sabato 19 marzo 2011

Uomini precari

Precari. L'umanità ed il mondo. Precaria. La condizione umana nel mondo. Incertezza, insicurezza, instabilità. Il peculiare contenuto dell'esistenza collettiva. Il termine, “precario”, deriva dal latino precarìu(m), a significare propriamente “ottenuto con preghiere”, da prex, precis, appunto, “preghiera”. Nel diritto romano, ci riferisce alla concessione di un bene, gratuitamente o con un canone simbolico, con patto di restituzione, in qualsiasi momento e senza necessità di preavviso; ora, indica un comodato del quale non è stato stabilito il termine di scadenza e che prevede, quindi, che il bene dato in godimento, possa essere richiesto in restituzione in qualsiasi momento. Nella legislazione italiana [http://www.camera.it/parlam/leggi/03030l.htm], con provvedimenti ad hoc in materia di occupazione e mercato del lavoro, trasla definendo la condizione della forza-lavoro: una situazione lavorativa temporanea, provvisoria, un rapporto di lavoro senza garanzie di continuità o stabilità, legato solamente a contratti a termine. Avventizio è l'uomo-lavoratore, barcollante nell'incedere nella vita, fragile nella progettazione del futuro, incerto nelle relazioni che instaura con i simili e con il mondo, pericolante l'ambiente nel quale trascorre il suo tempo – perché non gli appartiene e non può decidere -, vacillante la sua pretesa di un mondo migliore, transitorie le conoscenze delle cose, tipiche delle società post-industriali che le rendono a loro volta parziali, a tempo determinato, utili solo a sostenere il PIL. Le conseguenze dell'apocalittico terremoto nipponico non sono affatto ancora da valutare. Sono negli occhi di tutti. Le radiazioni nucleari indotte dalla precarietà dell'ingegneria incorporata nelle centrali, certo misurabili, ma non più arginabili nelle dimensioni effettive del danno, non sono una minaccia, non sono un rischio; sono la verità della vita disegnata dall'espansione planetaria del capitalismo globale. I contraccolpi economici, sono l'unica preoccupazione di chi quel disastro antropologico ed ambientale non ha mai sottoposto a prevenzione. I sacerdoti del PIL si agitano un poco osservando l'indice della Borsa di Tokio mentre subisce un tracollo, trascinandosi dietro i mercati azionari del resto del mondo. Pronti a ripartire, salvi insieme al loro potere. Si ragiona in termini di seconda o terza (dopo il recente sorpasso cinese; Cina “nucleare”, dimentica del terremoto dello Shaanxi nel 1556, di magnitudine 8,3, a causa del quale morirono 830.000 persone) economia del mondo devastata dalle conseguenze del sisma e delle ripercussioni che sta già subendo. Si giunge a considerare il settore economico vitale, quello dell'energia. Un quarto di secolo dopo la tragedia di Chernobyl, la corsa generale alle centrali nucleari pare subire una battuta d'arresto, rappresentazione di un'ipocrita momentanea costernazione, risposta emotiva al montare delle rivolte popolari nel mondo piuttosto che una reale occasione di revisione strutturale del “modello di sviluppo”; ci si chiede: il Giappone è certo più “visibile” mediaticamente del Cile, considerato che già il terremoto di Valdivia, nel 1960, raggiunse magnitudine 9,5, ma perché da allora non è stato preso in considerazione dalla comunità internazionale un altro “modello di sviluppo” che non fosse basato su idrocarburi e nucleare ? Le onde P fanno oscillare la roccia avanti ed indietro, nella stessa direzione di propagazione dell'onda; esse generano “compressioni” e ”rarefazioni” successive nel materiale in cui si propagano. La velocità di propagazione dipende dalle caratteristiche elastiche del materiale e della sua densità; nella crosta terrestre tali onde viaggiano ad una velocità che può raggiungere anche i dieci km al secondo; queste onde sismiche attraversano longitudinalmente tutti i materiali.

Le onde S, onde “secondarie”, muovono la roccia perpendicolarmente alla loro direzione di propagazione; sono “onde di taglio”. Le onde “superficiali” sono generate dal combinarsi delle onde P e delle onde S; sono quelle che provocano i maggiori danni. Nei terremoti, le onde di Rayleigh muovono le particelle secondo orbite ellittiche in un piano verticale lungo la direzione di propagazione, come avviene per le onde in acqua. Led onde di Love, muovono invece le particelle trasversalmente alla direzione di propagazione, ma solo sul piano orizzontale. Onde terrificanti che rendono precaria la vita. Tutto ciò è noto da tempo. In queste ore, Germania e Svizzera bloccano i programmi atomici; gli USA, presi in controtendenza rispetto alle intenzioni di un potenziamento del piano energetico da uranio per emancipare il paese dalla dipendenza da petrolio, pensano ad una revisione del piano originario. Durevoli o meno questi ripensamenti politici non saranno forieri di un'economia che metta al centro le tematiche della diseguale distribuzione planetaria del reddito e dello “sviluppo umano” in grado di rompere radicalmente con la concezione tradizionale dello sviluppo come “crescita economica”, proponendo un paradigma di sviluppo che riguarda non tanto la crescita della ricchezza di una nazione, bensì l'ambiente nel quale le persone possono esprimere in pieno il loro potenziale. Il concetto di ”sviluppo umano” è stato ideato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq insieme a Sir Richard Jolly. Compare per la prima volta nel 1990 all'interno del primo Rapporto sullo Sviluppo Umano dell'Undp, il quale afferma da subito: "questo rapporto si occupa della gente e del modo in cui lo sviluppo ne amplia le scelte. Si occupa di questioni che vanno al di là di concetti quali crescita del PNL, reddito e ricchezza, produzione di beni e accumulazione di capitale. La facoltà di una persona di avere accesso a un reddito rappresenta una di queste possibilità di scelta, ma non la somma totale delle aspirazioni umane" (Human Development Report, 1990). Un processo che si fonda su quattro pilastri specifici: eguaglianza (lo sviluppo umano consiste in un ampliamento delle opportunità a beneficio di ogni essere umano); sostenibilità (il processo di sviluppo deve essere capace di garantire la riproduzione del capitale fisico, umano e ambientale utilizzato); partecipazione (i processi economici, sociali e culturali attivati per promuovere lo sviluppo devono osservare la partecipazione dei beneficiari stessi); produttività (all'interno del processo economico di sviluppo ognuno deve avere la possibilità di partecipare alla di produzione dei redditi e di incrementare la propria produttività). Poiché il concetto consiste nell'ampliamento delle scelte, il fondamento stesso del processo è la libertà. Se non vi è libertà, infatti, non è possibile disporre di scelte. Per questo Amartya Sen afferma: "lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali di cui la gente può godere". L'Indice di Sviluppo umano (HDI, Human Development Index) non è la panacea, ma un discreto inizio, un efficace contrasto alla precarietà, mentre si continua a blaterare di localizzazione dei siti per impianti nucleari di “ultima generazione” e di come trattare le scorie radioattive, poiché le priorità apprezzate dai sacerdoti del PIL continuano ad essere legate al momento particolarmente difficile per il mercato delle fonti d'energia, non per l'umanità, evidentemente. Le reali preoccupazioni dei governanti sono solo l'incremento dei prezzi del petrolio e l'allungamento di ombre oscure sulla sicurezza e sulla continuità di indispensabili prossimi approvvigionamenti, vedendo nei processi di destabilizzazione politica in atto dal Nord Africa al Golfo persico un micidiale bivio fra costi del barile in crescita e gravi pericoli connessi all'alternativa nucleare. A meno che non si apra una prospettiva di conveniente business delle energie rinnovabili. Accogliendo l'invito di Jeremy Rifkin, si potrebbe creare una rete diffusa di piccoli impianti la cui resa sarebbe superiore e i cui costi sarebbero inferiori ad una gran quantità di centrali nucleari. L'incombente pensiero economico incentrato sul PIL, ritarderà le decisioni dei Governi occidentali nel compiere scelte di rinuncia al controllo centralizzato della produzione di energia; banco di prova d'una ipotetica “nuova sensibilità” potrebbe essere il Consiglio europeo del 24 e 25 Marzo prossimi, nel quale Capi di Stato e di Governo dovrebbero formalizzare un'intesa sulla riforma della governance economica, sulla revisione del patto UE di stabilità e crescita e sulla stretta sui debiti pubblici con l'adozione di sanzioni. È prevedibile assistere ad una passerella di smemorati, all'indecoroso spettacolo di tagli a tutela dei margini di profitto, all'indiscussa liturgia del PIL e della precarietà delle genti. Forse si discuterà di guerra ONU - NATO, di quei "giorni difficili" evocati dal Presidente Napolitano Una politica che mai prende decisioni a favore dei popoli è una politica da rottamare. Per evitare la precarietà eterna.


