stampa egiziana la rottura del contratto - ufficialmente rescisso perché dal 2008 Israele non avrebbe corrisposto l’importo pattuito - ha assunto sin da subito connotazioni politiche.
Quotidiani filo-governativi come al-Jumhuriyya (lett. “La Repubblica”) approfittavano martedì scorso dell’anniversario del ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Sinai per istituire un parallelismo, tra la funzione “emancipatrice” esercitata a loro dire dai militari in quel lontano 25 aprile del 1982 e l’attuale rescissione attribuita, a loro dire, al risoluto intervento del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF). Un parallelismo a dir poco forzato, se si pensa alla vera storia di quel lontano episodio, nel quale le alte sfere militari egiziane svolsero un ruolo a dir poco marginale.
Molte testate indipendenti pongono l’accento invece sul carattere propagandistico della decisione assunta nei giorni scorsi. Citando un’anonima “fonte governativa”, il quotidiano al-Shuruq ha sottolineato ad esempio come il provvedimento di cessazione dell’esportazione di gas sia stato adoperato dallo SCAF come uno strumento per invertire quella crisi di consensi verso i militari che da mesi sembra irreversibile. Ecco quindi spiegato, sempre secondo al-Shuruq, perché il provvedimento sia stato adottato proprio alla vigilia del succitato anniversario.
Una considerazione condivisa anche da Ibrahim Eissa che tuttavia, in un lungo editoriale dal titolo “I pericoli di una grande decisione” apparso sul quotidiano indipendente al-Tahrir (lett. “La Liberazione”), si chiede come mai, se davvero trattasi di questione politica, l’esercito o il governo egiziano non lo abbiano rivendicato in maniera più esplicita.
In realtà, alcuni membri del gabinetto ministeriale si sono esposti con dichiarazioni alquanto esplicite, seppur contraddittorie. Già lunedì scorso [23 aprile 2012 NdR] il quotidiano di stato al-Ahram ha dato risalto alle dichiarazioni del Ministro dell’Energia Hassan Yunis, secondo cui il gas sino ad allora esportato verso Israele verrà “destinato agli impianti elettrici egiziani” perché “noi ne abbiamo più diritto di loro”. Sulle pagine di al-Tahrir leggiamo invece le dichiarazioni del Ministro per la cooperazione internazionale Fayza Abu al-Naga, che apre ad una inedita fase di esportazione di gas verso Tel Aviv, seppur secondo nuove (e più alte) tariffe.
Affermazioni discordanti, che rivelano tuttavia come il governo stia tentando di giocare la carta del “patriottismo energetico” per risalire, come i militari, nei sondaggi di gradimento.
Più equilibrata l’analisi proposta da ‘Abd al-Rahman Hussein dalle pagine del quotidiano indipendente al-Masri al-yawm (lett. “L’Egitto oggi”). L’autore, pur riconoscendo che la rescissione del contratto è stata provocata da fattori prettamente commerciali, non nasconde l’esistenza di implicazioni politiche, manifestatesi a suo dire nelle modalità e nella tempistica adottate per affrontare la questione. Citando l’opinione di Nabil ‘Abd al-Fatah, analista del Centro studi politici e strategici del gruppo editoriale al-Ahram, l’autore ricorda come la rescissione dell’accordo “avrà effetti importanti anche in politica interna, poiché si inserisce nello scontro tra lo SCAF e le altre forze politiche egiziane, in particolare quelle islamiste”.
È evidente oramai come la questione dei rapporti israelo-egiziani sia parte integrante della battaglia fra le differenti forze politiche nel paese. Sarà da capire nelle prossime settimane se, al di là della sua attuale strumentalizzazione, si arriverà ad una più generale ridefinizione degli Accordi di Camp David.
Domenica scorsa [22 aprile NdR] l’esportazione di gas naturale egiziano verso Israele è cessata ufficialmente. Questa si fondava su di un accordo del 2005 quando, attraverso un memorandum d’intesa, l’Egitto dell’allora presidente Mubarak si impegnò a fornire a Tel Aviv circa 1.7 bilioni di metri cubi annui di gas, per una durata variabile tra i quindici e i venti anni. Numerosi analisti evidenziarono all’epoca come il prezzo concordato per l’esportazione del gas egiziano verso Israele fosse nettamente inferiore a quello di mercato. Negli anni successivi, l’Egitto rinegoziò molte forniture di gas, ad eccezione di quella siglata con Israele.
L’impopolarità di questo accordo in Egitto è a tutti nota. La crisi economica che il sistema-paese sta attraversando da anni e il crescente disappunto per l’atteggiamento israeliano verso il popolo palestinese rappresentano, agli occhi dell’opinione pubblica egiziana, delle ragioni più che valide per rivedere un accordo al ribasso, simbolo della complicità egiziana con lo scomodo vicino.
Ecco perché, sin dal 2008, esiste nel paese una campagna popolare contro l’esportazione di gas verso Israele, e perché, dallo scoppio della rivolta del lontano 25 gennaio 2011, si contano ben 14 attacchi contro il gasdotto che dal Sinai arriva fino ai suoi territori.
Sulla stampa egiziana la rottura del contratto - ufficialmente rescisso perché dal 2008 Israele non avrebbe corrisposto l’importo pattuito - ha assunto sin da subito connotazioni politiche.
Quotidiani filo-governativi come al-Jumhuriyya (lett. “La Repubblica”) approfittavano martedì scorso dell’anniversario del ritiro definitivo delle truppe israeliane dal Sinai per istituire un parallelismo, tra la funzione “emancipatrice” esercitata a loro dire dai militari in quel lontano 25 aprile del 1982 e l’attuale rescissione attribuita, a loro dire, al risoluto intervento del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF). Un parallelismo a dir poco forzato, se si pensa alla vera storia di quel lontano episodio, nel quale le alte sfere militari egiziane svolsero un ruolo a dir poco marginale.