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giovedì 17 marzo 2011

A scuola di rivolta - Franco "Bifo" Berardi all'Accademia di Brera, Milano

A scuola di rivolta - Franco Berardi Bifo | Through Europe from Through Europe on Vimeo.


A scuola di rivolta - Franco "Bifo" Berardi all'Accademia di Brera . . .
"Vorrei parlare di una cosa che tutti sappiamo ma che nessuno sembra avere la spudoratezza di dire: e cioè che il tempo dell'indignazione è passato e chi si indigna già comincia ad annoiarci, comincia a parerci ogni giorno di più l’ultimo difensore di un sistema marcio, di un sistema privo di dignità, privo di sostenibilità, privo di credibilità. Noi non ci dobbiamo più indignare, noi dobbiamo insorgere - I would like to talk about something that everybody knows, but that, so it seems, no one has the boldness to say. That is, that the time for indignation is over. Those who get indignant are already starting to bore us. Increasingly, they seem to us like the last guardians of a rotten system, a system without dignity, sustainability or credibility. We don't have to get indignant anymore, we have to revolt" by Franco "Bifo" Berardi
Giovanni Dursi: "Sinceramente, dubito che l'insurrezione vada "spiegata" ... Non bisogna essere considerati "prezzolati", per affermare che esiste un'analogia di struttura tra l'accumulazione indefinita di ricchezza (materiale ed immateriale), socialmente prodotta, in poche mani e il monadismo intellettuale, per quanto suggestivo, visionario e sollecitatore di trasformazione sociale esso sia ...A proposito di Franco Fortini, è stato detto: "Non stupisce al riguardo la sua opinione sulle neoavanguardie letterarie italiane, che tacciò di estremismo neosurrealista per via del loro uso strumentale (questo sì, cinico) e parodistico del linguaggio, non riconoscendo in loro quella funzione demiurgica che intendevano avere sulla società, e rintracciandovi piuttosto una manifestazione dell’irrazionalismo borghese" ... Non so se la questione meriti attenzione; altresì penso, convintamente, a quanto Fortini ci ha donato a proposito del bistrattato "comunismo": “Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna.” Questo io "so". Tutto il resto è noia. http://www.bolognacittalibera.org/profiles/blogs/antagonismo-di-classe
Ho 53 anni e da 53 anni non strumentalizzo nessuno. In tutte le cose, ci metto la faccia. ne prendo, tante; a volte, mi riesce di darle. Il mio intervento + contenuti link - a leggerlo bene - entra nel merito. Poichè NON parlo di "nomadismo", bensì di "monadismo intellettuale" (improprio riferimento a G. W. Leibniz, lo ammetto), le riflessioni "contro" sono ... e poi non parlo di (ridicoli) complotti, ma di interiorizzazione di ruoli, di pratiche omologate dannose alla "causa", di pervasiva modalità di "intelligere" come fan tutti. Pur apprezzando tanto il "pensiero ribelle", in quanto tale, non concordo affatto sul "come" questo dispendio di energia segnica si traduce in "rivoluzione" ... Insomma, un altro discorso, un altro codice. Una bella citazione da un articolo uscito su L'Espresso del 20 febbraio 1983 di Leonardo Sciascia dice: "Ogni intellettuale è una monade. E c’è la monade con porte e finestre, e c’è la monade chiusa. E nessuno dovrebbe azzardarsi a giudicare che la monade chiusa merita ostracismo e disprezzo mentre da coltivare, da preferire e da privilegiare è la monade aperta. Ci sono monadi spalancate che sono del tutto cieche, e monadi chiuse che vedono tutto”; belle parole, non c'è nulla da eccepire, grazie. Sciascia non è mai stato un "ribelle". “Dateci una organizzazione e capovolgeremo la Russia”.La frase naturalmente è di Lenin, e sta ad indicare quel legame indissolubile che in un marxista dovrebbe sempre esser chiaro, ma anche il contesto profondamente e temporalmente configurato ove si trova ad operare ... Senza la teoria della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive, l'eredità di Marx che ci resta da attualizzare non sarà mai produttiva degli effetti desiderati ... Anche nel '77, ci è sembrata possibile l'utopia (ciò che ancora è possibile realizzare), ma questo è un altro discorso".

lunedì 14 marzo 2011

Antagonismo di classe, questione irrisolta - Lottare per l'esistenza

Nel 1789, la borghesia europea trovò, con la “rivoluzione francese”, la sua forma-Stato. Si organizzò per sottrarsi in modo permanente dal vassallaggio del clero e della nobiltà, ormai oziosa, improduttiva, retriva e violentemente orientata a difendere il “potere”. Sul piano storico, restava la “questione” del “quarto stato”, del “proletariato”: a molti sembrò che la “rivoluzione russa” (bolscevica, sovietica) del 1917 fosse la soluzione tanto attesa. È così è stato, almeno fino al 1924. Con buona pace dei detrattori contemporanei, sempre con il culo al caldo. Va affermato che qualsiasi tipo d'antagonismo sociale la storia abbia prodotto nei decenni successivi, qualsiasi sia stata la modalità conflittuale entro la quale la contraddizione capitale-lavoro (anche quello prodotto dal “cognitariato”) si andava determinando (dalle rivolte novecentesche “occidentali” del '68 e del '77 alle rivolte “euromediterranee”, ancora in cronaca, del secondo decennio del XXI secolo), ancora oggi sono debitori nei confronti di quei sette anni che “sconvolsero il mondo”. La rottura rivoluzionaria leninista e la problematica edificazione del primo Stato socialista in Russia, non significa affatto che il problema dell'orientamento delle lotte di resistenza all'incedere dell'attuale “crisi capitalistica multinazionale” e della prospettiva autenticamente antagonistico-duale alla quale lavorare e dedicarsi, siano efficaci solo se si prendono le distanze da quelle esperienze. A giudicare da alcuni ragionamenti e dalle prassi adottate da certo “antagonismo laboratoriale e/o seminariale", da cenacoli leonardeschi, da certo iperattivo “estremismo” manieristico-intellettuale, la “questione” della contrapposizione materiale e coscienziale delle classi, la "questione" del contropotere proletario, del programma e dell'organizzazione popolare territoriale pare siano da aborrire, da evitare, da ripudiare. La “questione”, viceversa continua a sussistere in tutta la sua portata, laddove ogni “dominio” economico-statuale non sia realmente scardinato opponendo ad esso non “auspici”, “analisi” raffinate sulla composizione di classe, addirittura previsioni catastrofiche sull'esito dell'estensione delle lotte in corso nell'economia-mondo, bensì attualizzando integralmente l'esperienza leninista, sovietica in quelle realizzazioni concrete che, nel sociomorfismo globale che minaccia di negligere l'epoca contemporanea, possono innestarsi per aprire davvero la trasformazione sociale a destini innovativi. C'è chi, cambiando farmaci, ritiene di contrastare meglio la malattia; non è così che si procede sul terreno dell'antagonismo; la malattia era ed è vera; è, infatti, inconcepibile che nel “mondo” cosiddetto dalle “radici cristiane” e nel periodo storico nel quale l'automazione sembra ridurre la qualità del contributo dei singoli uomini alla costruzione delle ricchezza comune, le differenze retributive – spia rivelatrice dell'ingiustizia sociale strutturale – tra i “primi” e gli “ultimi” della comunità globalizzata tendano ad aumentare nell'indifferenza generale o, peggio, nell'ulteriore stratificazione di forme di sfruttamento e di gerarchizzazione – all'interno della stessa area sociale oppressa – tra chi ha un reddito di sopravvivenza e chi non ce l'ha, tra chi è istrutio e chi è considerato "in corpore vili", tra tra maschio e femmina.Molto schematicamente si potrebbe dire che l'antagonismo operai-padroni e la contraddizione capitale-lavoro, siano stati affrontati e “risolti” in tre diversi modi: in U.R.S.S., eliminando l'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, ma – nel prosieguo dell'esperienza leninista - a discapito delle libertà personali riproducendo dal 1924 in poi atroci disuguaglianze; in Germania, con la sperimentazione del “modello renano” capace di socialdemocratizzare la conflittualità sociale (“gradualismo”, “riformismo”, istituzionalizzazione del movimento operaio) rendendo eterno il dominio di classe e generando una “mediazione politica” (ceto politico-partitico-sindacale) per spegnere l'autonomia politica dei soggetti sociali subalterni; negli U.S.A., con la “partecipazione” degli operai agli utili dell'impresa abdicando ad ogni “diritto” e lasciando “governare” il proletariato dalla “mano” ben visibile del “mercato”. In Italia è stato valorizzato un modello conflittuale (delega negoziale e “rappresentanze”) che ha deresponsabilizzato tutti: lotta di classe permanente, ma permanentemente frustrata che ha visto solo la leadership politico-sindacale di “sinistra”, fino all'attualità, sistemarsi nei “valori” ufficialmente contestati e rivendicare, non più ambiguamente, ricette di fuoriuscita dalla “crisi” condivise con le controparti confidustriali e governative (“promuovere” la produttività del lavoro operaio, tagli alle spese sociali, sostegno all'impresa per sostenere la “domanda”). Questo modello – tendenzialmente affermatosi come aconflittuale – ha prodotto immorali rendite di posizione dei rappresentanti delle classe operaia, lasciando ai margini del “potere” la stessa classe che avrebbero dovuto difendere e valorizzare. I lavoratori non hanno ereditato né “i mezzi di produzione” come nell'organizzazione sociale della produzione comunista, né sono stati responsabilizzati e coinvolti nella gestione “riformista” dell'economia nazionale, come previsto dal “modello renano”, e neanche hanno potuto beneficiare di alcuna “partecipazione” agli utili dell'impresa, anzi il caso FIAT Pomigliano, Mirafiori e SEVEL dimostrano sfregio di “diritti acquisiti” e introduzione del neoschiavismo. Questo “modello” ideologico” fondato sul potenziale antagonistico deglla classe operaia svilito, depresso e disperso (depotenziamento iniziato con l'applicazione della cosidetta “democrazia progessiva” di divittoriana, togliattiana memoria), non ha dato agli operai né più potere contrattuale e/o decisionale dentro l'impresa, né semplicemente dignitosi salari, né ha ridotto le differenze tra management aziendale e condizione materiale d'esistenza dei lavoratori, tantomeno ha portato pezzi di “capitalismo azionario” nelle loro tasche come da “sinistra” alcuni auspicano da tempo desiderando continuare a frapporsi tra capitalisti e lavoratori, tra Stato e lavoratori. Era ed è difficile, per il proletariato, sentirsi sulla “stessa barca”. C'è solo una sorta di spoil system – dal P. C. I. gramsciano-togliattiano a S. E. L. di Vendola -, questo scandaloso meccanismo che privilegia i più servili di ogni schieramento, lasciando fuori i meno capaci di stare con il cappello in mano, quelle compagne e compagni in grado di aggredire alla radice la questione dell'antagonismo: l'irriducibilità degli interessi di parte proletaria con quelli del capitalismo multinazionale. Irriducibilità che si esercita anche sul versante sapere-potere: liberandosi di quell'angosciante rappresentazione consistente nell'analogia di struttura tra accumulazione ed espropriazione di ricchezza da un lato ed incremento indefinito di "sapere" dall'altro, inevitabilmente introiettata anche nelle "nostre fila". Gli operai hanno da tempo constatato che nulla della propria condizione potrà migliorare anche nell'eventualità d'una mera vittoria elettorale del “centrosinistra” utile solo a mandare i tessereati di lungo corso, la propria incravattata lobby dirigente, a dirigere le Poste, le Ferrovie, ASL ed altri Enti propaggini del fiorente sottobosco governativo. È questa la risposta italiana alla “questione operaia” ? Di fatto, le “sinistre” lavorano per perpetuare questa situazione di stallo nella trasformazione possibile della società italiana, dando ragione all'ad FIAT Marchione quando richiede un nuovo “partto sociale” per rideterminare il comando capitalista sulla forza lavoro. Questo “patto” potrebbe servire anche per irrobustire la presenza della cooperazione nella società italiana (articolo 45 delle Costituzione); se invece deve servire solo per eliminare la “lotta” e consentire ai “padroni” di diventare sempre più ricchi e lasciare gli ultimi al loro “posto”, sarà difficile partecipare autolesionisticamente al massacro sociale perpetuato dall'impresa.
DOCUMENTO / PROPOSTA
Piattaforma per la costruzione dei Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva1. Se le responsabilità del massacro sociale, causato dall'irreversibile crisi economico-finanziaria del modo di produzione capitalista, sono chiare, altrettanto evidenti sono le colpevoli responsabilità del quadro politico dirigente delle istituzioni rappresentative del movimento operaio (partiti delle “sinistre” e sindacato) circa la difesa dell'autonomia politico-organizzativa dell'antagonismo sociale . In Italia, il “collaborazionismo” dei dirigenti delle “sinistre” politiche e sindacali (a diversi livelli di incarichi, locali e/o nazionali, svolti) con le strategie ristrutturative del “comando” capitalista – dalla disdetta della “scala mobile” alla Legge delega di revisione della Legge 146/'90 che introduce nuovi limiti al diritto di sciopero (diritto consacrato nell'art. 40 della Costituzione) e di libertà sindacali – è dimostrato dalla voluta liquidazione di ogni rappresentanza della conflittualità, ormai inesistente in Parlamento, per meglio imporre relazioni sociali e politiche consolidando il reciproco riconoscimento negoziale tra frazioni borghesi in lotta (autoritarismo affaristico-telecratico tout court o regime pseudo liberale-liberistico, queste le opzioni in campo) per il predominio statuale e l'oscuramento delle istanze collettive di difesa democratica nella ridistribuzione egualitaria del reddito . . . . .
Tutte le ipotesi e le pratiche politico-organizzative messe in cantiere (volendo limitarsi a considerare solo il periodo dalll'89 ad oggi), sono state fallimentari per gli interessi delle classi subalterne. Gli stessi sciagurati protagonisti ed interpreti degli ultimi decenni della devastazione progettuale e della stessa mobilitazione delle coscienze, si ripropongono ora come “salvatori” avanzando ricette avvelenate (tutti uniti al PD) ed inventandosi conduttori di reality politici sulla pelle delle masse lavoratrici, dei disoccupati, degli sfruttati. Nessuno di costoro può più permettersi – senza pagare dazio – di anteporre proprie concezioni teorico-politiche al reale movimento sociale di resistenza all'incedere della crisi, nessuno è più legittimato a rappresentare moltitudini non disposte a delegare ulteriormente. Pertanto, qualsiasi ripresa della lotta e della partecipazione politica deve individuare il massimo di contraddizione nell'assetto della “rappresentanza” e della “rappresentatività” operando una rottura teorico-politica e di prassi, liberando una soggettività politica da ogni “appartenenza” - anche se residuale - nel “noi sociale” in grado di comunicare nuove forme istituzionali della “domanda popolare” e contenuti propri, oggetti specifici delle “politiche sociali” che si vogliono perseguire. Il punto più alto delle contraddizioni economico-sociali del capitale è l'annientamento delle “socialità altre”, non “collaborazioniste”. Il punto più alto di risposta allo stato presente di cose è “fare comunità” - costruire il “noi sociale” - tramite capacità di autovalorizzazione (conoscenze, professionalità, autoimprenditorialità, sostenibilità, potere) di progetto e di comunicazione sociale . . . . .
La realtà non deve diventare la sua rappresentazione mediale, come anche significative esperienze recenti (neocivismo) hanno fatto. L'irruzione della realtà nella lotta politica dipende dalla volontà del “noi sociale” di distruggere il paradigma della rappresentazione partitico-mediale delle contraddizioni sociali. “Noi” dobbiamo rappresentare personalmente noi stessi, non un brand, un veicolo di comunicazione nel mercato della politica o della “cultura”. Rompere questo dispositivo di potere (“delega” e “rappresentanza”) evitando di essere ancora sudditi, vuol dire farsi carico in prima persona dell'agire politico e sviluppare non solo pensiero, ma anche pratiche di liberazione. La precondizione è costituire un “luogo politico” - Comitato popolare di resistenza per la cittadinanza attiva (CPRCA) – che nel territorio accolga, spogliati di ogni appartenenza partitica, sindacale, associativa, ogni individuo, ogni sincera compagna, ogni onesto compagno, disponibili tutte e tutti a proporre, organizzare e lavorare per un sistema neoistituzionale che dal basso possa affrontare e risolvere i problemi della “cittadinanza” conferendo autonomia e responsabilità amministrativa nuove ai territori sociali “partecipati”, imponendo socialmente l'agenda politica. I territori regionali, da provincia a provincia, sono lo scenario entro il quale muoverci a fronte d'una socialità atonomisticamente frammentata e zone specializzate per funzioni. Costruire i CPRCA per ogni provincia può significare costruire un proprio “frame” capace di ricomporre politicamente il territorio regionale aggredendone i santuari del potere che da questa parcellizzazione egolatrica ne trae beneficio al fine di rideterminare forme di dominio. Sottrarsi ad ogni gioco politico eterodiretto dai “soliti noti” (partiti e personale politico ben retribuito) e vivere politicamente ed esclusivamente nello spazio/tempo della comunità in cui si riesce a giocare la propria “sottrazione” ed estraneità. Costruire nuove istituzionalità che si sviluppino nel tempo divenendo egemoni nella dimensione popolare delle forme di vita, esigendo “beni comuni” in ogni città del territorio regionale . . . . [http://cprca2010.ning.com/]
SIETE TUTTI INVITATI AD AVVIARE UN DISCORSO PUBBLICO SU QUESTI TEMI
“... Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente ...” - Tratto da “Ho fatto un sogno: Vivere il socialismo dell'armonia” di Zygmunt Bauman
NB: Il testo può essere arricchito, emendato, integrato, sviluppato ...
Primi firmatari, a suo tempo proponenti: Giovanni Dursi, Oscar Marchisio