Molte testate indipendenti pongono l’accento invece sul carattere propagandistico della decisione assunta nei giorni scorsi. Citando un’anonima “fonte governativa”, il quotidiano al-Shuruq ha sottolineato ad esempio come il provvedimento di cessazione dell’esportazione di gas sia stato adoperato dallo SCAF come uno strumento per invertire quella crisi di consensi verso i militari che da mesi sembra irreversibile. Ecco quindi spiegato, sempre secondo al-Shuruq, perché il provvedimento sia stato adottato proprio alla vigilia del succitato anniversario.
Una considerazione condivisa anche da Ibrahim Eissa che tuttavia, in un lungo editoriale dal titolo “I pericoli di una grande decisione” apparso sul quotidiano indipendente al-Tahrir (lett. “La Liberazione”), si chiede come mai, se davvero trattasi di questione politica, l’esercito o il governo egiziano non lo abbiano rivendicato in maniera più esplicita.
In realtà, alcuni membri del gabinetto ministeriale si sono esposti con dichiarazioni alquanto esplicite, seppur contraddittorie. Già lunedì scorso [23 aprile 2012 NdR] il quotidiano di stato al-Ahram ha dato risalto alle dichiarazioni del Ministro dell’Energia Hassan Yunis, secondo cui il gas sino ad allora esportato verso Israele verrà “destinato agli impianti elettrici egiziani” perché “noi ne abbiamo più diritto di loro”. Sulle pagine di al-Tahrir leggiamo invece le dichiarazioni del Ministro per la cooperazione internazionale Fayza Abu al-Naga, che apre ad una inedita fase di esportazione di gas verso Tel Aviv, seppur secondo nuove (e più alte) tariffe.
Affermazioni discordanti, che rivelano tuttavia come il governo stia tentando di giocare la carta del “patriottismo energetico” per risalire, come i militari, nei sondaggi di gradimento.
Più equilibrata l’analisi proposta da ‘Abd al-Rahman Hussein dalle pagine del quotidiano indipendente al-Masri al-yawm (lett. “L’Egitto oggi”). L’autore, pur riconoscendo che la rescissione del contratto è stata provocata da fattori prettamente commerciali, non nasconde l’esistenza di implicazioni politiche, manifestatesi a suo dire nelle modalità e nella tempistica adottate per affrontare la questione. Citando l’opinione di Nabil ‘Abd al-Fatah, analista del Centro studi politici e strategici del gruppo editoriale al-Ahram, l’autore ricorda come la rescissione dell’accordo “avrà effetti importanti anche in politica interna, poiché si inserisce nello scontro tra lo SCAF e le altre forze politiche egiziane, in particolare quelle islamiste”.
È evidente oramai come la questione dei rapporti israelo-egiziani sia parte integrante della battaglia fra le differenti forze politiche nel paese. Sarà da capire nelle prossime settimane se, al di là della sua attuale strumentalizzazione, si arriverà ad una più generale ridefinizione degli Accordi di Camp David.
09 luglio 2013
Perché al Nour è così importante in Egitto?
di Jean-Marie Rossi

Alle quattro di mattina di lunedì 8 luglio l’esercito egiziano
ha sparato sulla folla che stava manifestando di fronte alla sede
della Guardia Repubblicana al Cairo, uccidendo 51 persone e ferendone
diverse centinaia. Molti manifestanti si erano riuniti per protestare
contro il colpo di stato dell'esercito ai danni del deposto presidente Mohammed Mursi,
che si
crede sia trattenuto proprio presso la sede della Guardia
Repubblicana. Non è molto chiara la dinamica di quello che è successo -
manifestanti ed esercito hanno diffuso dei video che mostrano diverse
fasi della sparatoria, ma che non chiariscono le responsabilità
effettive - ma una delle reazioni più significative agli eventi di
domenica notte è stata quella del partito salafita egiziano Al Nour: i
suoi membri prima hanno comunicato di volersi ritirare dalle
consultazioni presidenziali per la formazione del nuovo governo, poi
hanno "ammorbidito" le loro posizioni, dicendo al quotidiano del Qatar Al-Jazeera che in realtà la loro era una sospensione, più che un ritiro.
Erano state proprio le riserve di Al Nour, secondo più importante partito islamista dopo i Fratelli Musulmani, a bloccare la nomina di Mohamed El Baradei a primo ministro - e poi a vice primo ministro - del governo ad interim che i militari stanno cercando di formare per guidare il paese nel periodo di transizione fino alle prossime elezioni. Dopo il veto di Al Nour, il nuovo presidente dell'Egitto, Adli Mansour, aveva comunicato alla stampa che non c’era ancora certezza riguardo alle diverse nomine e che i negoziati tra le varie forze politiche sarebbero dovuti continuare.
Il partito Al Nour, visto fino a due anni fa non tanto come una formazione politica quanto come un gruppo di estremisti islamici con poche possibilità di ottenere ampio consenso, è riuscito a crearsi un certo spazio politico dopo avere scaricato Mursi durante il colpo di stato dei militari dei giorni scorsi. Al Nour è stato l’unico partito islamista che ha appoggiato il colpo di stato contro Mursi, sebbene fosse molto legato ai Fratelli Musulmani. Inoltre, la sua presenza a fianco dei militari ha dato il segnale agli elettori egiziani che la mossa dell'esercito non era rivolta contro l’Islam, o i partiti islamisti al potere.
Con il passare dei giorni, Al Nour ha acquisito un ruolo sempre più necessario nelle negoziazioni per la formazione del nuovo governo. Molti esperti hanno scritto che non è possibile, ad oggi, pensare di formare un governo ad interim nel nuovo Egitto post-Mursi senza che questo ottenga l'appoggio e il sostegno dei salafiti di Al Nour. Il problema, stanno dicendo alcuni leader più laici dell'Egitto, è che i salafiti stanno imponendo delle condizioni sempre più stringenti: hanno rifiutato le candidature del primo ministro e del vice primo ministro avanzate dall'esercito e dalle altre opposizioni, e mantengono una posizione di intransigenza rispetto alla presenza della religione islamica nell'assetto politico e istituzionale del paese.
Le fazioni politiche più laiche dell'Egitto si stanno mostrando sempre più preoccupate sulle richieste di Al Nour, soprattutto dopo le dichiarazioni di lunedì della loro sospensione nelle negoziazioni per il nuovo governo. Samer Shehata, politologo all’Università dell’Oklahoma esperto di islamismo, ha detto che gli ultraconservatori di Al Nour stanno sfruttando le fratture che si sono create in questi giorni all'interno del movimento dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi due anni Al Nour ha fatto una grande campagna per rafforzare i princìpi islamici all'interno delle istituzioni dello stato: ad esempio, si è battuto per inserire nella Costituzione egiziana non solo un blando riconoscimento ai princìpi dell’islamismo, ma una vera e propria ristrutturazione della carta costituente in favore della legge islamica. Ora, con il ruolo sempre più decisivo nel futuro dell'Egitto, Al Nour potrebbe volere - e potere - avanzare delle richieste a cui gli alleati potrebbero non poter dire di no. E questo vale sia per la Costituzione, sia per la nomina di personalità non laiche nei posti che contano del nuovo governo ad interim dell'Egitto.
05 marzo 2012
Erano state proprio le riserve di Al Nour, secondo più importante partito islamista dopo i Fratelli Musulmani, a bloccare la nomina di Mohamed El Baradei a primo ministro - e poi a vice primo ministro - del governo ad interim che i militari stanno cercando di formare per guidare il paese nel periodo di transizione fino alle prossime elezioni. Dopo il veto di Al Nour, il nuovo presidente dell'Egitto, Adli Mansour, aveva comunicato alla stampa che non c’era ancora certezza riguardo alle diverse nomine e che i negoziati tra le varie forze politiche sarebbero dovuti continuare.
Il partito Al Nour, visto fino a due anni fa non tanto come una formazione politica quanto come un gruppo di estremisti islamici con poche possibilità di ottenere ampio consenso, è riuscito a crearsi un certo spazio politico dopo avere scaricato Mursi durante il colpo di stato dei militari dei giorni scorsi. Al Nour è stato l’unico partito islamista che ha appoggiato il colpo di stato contro Mursi, sebbene fosse molto legato ai Fratelli Musulmani. Inoltre, la sua presenza a fianco dei militari ha dato il segnale agli elettori egiziani che la mossa dell'esercito non era rivolta contro l’Islam, o i partiti islamisti al potere.
Con il passare dei giorni, Al Nour ha acquisito un ruolo sempre più necessario nelle negoziazioni per la formazione del nuovo governo. Molti esperti hanno scritto che non è possibile, ad oggi, pensare di formare un governo ad interim nel nuovo Egitto post-Mursi senza che questo ottenga l'appoggio e il sostegno dei salafiti di Al Nour. Il problema, stanno dicendo alcuni leader più laici dell'Egitto, è che i salafiti stanno imponendo delle condizioni sempre più stringenti: hanno rifiutato le candidature del primo ministro e del vice primo ministro avanzate dall'esercito e dalle altre opposizioni, e mantengono una posizione di intransigenza rispetto alla presenza della religione islamica nell'assetto politico e istituzionale del paese.
Le fazioni politiche più laiche dell'Egitto si stanno mostrando sempre più preoccupate sulle richieste di Al Nour, soprattutto dopo le dichiarazioni di lunedì della loro sospensione nelle negoziazioni per il nuovo governo. Samer Shehata, politologo all’Università dell’Oklahoma esperto di islamismo, ha detto che gli ultraconservatori di Al Nour stanno sfruttando le fratture che si sono create in questi giorni all'interno del movimento dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi due anni Al Nour ha fatto una grande campagna per rafforzare i princìpi islamici all'interno delle istituzioni dello stato: ad esempio, si è battuto per inserire nella Costituzione egiziana non solo un blando riconoscimento ai princìpi dell’islamismo, ma una vera e propria ristrutturazione della carta costituente in favore della legge islamica. Ora, con il ruolo sempre più decisivo nel futuro dell'Egitto, Al Nour potrebbe volere - e potere - avanzare delle richieste a cui gli alleati potrebbero non poter dire di no. E questo vale sia per la Costituzione, sia per la nomina di personalità non laiche nei posti che contano del nuovo governo ad interim dell'Egitto.
05 marzo 2012
L’Egitto e l’Occidente, un rapporto che muta?

In Egitto
la difficile transizione verso la democrazia e verso un governo civile
inizia ad avere dei punti fermi, delle date stabilite: le prime elezioni
presidenziali del dopo Mubā'rak
si terranno il 23 e 24 maggio e il vincitore, che con ogni
probabilità avrà un ruolo fondamentale nella
definizione della politica estera, sarà annunciato il 21 giugno.