martedì 8 marzo 2011

8 MARZO: FINE ALLE VIOLENZE SESSUALI


8 MARZO: ANCHE IN ITALIA LA CAMPAGNA DI AMNESTY INTERNATIONAL PER CHIEDERE AL GOVERNO DEL NICARAGUA DI PORRE FINE ALLA VIOLENZA SESSUALE. OLTRE 14.000 STUPRI IN 10 ANNI - In occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale delle donne, la Sezione Italiana di Amnesty International promuove in Italia la campagna mondiale dell’organizzazione per i diritti umani per chiedere al governo del Nicaragua di porre fine alla violenza sessuale, dilagante nel paese. Tra il 1998 e il 2008, 14.337 donne e ragazze hanno denunciato di aver subito violenza sessuale.In quasi la meta’ dei casi, si trattava di ragazze al di sotto dei 17 anni di eta’. La maggior parte delle violenze e degli abusi avviene in ambito familiare. Nonostante l’evidente gravita’ del problema, il governo del Nicaragua non si sta ancora occupando di questa emergenza nascosta dei diritti umani. Nel suo appello al governo del presidente Daniel Ortega, Amnesty International chiede di prevenire la violenza sessuale, proteggere le sopravvissute e garantire giustizia e risarcimento alle giovani vittime di stupri. Nonostante i dati impressionanti, l’organizzazione per i diritti umani sottolinea come in Nicaragua, cosi’ come in altri paesi dell’America Latina, lo stupro e gli abusi sessuali siano reati poco denunciati, soprattutto se coinvolgono giovani ragazze e se avvengono in famiglia. Il sistema giudiziario non riesce a proteggere le ragazze che hanno denunciato abusi sessuali o stupri alla polizia e molte di loro restano intrappolate in situazioni di violenza senza una via d'uscita ne’ giustizia. Anche nei casi in cui le inchieste vadano avanti, spesso chi ha sporto denuncia abbandona il processo poiche’ troppo traumatico o costoso.In alcuni casi, i presunti colpevoli sono rilasciati su cauzione senza che vi siano adeguati controlli o supervisioni, con enormi rischi di ritorsioni e vendette sulle donne che hanno subito violenza sessuale. Le giovani sopravvissute agli stupri o agli abusi sessuali ricevuto uno scarso, se non nullo, sostegno dal governo per superare i traumi e ricostruire le loro vite. Le piu’ fortunate trovano assistenza psicologica o legale in strutture indipendenti, ma cio’ non e’ abbastanza per garantire aiuto a tutte quelle che ne hanno bisogno. Nel 2008, inoltre, e’ entrata in vigore una legge che considera reato l’aborto in ogni sua forma e in qualsiasi circostanza. Questo significa che le ragazze che restano incinte a seguito di uno stupro sono lasciate senza possibilita’ di scelta. Per promuovere l’appello al governo del Nicaragua, la Sezione Italiana di Amnesty International ha anche prodotto il cortometraggio ‘Fermiamo la violenza sessuale contro donne e ragazze’, in cui l’attrice Maria Scorza legge alcune testimonianze di donne e ragazze che hanno trovato il coraggio di denunciare gli atti di violenza subiti. Roma, 7 marzo 2011Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361 - 348-6974361 - e-mail: press@amnesty.it
Leggi tutti gli altri comunicati stampa all’indirizzo:
http://www.amnesty.it/archivio-tutte-news-comunicati.html
http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/3008
http://www.amnesty.it/donne_nicaragua

lunedì 7 marzo 2011

"Nuova Panda schiavi in mano"