Il percorso è sempre quello immaginato un anno fa: elezioni
parlamentari, nuova costituzione, elezioni presidenziali, ritorno dei
militari nelle caserme e governo civile. Ma ogni nuovo passaggio verso
il nuovo assetto si realizza attraverso rotture e conflitti, non
gradualmente; le proteste di piazza nel novembre 2011, la frattura tra
il movimento democratico e il governo militare, la netta vittoria dei Fratelli Musulmani
alle elezioni. L’Occidente segue questo percorso con preoccupazione; la
contraddizione è evidente, poiché Mubā'rak era un fedele alleato mentre
le prospettive future restano incerte. I segnali non sono
tranquillizzanti per i tradizionali alleati dell’Egitto: i Fratelli
Musulmani sono critici nei confronti della politica degli Stati Uniti in
Medio Oriente e restano istintivamente ostili a uno stile di vita e a
un modello di società che sentono estranei. Le recenti polemiche sulle
‘scuse’ per i crimini del colonialismo, rilanciate dall’Università
sunnita Al-Azhar, se sono prive di concrete conseguenze, rimangono un
indicatore significativo dell’umore della società egiziana. Naturalmente
la questione di Israele
rimane il nodo cruciale; è probabile che alle radicali dichiarazioni di
principio corrisponda il tradizionale pragmatismo dei Fratelli
Musulmani. Nondimeno molti osservatori temono passi indietro rispetto
alle prospettive di una pace duratura nell’area. Anche la situazione
economica sembra instabile; la visita in Egitto nel gennaio 2012 del
ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi di Sant'Agata
ha messo al centro più i rapporti economici bilaterali che le
considerazioni di geopolitica ma anche da questo punto di vista,
permangono difficoltà. L’instabilità politica ha danneggiato il turismo e
il sabotaggio dei gasdotti, attribuito ai beduini del Sinai, rischia di
bloccare una delle più importanti risorse economiche del paese.
- L’articolo di Bruna Soravia su Muhammad Badi´ in Treccani Magazine http://www.treccani.it/magazine/geopolitica/muhammad_badie_e_la_fratellanza_musulmana.html?nt=1
- Sulla situazione economica dell’Egitto in riferimento all’esportazione di gas http://www.geopolitica-rivista.org/16649/egitto-e-israele-alla-battaglia-del-gas/
18 luglio 2013
Tre possibili scenari per la crisi in Egitto
di Niccolò De Scalzi

In Egitto, dopo il colpo di stato che lo scorso 3 luglio ha deposto il presidente Morsi,
continuano i disordini e le proteste di piazza. Lo scorso lunedì ci
sono stati altri scontri fuori dalla Moschea
di al Adawija e nei pressi dell’Università del Cairo tra
sostenitori dei Fratelli Musulmani e l’esercito ora al potere. Secondo
fonti del ministero della salute egiziano, riportate
dal quotidiano arabo Ahramonline, a seguito di un lancio di lacrimogeni
e pietre nella notte tra lunedì e martedì vi sarebbero stati 7 morti e
oltre 260 feriti. Le proteste della Fratellanza Musulmana sono iniziate per le dichiarazioni del vicesegretario di stato americano William Burns che,
dopo aver incontrato nella giornata il presidente ad interim Adli
Mansour, il primo ministro Hazem al-Beblawi e il generale Al Sisi, capo
dell’esercito che ha deposto il leader dei Fratelli Musulmani Morsi, ha
parlato di una seconda possibilità per la democrazia egiziana.
Domenica 14 luglio il New York Times ha riportato
la notizia secondo cui il nuovo governo ha congelato i beni,
bloccandone l’accesso, a 14 imprenditori e uomini influenti molto vicini
ai Fratelli Musulmani. Tra le vittime delle misure sanzionatorie vi
sarebbe anche Khairat el-Shater,
un miliardario egiziano considerato la “mente finanziaria” dei Fratelli
musulmani. Il governo ha difeso le misure sanzionatorie, parlando di
una manovra necessaria per costringere i Fratelli Musulmani a sedersi al
tavolo delle trattative con i militari e definire una road map condivisa per far uscire il paese fuori dalla crisi.
Secondo
le dichiarazioni ufficiali del nuovo presidente ad interim Mansour
entro una settimana circa dovrebbe essere nominata una commissione che
si occuperà di preparare le proposte per emendare l’attuale costituzione
che è stata sospesa al momento della deposizione di Morsi. Le modifiche
dovranno essere ratificate da un successivo referendum che si terrà
entro 4 mesi. Solo dopo il referendum si terranno, entro il febbraio
2014 le elezioni parlamentari e subito dopo le nuove elezioni
presidenziali.
L’importanza dei militari. Il cammino di transizione è osservato con apprensione dagli Stati Uniti, paese che ogni anno elargisce all’Egitto circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti economici in cambio di garanzie di stabilità politica e il rispetto degli accordi di Camp David del 1978. Una parte consistente di questi aiuti economici, dal 1979, finisce nelle mani dei militari tramite il programma statunitense “Foreign Military Financing”
(FMF). Gli aiuti all’Egitto sono ripartiti con Israele (l’altro paese
assieme agli Stati Uniti che ha firmato gli accordi del 1978) secondo
proporzioni di 3:2. Su 100 milioni erogati dagli Stati Uniti, 60 vanno a
Israele e 40 all’Egitto, e ad ogni misura di sostegno a un paese
corrispondono precise garanzie. Dal 1979 ad oggi gli aiuti militari sono
andati aumentando di due milioni l’anno ogni anno circa. Questi aiuti
vengono indirizzati al ”Supreme Council of the Armed Forces” egiziano (SCAF), l’organo più importante della catena di comando militare che oggi è tornata al potere.
Nel dicembre 2011, a seguito dell’arresto di 43 operatori di ONG statunitensi attive in Egitto, una grave crisi
diplomatica tra Stati Uniti e Egitto sembrò poter interrompere il
flusso monetario. Tra gli arrestati c’era anche Sam LaHood, figlio
dell’ex ministro dei trasporti americano e Morsi si era trovato sospeso
tra le pressioni dei militari per appianare la crisi con gli Stati Uniti
e non interrompere gli aiuti e i conservatori salafiti che spingevano
per alzare ancora di più i toni con l’amministrazione americana a costo
di interrompere le sovvenzioni americane. La vicenda si è conclusa
lo scorso 4 giugno con la condanna da parte di una corte egiziana dei
43 lavoratori alla prigione, anche se i condannati hanno già abbandonato
il paese.
Secondo l’analista statunitense Ian Bremmer,
il potere dei militari non è stato mai realmente scalfito dai Fratelli
Musulamani, se si esclude la rimozione del potentissimo ex capo delle
forze armate Mohammed Tantawi da parte di Morsi, nell’agosto del 2012.
Mentre molti analisti sul mensile americano Foreign Policy si chiedono
se quello del 3 luglio scorso possa considerarsi un colpo di stato,
secondo Bremmer è più corretto chiedersi se quella che ha portato al
potere Morsi è stata davvero una rivoluzione, dato che il potere della
casta militare non è mai stato realmente intaccato.
Tre scenari per il futuro. Secondo
Bloomberg il futuro dell’Egitto dipenderà molto dalle prossime mosse
dei militari guidati dal generale al Sisi e dalle reazioni che
seguiranno soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani. Il primo
scenario, il più ottimista, prevede che i militari assumano un ruolo più
defilato da qui alle prossime elezioni, candidando un politico che non
sembri troppo un “fantoccio” nelle loro mani. Le elezioni, secondo
questa previsione, dovrebbero concludersi con una sconfitta dei Fratelli
Musulmani senza ripercussioni violente. La seconda ipotesi è che
l’esercito egiziano decida di ripetere un’esperienza analoga a quella sperimentata in Turchia nel 1997, quando un gruppo di generali inviarono un memorandum al primo ministro Necmettin Erbakan intimandogli le dimissioni. Erbakan fu arrestato e il partito islamista Welfare Party fu chiuso favorendo l’ascesa di Recep Tayyip Erdoğan,
attuale primo ministro turco. Non vi fu alcun carro armato nelle strade
e gli stessi generali favorirono la transizione dei voti islamisti del
Welfare Party verso nuovi soggetti politici come il Partito per la
Giuistizia e lo Sviluppo dello stesso Erdogan. Un modello di transizione
politica passata alla storia come “colpo di stato post-moderno“.
La terza possibilità è che l’esercito egiziano continui a considerare i
sostenitori di Morsi e dei Fratelli Musulmani come degli insorti,
creando così le condizioni per uno scenario da guerra civile sul modello
di quella scoppiata in Algeria dopo il colpo di stato del 1992 con cui i militari deposero il partito islamista che aveva appena vinto le elezioni.
Troppo grande per fallire. La stabilità dell’Egitto non interessa solo gli Stati Uniti per cui Il Cairo rappresenta un paese chiave per la sicurezza in Medio Oriente, ma anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi che hanno recentemente inviato
8 miliardi di aiuti dopo la presa del potere da parte dei militari, una
chiara manifestazione di fiducia nei confronti del ruolo assunto dai
militari. Barack Obama fin dall’inizio della crisi si è detto “molto turbato” dai disordini, ma allo stesso tempo ha chiesto
ai militari un ritorno quanto più rapido a libere elezioni senza
l’esclusione di alcuna componente politica dal voto. Il vero argine ad
una svolta autoritaria da parte dei militari egiziani è rappresentato,
secondo Bremmer, più che dai Fratelli Musulmani, dalla presenza di una
componente di popolazione civile attiva, influente, poco disposta a
farsi mettere a tacere da un giro di vite degli uomini di al Sisi.
FONTE: Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali
© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata
mercoledì 18 novembre 2015
La devastazione antropologica del capitalismo multinazionale
Guerre civili, operazioni di peacekeeping, campi di rifugiati e migranti: luoghi dove vivono e muoiono milioni di persone. Nella dimensione globale dell’esistenza umana del XXI secolo le persone ‘in esubero’, le vite di scarto, sono possibili esiti di processi sociali, economicamente e politicamente orientati dal capitalismo multinazionale, che producono incertezza e paura, quindi bisogno di sicurezza.
Il fanatismo religioso sembra mettere in ombra la realtà materiale dei profughi modificando il paesaggio antropologico in un inferno che tutto divora, devasta, inaridisce. Le stragi quotidiane – a Parigi come in Siria ed altrove – diventano, nel racconto mediatico eterodiretto, icona e metafora di un’umanità che ha smarrito se stessa, dispersa nel deserto della violenza e delle relazioni spezzate, in fuga dalle città inclusive, un tempo, ora violate; diventano icona e metafora di luoghi di incontri e socialità non più espressi, icona e metafora di biografie possibili sospinte negli angusti carceri della “spietatezza”. Ci vuole resilienza, reazione razionale e determinata per una ripresa del viaggio, rintracciando ‘tracce di cammino interetnico’, segni inequivocabili che indicano sentieri per un’etica e una prassi dell’incontro e della relazione d’aiuto nella reciprocità generatrice di polifonia culturale che "scuona" come urgente fuoriuscita dal capitalismo.
Io guardo l’altro che mi guarda attraversando frontiere e fili spinati, scalando muri di recinzione, attraversando la terra di mezzo, spazio delle possibilità, opzioni di vite mai più rassegnate ad insipidi copioni da recitare.
Apriamo nuovi spazi umanitari. Hic et nunc !