Il libro contiene i primi risultati di un lavoro di conricerca che ha coinvolto lavoratori e rappresentati sindacali dello stabilimento Fiat Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco. Tale progetto è nato nell’ambito di un gruppo di studio (Gruppo Lavoro) costituitosi presso il Centro per la riforma dello Stato (Crs), composto da studiosi con provenienza disciplinare e professionale diversa, precari della ricerca impegnati nel selvaggio mercato delle collaborazioni all’interno dell’economia della conoscenza. All’attività di ricerca del gruppo hanno contribuito a vario titolo figure importanti tra cui il filosofo Mario Tronti (Presidente del Crs) e l’economista Alfredo Saad Fhilo, professore di economia politica dello sviluppo presso la «School of Oriental and African Studies» (Soas) dell’Università di Londra."Nuova Panda schiavi in mano" Presentazione del volume
MERCOLEDì 9 MARZO ORE 17 SALA MERCEDE, Via della Mercede 55 R O M A
Presiede MARIO TRONTI Introduzione MICHELA CERIMELE
Intervengono MAURIZIO LANDINI ALFREDO REICHLIN NICHI VENDOLA
http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article223
http://www.centroriformastato.org/crs2/IMG/pdf/la-catena-spezzata-2.pdf

Date: di lotte e di memorie - Facciamo sul serio uno sciopero generale che pesi nella vita sociale e politica dell’Italia

Poche segnalazioni sul blog http://blog.libero.it/VoceProletaria nelle quali, tra vari altri report ed articoli, abbiamo voluto privilegiare, per il momento, due date a noi molto vicine: l'8 Marzo, Giornata Internazionale di Lotta delle Donne; e l'11 Marzo, giornata carica di significato per i militanti comunisti bolognesi per l'uccisione di Francesco Lorusso. Su queste due date abbiamo „caricato“ un po' di materiale di diversa origine e alcuni appuntamenti ad esse relative. La data che, tuttavia, risulterà più importante per tutte e tutti è un po' più spostata nel tempo, al prossimo 6 Maggio. E' infatti quella la data che – alleluja! - la Camusso ha scelto per l'indizione dello Sciopero Generale della CGIL. Crediamo sia una scelta ai limiti della provocazione per i lavoratori, soprattutto per quelle centinaia di migliaia che, dallo scorso 16 Ottobre, sono scesi più volte in piazza in manifestazione nonché in tanti scioperi di categoria, invocando appunto lo Sciopero Generale in tempi brevi. La Camusso, invece, fedele al PD ed alla Confindustria, ha voluto scongiurare imbarazzanti (per lei e la sua cricca...) „coincidenze“ con momenti significativi di lotta (14 e 22 Dicembre scorsi; il referendum di Mirafiori; lo sciopero della FIOM del 28 Gennaio...) ed approda ora ad una giornata che è prossima soltanto alla scadenza elettorale per le amministrative di alcune grandi città: Milano, Torino, Napoli, Bologna più altre minori. Molto probabilmente avrà pensato di trasformare la pressione sempre più crescente delle federazioni di categoria e di varie Camere del Lavoro, che da tempo spingono con insistenza per lo Sciopero Generale, in un momento di volano per una possibile affermazione del PD in dette elezioni. Un giochino stupido (e, a parer nostro, pure inutile: il PD è capace di farsi male anche con il soccorso della CGIL...) che svela l'interesse ed il referente di questa dirigenza CGIL. Ad ogni modo, sarebbe ancor più stupido ignorare e sottovalutare il potenziale di questa data e, soprattutto, la possibilità di estendere e generalizzare la portata di questo Sciopero.La Camusso lo ha proclamato di sole 4 ore; lo dovremo far diventare di tutta la giornata! La Camusso lo vuol circoscrivere ai „suoi“ iscritti; lo dobbiamo far diventare di tutti i lavoratori, precari e „garantiti“, e di tutte le sigle sindacali conflittuali. Un primo segnale importante è già arrivato dalla disdetta della data del 25 Marzo, inizialmente indetto da FLC e Funzione Pubblica CGIL, peer confluire nella data del 6 Maggio, e già si sa che alcune categorie, così come intere strutture territoriali, estenderanno la durata a tutta la giornata lavorativa, superando il limite delle 4 ore. Noi, che siamo anche più ottimisti e volenterosi, intendiamo estenderlo e generalizzarlo anche alle associazioni ed agli ambiti sociali che negli ultimi mesi hanno manifestato la loro opposizione ai piani s-fascisti di questo Governo, pur senza dimenticare che il loro ed il nostro nemico non è il solo Berlusconi, ma anche Confindustria e, perché no, il sistema baronale rappresentato dalla CRUI. Percorsi di lotta che si sono espressi contro lo sfascio della Scuola e dell'Università pubblica; contro la mancata ricostruzione di L'Aquila e la relativa speculazione che ntorno ad essa si è sviluppata; per il mantenimento in mano pubblica dell'acqua, bene primario e comune; e tante altre espressioni di malessere sociale possono e devono finalmente intrecciarsi e ritrovarsi. In piazza, tutti insieme! Il 6 Maggio!
Per il momento ci fermiamo qui, e lasciamo spazio ad un comunicato di Giorgio Cremaschi sempre relativo al 6 Maggio, che qui di seguito riproduciamo. Naturalmente ritorneremo sull'argomento, ma fin da ora poniamo qui un interrogativo: cosa c'entrano UIL e CISL col prossimo Primo Maggio? Anche su questa data intendiamo parlare... Da Proletaria Vox
A seguire: Dalla lettura di Gramsci, un importante contributo per l'azione sindacale dei comunisti. Da leggere assolutamente!
I comunisti e il Sindacato di Classe. Di Comunisti Uniti.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9955544.html
Un appuntamento vissuto in modi molto diversi, eppure legati dallo stesso filo. 8 Marzo con le donne partigiane. Di Donne ANPI Bologna.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9955479.html
8 Marzo di lotta a Trento. Di Lavoratrici ORVEA.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9955508.html
8 Marzo, giornata internazionale di lotta. Di UdB/CUB.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9962147.html
8 Marzo di tanti anni fa. Di J.V.Dzugasvilj Stalin.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9962085.html
La memoria di Bologna...
11 Marzo, Bologna, Francesco Lorusso. Di Proletaria Vox.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9962042.html
Continua la deriva neoconcertativa di questa sigla...
La firma meschina di USB in CAI. Di CUB Trasporti.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9962066.html
Affari internazionali, letture „di classe“.
Dal Wisconsin al Nord Africa...Di Valerio Evangelisti.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/9962514.html
Uno sciopero generale chiaro e forte contro Governo e Confindustria
di Giorgio Cremaschi, 03.03.2011
La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha annunciato che lo sciopero generale è convocato per il 6 maggio. E’ la peggiore delle decisioni migliori.Lo sciopero generale è stato chiesto da mesi e finalmente si fa. Ma la data è troppo in là rispetto alle urgenze e ai problemi e, soprattutto, non sono ancora chiare la dimensione e i contenuti dello sciopero. Sarebbe sbagliato uno sciopero di 4 ore indirizzato solo contro il Governo. Occorre uno sciopero generale di 8 ore che coinvolga tutto il mondo del lavoro, compreso quello precario, e che sia indirizzato anche esplicitamente contro la Confindustria e il sistema delle imprese che, guidato dalla Fiat, sta distruggendo diritti e sistema contrattuale.
I fatti parlano chiaro. La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha riaperto lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, rivendicando per le imprese la “flessibilità in uscita”, visto che quella in entrata è anche troppa. C’è del metodo in tutta questa follia. La rivendicazione della libertà di licenziamento mette il suggello finale a un’aggressione al contratto, ai diritti, allo Statuto dei lavoratori, alla stessa Costituzione, che ha avuto un’accelerazione con l’aggressione di Marchionne ai diritti dei lavoratori Fiat.
D’altra parte è evidente che se si vuol far pagare tutti i costi della crisi ai lavoratori e se la crisi continua, al di là delle chiacchiere, l’attacco ai diritti del lavoro, al salario, alle libertà, assieme a una nuova offensiva sulle privatizzazioni e contro lo stato sociale, sono l’unica strada per fare soldi.
Il punto è che questa linea reazionaria del padronato italiano è oggi il cemento di un blocco di potere politico e sindacale che governa il paese. Spesso si dice che non c’è più la concertazione, non è vero, semplicemente il blocco concertativo è oggi formato dal governo, da una serie di poteri forti, dalla Confindustria, dalla Cisl e dalla Uil. Da esso è esclusa l’opposizione politica, che non se ne è ancora accorta, e la Cgil, che spera ancora che non sia così.
Eppure l’ultimo contratto del commercio nel quale le aziende hanno volutamente inserito norme come il recepimento del collegato lavoro, che sembrano fatte apposta per impedire in ogni caso anche alla più moderata delle Cgil la firma, quest’ultimo accordo separato dovrebbe dimostrare che il blocco politico, economico e sindacale che governa oggi l’Italia è intenzionato a continuare nell’emarginazione della Cgil e di tutto ciò che in qualche modo non rientra nei suoi disegni. Pare, a questo punto, che la segreteria della Cgil abbia finalmente superato le riserve e gli indugi e si appresti ad annunciare la fatidica data dello sciopero generale. Se così sarà, sarà un fatto positivo, che prende atto della realtà. Il più grande sindacato italiano, proclamando lo sciopero generale, si trova però di fronte a due scelte di fondo. La prima è che è evidente che questo sciopero non potrà essere indirizzato solo contro Berlusconi, ma anche contro la Confindustria e inevitabilmente contro il blocco di potere di cui Cisl e Uil fanno parte. Sarà quindi uno sciopero che dovrà costruire uno schieramento alternativo a quello che oggi costruisce gli accordi separati, il collegato lavoro, le deroghe contrattuali, la negazione delle libertà sindacali e dei diritti individuali delle lavoratrici e dei lavoratori. Sarà uno sciopero sindacale ma anche politico, nel senso che è anche politico il blocco di potere contro cui si scende in lotta. Dovrà anche però essere uno sciopero in grado di mostrare la forza di tutto quel mondo del lavoro, di tutto quel paese, che oggi si oppone ai disegni autoritari di Berlusconi, Marchionne e del loro blocco di potere. Dovrà quindi essere uno sciopero fatto per fermare il paese, chiaro nelle controparti e altrettanto nelle intenzioni di riuscita. Non quindi uno sciopero di 4 ore o simili, per qualche manifestazione, ma uno sciopero completo, di tutta la giornata lavorativa, di tutte le categorie, che ci provi davvero a far sentire il peso del lavoro che non ci sta nella vita politica italiana. Se questa sarà la scelta lo sciopero generale si incontrerà inevitabilmente con tutti i movimenti di lotta, che in questi mesi hanno risposto all’attacco ai diritti. Dagli studenti, ai movimenti sociali, a quelli civili e democratici. Parlerà necessariamente alla mobilitazione eccezionale delle donne contro l’attacco alla dignità della persona. Dovrà quindi essere uno sciopero generale forte e aperto, in grado di proporre un blocco sociale e civile alternativo al blocco politico ed economico che governa il disastro attuale dell’Italia. Su questo bisogna insistere ora, anche di fronte a incertezze, ambiguità e minimizzazioni con cui si vuol già derubricare un’eventuale decisione della Cgil. Facciamo sul serio uno sciopero generale che pesi nella vita sociale e politica dell’Italia.