Costituzione della Repubblica italiana – Articolo 11
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
“Chi sente soltanto il profumo di un fiore, non lo conosce, e nemmeno lo conosce chi lo coglie solo per farne materia di studio”
Johann Christian Friedrich Hölderlin
Oggi, portare la guerra nelle metropoli è come mettere una bomba alla stazione di Bologna. È un atto di terrore per disorientare. Su quest’atto, complottismo e islamofobia prospereranno. L’attacco contro Parigi permette di prendere in ostaggio milioni di persone di confessione musulmana in Francia e in Europa, come se fossero tutti loro e solo loro corresponsabili.
Le immagini che arrivano in diretta da Parigi sono inquietanti.
Non solo per la crudeltà riversata nei locali, nelle strade, nei non-luoghi di aggregazione di massa come lo stadio di una normale capitale europea, ma anche per l’obiettivo scelto – la popolazione non in armi -, le presunte motivazioni, la canea che si è scatenata immediatamente dopo.
Tutto accade senza mettere, in realtà, pragmaticamente, in discussione l’antefatto tecnico, piuttosto che politico-culturale, della tragedia umana in corso: la produzione e la vendita di armi, fenomeno economico anch’esso spiegabile, del resto, in chiave storico-economico-politica, poiché rinvia al modello di società terribile nella quale viviamo ed alle forme egemoni di coatta relazione tra esseri umani che tale modello genera.
Detto questo, non possiamo esimerci dal dire che l’attacco assassino è assolutamente funzionale ad una idea di destabilizzazione che ricorda la strategia della tensione. L’ISIS lo abbiamo potuto conoscere dopo l’avanzata in IRAQ e in KURDISTAN. Soprattutto abbiamo imparato a conoscerlo attraverso la resistenza kurda che lo combatte da anni e che nella città di Kobane lo respinge indietro, con il timido aiuto delle potenze occidentali. L’ISIS gode del supporto (più o meno velato) del Governo turco. Il suo uso in funzione anti-ASSAD è pressoché dimostrato. Ma l'evidenza più sconcertante è l’afflato politico con il quale i rappresentanti eletti nei Parlamenti italiano ed europeo si scagliano contro l’ISLAM inteso sempre come il diverso da combattere, auspicando misure sempre più restrittive e fasciste. Non è affatto vero che “politiche fasciste” possano aver la meglio sui neofascismi che si camuffano per culture religiose.
C’è una perversa analogia strutturale tra autoritarismi europei, americani e russi – fatti anche di misure economiche liberiste – e quelli feudali ed intagralisti espressi, negli ultimi anni, dal Califfato.
La lotta dei Kurdi in SIRIA, in IRAN, in TURCHIA, la resistenza a Kobane, il processo politico libertario e egalitario in Rojava, ci forniscono sicuramente una chiave di lettura utile che supera l’emergenza e lo sconcerto legato ad una “normale” serata europea inondata dal sangue.
venerdì 20 marzo 2015
Lettera alle lavoratrici e lavoratori
Care lavoratrici e cari lavoratori metalmeccanici, sabato 28 marzo ci ritroveremo a Roma per la dignità e la libertà del lavoro.
Nei mesi scorsi, insieme, ci siamo battuti contro il Jobs Act del governo che non crea nuovo lavoro né affronta il dramma della precarietà e della disoccupazione giovanile.
Insieme abbiamo proposto delle alternative e presentato le nostre idee frutto di tante assemblee e discussioni con voi. Ma il governo non ha voluto ascoltarci, ha messo in pratica le indicazioni di Confindustria, imboccato la strada della riduzione dei diritti, sposato le ricette di chi pensa che licenziando si crei nuova occupazione. Abusando della democrazia, il governo, a colpi di fiducia, ha ridotto il Parlamento a mero esecutore della sua volontà.
La nostra lotta però non è finita con il varo del Jobs Act. Come promesso durante lo sciopero generale del 12 dicembre di Cgil e Uil, continueremo a spendere le nostre idee e le nostre energie per difendere il lavoro e i suoi diritti, cambiare il paese e renderlo più giusto. Questo è un momento importante per il futuro di tutti noi, delle lavoratrici e dei lavoratori, del nostro sindacato che esiste e ha un senso solo se riesce a rappresentare democraticamente i vostri interessi e da voi riceve il sostegno, le idee e le energie necessarie. Per migliorare le condizioni del lavoro dipendente. Per rivendicare un sistema pensionistico più giusto con la riduzione dell’età pensionabile. Per dare un’occupazione a chi non ce l’ha con nuovi investimenti e con la riduzione dell'orario di lavoro. Per cancellare il precariato. Per combattere l'evasione fiscale e la corruzione. Per garantire il diritto alla salute e allo studio. Per istituire forme di reddito minimo. Per riconquistare veri contratti nazionali che tutelino il salario e diano uguali diritti a tutte le forme di lavoro.
Per questo, nel ringraziarvi per quanto abbiamo fatto finora, vi invito a partecipare in massa alla manifestazione del 28 marzo.
L'abbiamo chiamata “Unions!”, usando una lingua che non è la nostra ma utilizzando una parola che richiama le origini del movimento operaio e sindacale. Quando, tanti anni fa, lavoratrici e lavoratori senza diritti scoprirono insieme che per migliorare la propria condizione era necessario coalizzarsi e battersi per conquistare libertà e diritti comuni.
Oggi milioni di lavoratrici e lavoratori hanno visto cancellati i diritti frutto di lunghe battaglie; altri milioni di lavoratrici e lavoratori quei diritti non li hanno neppure mai avuti, dispersi nelle tante forme di lavoro saltuario e sottopagato. Per tutte e tutti il lavoro sta diventando più povero e precario.
Oggi abbiamo bisogno di riprendere il filo dell'impegno comune, delle lotte contro le politiche dei governi che in Italia e in Europa hanno voluto far pagare al lavoro il costo di una crisi prodotta dalla finanza e dalle speculazioni. Per dare rappresentanza al lavoro. Per confrontarci con tutte quelle realtà, associazioni, gruppi e movimenti che nella società affrontano e contrastano il degrado civile prodotto dalla crisi economica e dalla sua gestione politica. Per affermare i principi della nostra Costituzione. Oggi abbiamo bisogno di un'alleanza, di costruire una coalizione sociale che unisca ciò che il governo e Confindustria vogliono separare, aggregando tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare con le metalmeccaniche e i metalmeccanici, con le delegate e i delegati, con le iscritte e gli iscritti alla Fiom. Per crescere e cambiare abbiamo bisogno di voi, perché la vostra partecipazione e la vostra intelligenza saranno la nostra comune forza.
Vi aspettiamo a Roma il 28 marzo. E da lì continueremo insieme.
Maurizio Landini
mercoledì 25 febbraio 2015
"Ho fatto esperienza dell'estraneità"
By Giovanni Dursi
"Ho fatto esperienza dell'estraneità.
L'anima ha le sue forme.
Spiritualità è la mia fame, la mia stanchezza, il mio sudore.
Ruggito della vita, pochi secondi,
suadente tempesta, ogni volta tutto è sconvolto.
Perdo i compagni, uno ad uno, per strada, ridanciani.
Ispirati, girano a destra e a manca,
ansimanti come ronzini sfiancati,
godono del disfacimento, neanche se ne avvedono.
La loro anima, leccornia nel trogolo di avidi maiali.
Pregano, tremebondi, credono, dopo tanti affanni, s'arrendono.
Narciso padre li accoglie in grembo.
Si specchiano e si donano.
In certi periodi, in una vita,
tutte le tensioni latenti sembrano addensarsi.
Si prefigurano già quelle che segneranno il tempo a venire.
Il libro più felice è quello da scrivere,
zampilla come sangue dal polso lacerato,
per non morire.
L'anima ha le sue forme.
Il racconto in cifra della storia sottile e tormentosa mi scuote, mi riguarda.
Il tempo delle preghiere, della speranza, dell'amore mi è estraneo.
L'eco di frammenti dei lunghi dialoghi con con gli amici,
sempre più debole.
Mesi esacerbati, mi uccido,
come tubercolosi la borghesia in me, cessa l'insano respiro.
Partorisco nelle meravigliose domande,
nelle succose intentate attività.
Poco tempo prima di questi fatti, annoto nel mio diario:
«Se guardo al futuro, ai cinquant’anni che seguiranno,
vedo davanti a me un grande deserto grigio».
La «metafisica della gioventù» non tonifica né nutre d'intensità.
S'avvicina, per la sua dolente impudica realtà,
al clima dell'hotel Auschwitz-Birkenau.
. . . ", Ottobre 2013
giovedì 25 dicembre 2014
L'Internazionale
Guarda SCENARI GRECI
Στην Αθήνα, τον Δεκέμβριο 2014. Κάποιοι πρωταγωνιστές της ελληνικής πολιτικής σκηνής δίνουν συνέντευξες σχετικά με την ενδεχόμενη επόμενη κυβέρνηση της αριστεράς.
Inside the revolutionary process. Inevitably, today !
Perché mimetizzare le cicatrici ? Il potere cerca di nascondere la devastazione materiale e cerca di contrastare la depressione emotiva dei popoli, auspicando che le “genti” passino la vita surrogando i bisogni reali. Le fila dei “malcontenti” s'ingrossano; timidezze estreme, autolesionistiche, vanno incontro, lasciandosi fagocitare del tutto, al trionfo proprietario delle relazioni umane. Il potere racconta la vita di miliardi di persone come favola archetipa, come un'eterna partita alla tombola. Alcuni, collaborativi, possono permettersi di sorridere alla sconfitta e fanno archeologia culturale pensando alla “democrazia reale” come unico, intangibile orizzonte sociale; altri, scelti dalla vita, piuttosto che messi in condizione d'effettuare una scelta di vita, si dedicano al conflitto, ad essere “partigiani”, avanguardia non della tecnica, scontatamente – per i guru della “rete – imprescindibile, ma in quanto depositari della “prospettiva” storica. Come se non si sapesse che i "filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" (rif. 11° Tesi su Feuerbach).
Non sono gli scandali e la corruzione pubblica e privata a far crollare le Istituzioni, lo Stato perché essi sono parte integrante della “democrazia reale” nella versione eurostatunitense. La post-modernità non s'annuncia o s'avvera con le rivolte delle moltitudini, organizzate anche grazie alla pervasiva presenza dei social media nel conflitto, al di fuori dell'Occidente economicamente avanzato e tecnologicamente dotato, perché essa è dentro la visione fallimentare della “democrazia reale”, frutto avvelenato del rigenerato capitalismo delle multinazionali. Tant'è, dopo la rivolta, la rottura dell'ordine costituito e la deriva liberatrice sono ricondotte a subalternità della “nuova” integralista forma del potere.
Le “crisi” che scompaginano i blocchi sociali, che permettono d'evadere dalle “trincee” del persistente conflitto sociale, devono essere vissute come una “crisi” di sistema che non può più essere ricompresa nella fisiologica, gattopardesca ristrutturazione degli assetti gerarchici nel corpo sociale, non sono contenute dall'ideologia del “riformismo” borghese e della “democrazia reale”. Si è in presenza d'una crisi “ontologica” del sistema capitalistico di vita.
Non basta alludere all'azione del “riformare” i comportamenti delle classi contrapposte o indurre gli individui a camminare rettamente sul filo della moralità pubblica; queste illusioni parlano il linguaggio dell'inganno, creano ulteriori trincee e ghetti che non parlano al mondo reale.