Controinformazione sull'informazione: Usa, la nuova propaganda

La consapevoleza dell'importanza dei media, seppur sottovalutata dalle popolazioni, è presente tra chi "governa il mondo". Scritto da Luca Galassi Sabato 05 Marzo 2011 - Hillary Clinton: nuovi finanziamenti per i media che promuovono all'estero gli interessi della nazione - Gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra dell'informazione, e di fronte all'emergere di nuovi media in Russia, Cina e Medio Oriente, il monopolio americano è in crisi. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha lanciato l'allarme di fronte alla Commissione Affari Esteri del Senato, evidenziando la necessità di nuovi finanziamenti per 'tornare a giocare la partita'.La partita si gioca in casa, dove Hillary Clinton sta cercando di evitare i tagli del 16 percento al suo ministero, rendendo anche conto ai senatori dei 79 miliardi di dollari del budget 2012 destinati a 'diplomazia e sviluppo'. Dietro questa cifra si celano finanziamenti a vario titolo, compresi quelli per la Bbg (Broadcasting Board of Governors), agenzia responsabile di tutti i media non-militari sponsorizzati dal governo Usa. "C'è una guerra dell'informazione, e noi la stiamo perdendo - ha detto il Segretario di Stato alla Commissione -, mentre al Jazeera la sta vincendo. I cinesi hanno aperto un network televisivo multi-lingue globale, i russi hanno creato un network in inglese. L'ho visto in diversi Paesi, ed è stato molto istruttivo".
Russia Today, canale televisivo russo citato da Hillary Clinton, su YouTube conta 300 milioni di visite, la Cnn solo tre. Dalla caduta del Muro, anche la Bbc ha assistito a un progressivo declino, a spese di canali in lingua araba che diffondono un'immagine degli Stati Uniti che non corrisponde più a quella voluta dalla diplomazia e dalla propaganda. L'esistenza di nuovi punti di vista danneggia profondamente un Paese che crede che il suo punto di vista sia l'unico possibile. Da qui nuovi finanziamenti e un nuovo ruolo per il Bbg, di cui è membro onorario, per legge, la stessa Hillary Clinton.
L'agenzia controlla media come Radio Free Europe, Voice of America e Radio Martì (sede a Miami ma audience prevalentemente cubana), oltre ad altri canali e stazioni in tutto il mondo. Il suo compito è quello di "promuovere e sostenere la libertà e la democrazia diffondendo notizie accurate e obiettive sugli Stati Uniti e sul mondo". Erede dell'Usia (United States Information Agency), l'ente per la 'diplomazia pubblica' concepito per 'comprendere, informare e influenzare il pubblico straniero promuovendo l'interesse nazionale', al Bgg andranno risorse fino ad oggi spese - o spese male - dal Dipartimento di Stato che, a causa delle relazioni ufficiali con i governi stranieri, è stato criticato per le deboli iniziative in tal senso. Informazione e tecnologia dell'informazione sono alla base della sua attività. In un rapporto prodotto dalla Commissione affari esteri del Senato i! l Dipartimento di Stato è criticato per aver gestito in pessimo modo i cinquanta milioni di dollari destinati a software per combattere la censura su internet. Solo venti ne sono stati spesi, e di questi una misera somma è andata a uno dei programmi più ambiziosi, l'Internet Censorship Circumvention Technology (Icct).Proprio la delicatezza delle relazioni con la Cina avrebbe provocato i ritardi nel finanziamento al progetto Icct, sviluppato, tra l'altro, da due compagnie statunitensi fondate da membri del Falungong (movimento spirituale bandito in Cina), per permettere ai suoi seguaci di forzare il firewall della censura. Tali ritardi avrebbero consentito a Pechino di stringere la morsa contro le opposizioni. Il rapporto, citato la scorsa settimana dal Washington Post, riferisce della necessità di investire la Bbg di un ruolo primario, 'lavorando quotidianamente affinché i programmi di radio, internet e televisione del suo network possano essere ricevuti dagli utenti di Paesi che cercano di bloccarli, danneggiarli o metterli fuorilegge'.
Durante la sua audizione di fronte alla Commissione Affari Esteri del Senato, Hillary Clinton ha ricordato di aver incontrato un generale afgano le cui opinioni sugli americani si sono formate interamente guardando show televisivi come Baywatch o il campionato di wrestling. "Le uniche cose che credeva di sapere sugli americani erano che tutti gli uomini fanno wrestling e tutte le donne vanno in giro in bikini".
Da megachip.info - di Luca Galassi
Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/27200/Usa,+la+nuova+propaganda

Un altro mondo possibile, senza energia nucleare

Dopo l’intervista a La Stampa di Umberto Veronesi («è l’energia del futuro»), i membri del comitato scientifico dell’Isde contestano le tesi dell’oncologo. «Da lui omissioni e superficialità». Articolo di Ernesto Burgio, Angelo Baracca - L’intervista rilasciata da Umberto Veronesi a La Stampa lascia allibiti per la sicumera con cui il professore si lascia andare ad affermazioni prive di supporto scientifico, rischiando di banalizzare una tematica estremamente complessa e di condizionare con la propria “autorità” l’opinione pubblica, sempre più costretta a subire l’offensiva mediatica della potente lobby nuclearista. Non ci è possibile ribattere in poche righe e in questa sede la lunga serie di affermazioni discutibili messe in campo dal professore: ci limiteremo a contestare alcuni passaggi di quella che appare come una superficiale apologia della fonte energetica in assoluto più dispendiosa e pericolosa per la salute umana.Una fonte che non alleggerirebbe in alcun modo la dipendenza dal petrolio, poiché oggi solo il 5% dell’energia elettrica è generata con questa fonte, che è usata per la maggior parte nei trasporti e nell’industria e non può essere sostituita dal nucleare, con cui si produce solo energia elettrica. Tanto più che negli ultimi 10 anni, in Italia, è stata installata nuova potenza elettrica equivalente a ben 12-15 reattori nucleari (ed ulteriore potenza è in attesa di autorizzazione), senza che questo abbia portato alcun beneficio agli utenti: perché produrre elettricità nel nostro paese è oggi soltanto business e l’eventuale “ritorno” al nucleare sarebbe un enorme business di pochi a danni di molti. è inoltre probabile che l’uranio si esaurirà prima dei combustibili fossili, ai ritmi di consumo attuali (per cui è assurdo parlare di ! centrali in grado di operare per 60 anni): figuriamoci poi se vi fosse un rilancio del nucleare.Ma per fortuna anche questa è una colossale favola. Basterebbe leggere i più autorevoli giornali internazionali per sapere che la strombazzata rinascita nucleare non esiste, a causa dei costi fuori controllo, dei problemi, delle incognite, dei ritardi nei tempi di costruzione; che gli Usa hanno in costruzione un solo reattore (un secondo è stato cancellato), mentre in Europa gli unici due in costruzione (in Finlandia e in Francia) procedono tra mille intoppi, che hanno già causato un raddoppio dei costi e dei tempi.
Il fosco avvenire che Veronesi dipinge in assenza del nucleare non impensierisce Paesi come l’Austria, la Danimarca ed altri, che escludono il ricorso a questa fonte e puntano all’autosufficienza energetica con le fonti rinnovabili (quelle fonti che L’Europa si prodiga a sviluppare mentre il nostro Governo, con grande e più che sospetta puntualità, si prodiga a disincentivare). è invece noto a tutti gli esperti che tanto la Germania che la Francia, optano per prolungare la vita operativa dei reattori esistenti: una scelta estremamente rischiosa, perché l’invecchiamento aumenta le probabilità di incidenti (è stata segnalata un’anomalia all’impianto d’emergenza in ben 34 reattori francesi, in funzione da 30 anni, che potrebbe rendere insufficiente il raffreddamento in caso di incidente, e causare fino alla fusione del nocciolo!) anche perché il bombardamento neutr! onico mina le strutture.
E infatti gli incidenti alle centrali sono in aumento in tutti i paesi (altro dato che il Professore evidentemente non conosce o trascura): al punto che persino in Francia, che rappresenta nell’immaginario collettivo il paese del “grande consenso” al nucleare civile e militare, stanno crescendo i dubbi e le ansie, dopo che alcuni sevizi televisivi sono riusciti a divulgare i dati concernenti il quadro preoccupante della contaminazione radioattiva del territorio.Ma l’aspetto più disarmante è la leggerezza con cui colui che il redattore di La Stampa definisce il più famoso medico d’Italia considera gli effetti biologico-sanitari della radioattività. Un incidente nucleare grave è in grado di contaminare un intero emisfero: eppure Veronesi “liquida” con poche battute persino la catastrofe di Chernobyl, così affiancando quei “nuclearisti” che a fronte di una realtà drammatica, costituita da città fantasma e da migliaia di casi accertati di tumori infantili a carico di tiroide e midollo, sono tuttora capaci di sostenere che le vittime del disastro sarebbero poche decine.
Dimenticando che scienziati e ricercatori di chiara fama, che hanno dedicato la loro vita a documentare gli effetti di una nube radioattiva che ha colpito non solo URSS, Ucraina e Bielorussia, ma l’Europa intera, parlano di un milione di vittime! Come può un oncologo accettare di dirigere un’Agenzia per la Sicurezza del Nucleare, ignorando o trascurando questi studi? Come può il professor Veronesi non sapere che già negli anni ’90 solo in Bielorussia e Ucraina i casi accertati di carcinoma infantile della tiroide furono quasi 1000 (con un incremento di 30 volte e addirittura di 100 volte nelle zone più vicine a Chernobyl). Come può non sapere che da alcuni anni aumentano, in molti altri Paesi europei, le segnalazioni di incrementi di leucemie infantili direttamente correlate alla dispersione di isotopi radioattivi del cesio che permangono in ambiente e catene alimentari per decenni?
Come può un oncologo di chiara fama non sapere che alcuni ricercatori russi hanno pubblicato, su riviste prestigiose come Science e Nature, i risultati di studi e ricerche che dimostrano come i figli dei cosiddetti “liquidatori” di Chernobyl, siano portatori di alti tassi di mutazioni: un dato che può chiarire non soltanto i dati, lungamente contestati, concernenti l’incremento di leucemie in bambini nati da genitori residenti nei dintorni di impianti nucleari inglesi, ma anche e soprattutto i risultati allarmanti di un recente studio tedesco, noto con l’acronimo KIKK (Kinderkrebs in der Umgebung von KernKraftwerken, Cancro infantile nei dintorni delle centrali nucleari), che ha descritto 1592 casi di tumori solidi (molti dei quali di origine embrionale) e 593 leucemie infantili in bambini di età inferiore a 5 anni, residenti negli anni 1980-2003 nei dintorni delle 16 centrali tedesche.
Tanto più che importanti studi scientifici documentano il rilascio di isotopi radioattivi (trizio, cripto, ecc) in ambiente e catene alimentari durante il normale funzionamento delle centrali e che l’introduzione di materiale radioattivo per via alimentare in piccole dosi quotidiane, rappresenta con ogni probabilità la modalità di esposizione più pericolosa, anche perché collettiva e difficilmente valutabile. E infine il “banale” problema dei residui nucleari, che costa ancora agli italiani 400 milioni di euro l’anno (almeno 10 miliardi dal 1987, e chissà per quanti anni ancora). Come può il professore non sapere che nessun Paese al mondo ha ancora trovato una soluzione per il problema delle scorie nucleari e che depositi geologici sicuri esistono solo nell’immaginazione di alcuni “nuclearisti”; che Yucca Mountain dopo decenni di lavori e milioni di dollari spesi è stato definitivamente accantonato, e gli americani non sanno più dove mettere gli enormi quantitativi di combustibile esausto sparsi in una settantina di siti; che nel deposito di Asse in Germania si sono trovate (solo ora !) infiltrazioni d’acqua che minacciano un vero disastro e richiederanno spese colossali per il recupero e il trasferimento (dove?) dei fusti.
A questo proposito, in verità, il professore una soluzione la propone: sostiene che si tenderebbe a individuare un unico sito per Continente e che, per fortuna, l’Italia non sarebbe stata individuata quale sito ideale di questo stoccaggio. Speriamo che chi ha dato queste informazioni al prof. Veronesi non intendesse far riferimento a quella che taluni soggetti prospettano come l’unica soluzione possibile per materiali che rischiano di inquinare l’intera ecosfera per millenni (non è certo consolante il fatto che il continente designato a discarica planetaria non sarebbe in tal caso né l’Europa, né il Nordamerica). è facile prevedere che nei prossimi giorni si scateneranno le critiche contro un “oncologo famoso” che non si perita di fare affermazioni pubbliche tacciabili quantomeno di leggerezza.Alcuni probabilmente arriveranno ad accusarlo di inconfessabili conflitti d’interesse (in questo caso particolarmente gravi, visto il ruolo di garante della salute pubblica che il professore ha accettato di ricoprire). Noi siamo convinti che molte delle cose che abbiamo elencate il professor Veronesi non le sappia davvero e che ciò sia comprensibile in una persona che non si è mai occupata di questa materia. Siamo però anche convinti che il permanere in una simile condizione di “ignoranza” sarebbe pericoloso e rischierebbe di nuocere gravemente alla figura di un medico famoso, che anche in quest’ultima intervista afferma come proprio valore assoluto la certezza che i rischi per la salute siano minimi e di voler dedicare i prossimi anni ad assicurare i cittadini che non correrebbero alcun rischio.
Fonte: http://www.infoaut.org/blog/no-tavabenicomuni/item/661-nucleare-risposta-a-umberto-veronesi%E2%80%8F