Necessario, viceversa, è riformulare la “novitas”, attualizzarla, renderla possibile, agire come mai in precedenza. Il conflitto deve esprimere un sentimento, drasticamente, irreversibilmente, "antidemocratico" (nel chiaro significato di contrarietà antagonistico-duale alle varianti storiche della "democrazia realizzata") e postresistenziale che sia in grado d'avviare la riorganizzazione politico-organizzativa del proletariato per il suo potere esclusivo e per la costituzione di nuove forme d'istituzionalità autenticamente popolare. Ciò che non è nelle previsioni del capitalismo delle multinazionali – il concreto rinnovamento/ribaltamento della società – è vincente; il prevedibile, suscettibile di repressione e stigmatizzazione culturale, il già visto può solo essere archiviato, soddisfacendo autoreferenzialmente le anime belle della retorica, sociologica, ideale congettura rivoluzionaria.
Stellarmente e storicamente distanti dai velleitarismi insurrezionalisti e dell'insubordinazione di testimonianza è il processo politico-organizzativo del proletariato rivoluzionario. La società capitalistico-borghese, d'illuministica derivazione, è in procinto di fallire; non basta, però, pensare che essa crolli senza colpo ferire. Non basta pensare al fallimento dei postulati egualitari, dell'uguaglianza formale davanti alla legge; tale stagione, troppo subdolentemente lunga, ha prodotto atroci impedimenti per l'emancipazione politico-culturale delle masse subalterne e la liberazione degli uomini dal giogo schiavistico del lavoro sottoposto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, a sua volta causa dell'appropriazione personale della ricchezza socialmente generata.
L’economia borghese considera il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica, il capitalista, utilizza il lavoro di una certa categoria di persone, i salariati, per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che va descritta in termini di sfruttamento e di logica del profitto. La disalienazione dell’uomo dipenderà allora dal superamento della proprietà privata e dalla costruzione del comunismo. L’unico modo di abbattere la società alienante sarà la rivoluzione proletaria. Il lavoro è creatore di civiltà e cultura ed è ciò che rende l’uomo tale. In ogni società vi sono le forze produttive ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono gli uomini che producono ed anche il modo come producono ed i mezzi di cui si servono per produrre (ad esempio: salariati; industria; azienda e macchinari). I rapporti di produzione o di proprietà sono invece le relazioni che si formano tra gli uomini nei processi di produzione e che, in concreto, consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione (la "relazione" capitale / lavoro necessita la contrapposizione tra capitalisti e proletari). Ora, le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società, che è definita dal modo di produrre e distribuire ricchezza, ossia dall’economia. Quindi, l’economia è la struttura o la base della società, sopra cui vi sono molteplici sovrastrutture (diritto, politica, arte, religione, filosofia ecc.), che sono espressioni dipendenti dalla struttura economica. In altri termini, è la struttura economica che determina le condizioni di vita sociale, come le leggi di uno Stato, le forme artistiche, le religioni, le filosofie e non viceversa. E' il materialismo storico a ritenere che le forze motrici della storia sono di natura materiale, cioè socio-economica e non spirituale o astratta.
Le forze produttive, in relazione al progresso tecnologico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo rapporti di proprietà, tendono a voler rimanere statici): ne segue periodicamente una serie di crisi e di conflitti. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, produce, grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ma se sociale è la produzione della ricchezza, sociale dovrebbe essere anche la distribuzione della stessa: il che significa che il capitalismo porta in sé la base del suo superamento.
Il comunismo è lo sbocco delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico e di riproduzione dei rapporti sociali; nella storia ogni formazione economica e sociale è un gradino di un processo che porta al comunismo, società libera dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, inteso come forma di società in cui l’uomo, vincendo l’alienazione, si pone come padrone del proprio destino. "Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" (L’Ideologia tedesca). Il carattere dialettico della teoria rivoluzionaria proletaria si manifesta nella storia, intesa come un processo dominato dalla forza della contraddizione e che mette capo ad un risultato finale che può essere realizzato dalla soggettività organizzata politicamente. La dialettica non è entità spirituale, bensì materiale ovvero economico-sociale e consiste nel possibile, auspicabile passaggio dalla società capitalistica a quella comunista.
Storicamente, vi saranno pochi capitalisti che deterranno tutto il potere, e la maggioranza di proletari sfruttati (rif. all'"economia politica", alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). I proletari sfruttati prendono coscienza di classe e sono, in particolare, i comunisti, "l’avanguardia cosciente ed organizzata del proletariato", che devono guidare la rivoluzione della classe sfruttata. La rivoluzione proletaria abbatte le istituzioni dello Stato borghese ed in primo luogo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cancellando la proprietà privata, eliminando la divisione del lavoro e il dominio di una classe sull’altra, vi sarà una nuova epoca nella storia del mondo. Vi sarà la dittatura del proletariato che, a differenza delle altre dittature, sarà la dittatura della maggioranza degli oppressi sulla minoranza degli oppressori. Essa sarà una fase di transizione e durerà solo fino all’avvento completo del comunismo e cioè quando non vi sarà più lo Stato: lo Stato, infatti, essendo lo strumento di potere della classe sociale più potente, non avrà più ragione di esservi, poiché non vi sarà più divisione tra le classi e sfruttamento di una sull’altra. Altra cosa rispetto al contrasto fra la liberté e le “libertà”, fra l'uguaglianza formale e quella materiale, altra cosa rispetto al tentativo di dare “concretezza” politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”.
La strada verso la servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la libertà ne postula di più dure. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestia da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla rivoluzione proletaria e da quella sono totalmente respinte !
Presupposto fondamentale, lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli U.S.A. e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia destra/sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.
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