martedì 8 febbraio 2011

domenica 6 febbraio 2011

Documento politico della Rete dei Comunisti

Le conseguenze politiche (anche a sinistra) dello scontro sociale sulla Fiat - Il diktat di Marchionne su Pomigliano e Mirafiori illumina il tipo di risposta che il capitale manifatturiero ­ in un paese avanzato - pensa di dare alla crisi. Il successo inatteso dei “no” in entrambe le “consultazioni”, nonostante il ricatto esplicito, rende la “vittoria” Fiat solo contingente; la ripresa produttiva in questi stabilimenti (per nulla certa, nonostante le promesse) vedrà in campo lavoratori niente affatto piegati al volere dell'impresa. Naturalmente, non ci si può attendere un collegamento meccanico e immediato tra resistenza operaia e auspicabile “incendio sociale".Se, probabilmente, avverrà quello che diceva qualcuno a suo tempo, ovvero che i reazionari alzano i massi per farseli ricadere sui piedi, a sinistra e nel versante di classe bisognerà ben guardarsi da una lettura meccanicistica. Troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe trasformazioni produttive, sociali ed ideologiche sono intervenute per potersi aspettare una replica delle dinamiche del conflitto di classe che abbiamo ben riposte nella nostra esperienza collettiva e memoria storica. Siamo perciò obbligati ad andare più a fondo nell’analisi per capire bene, in modo non stereotipato e per predisporci a cogliere quella tensione sociale che si manifesta ancora sottopelle ma che in un periodo di crisi sistemica può, in ogni momento, erompere all’esterno.

FIAT, una operazione da “laboratorio”

La risposta Fiat dalla crisi è da manuale: a fronte del venir meno dell'effetto espansivo fin qui garantito dalla finanziarizzazione – una delle principali controtendenze alla caduta del saggio del profitto – si prova ad aumentare il tempo di lavoro. Se si legge con attenzione il “piano”, infatti, troviamo: aumento esplosivo dello straordinario obbligatorio, riduzione delle ore di permesso sindacale, divieto di sciopero. Al netto delle misure illegali o addirittura incostituzionali, il nocciolo della nuova organizzazione del lavoro si concentra nell'allungamento della giornata lavorativa. Ovvero, in termini marxiani, aumento dell'estrazione di plusvalore assoluto.E' una risposta regressiva e che mette la Fiat in competizione con la produzione automobilistica dei paesi emergenti, mentre dai concorrenti europei (da Volkswagen a Renault, ecc) si punta su nuovi modelli, più ricchi di innovazione tecnologica, meno inquinanti, ecc. Ed è una risposta diversa da quanto lo stesso gruppo dirigente Fiat sta facendo sul marchio Chrysler, chiaramente influenzato dalle condizioni imposte lì dal governo statunitense.

La crisi sta quindi producendo reazioni diverse non solo a livello di aree geostrategiche, ma anche all'interno delle singole multinazionali. Gli Usa, con molte difficoltà, hanno inizialmente tentato di ripercorrere la politica del debito e del sostegno alla domanda anche se il recente “discorso sullo stato dell'Unione” di Obama sembra segnare un cambio di rotta, in direzione della riduzione del deficit pubblico. L'Europa sotto l'egemonia tedesca, invece, ha anticipato i tempi del “rientro” nei parametri di Maastricht, anche a rischio di strozzare nella culla una “ripresa” economica decisamente esangue e disomogenea nei vari paesi del continente. Germania e Francia puntano sulla superiore qualità della loro produzione manifatturiera e accentuano la dipendenza degli altri paesi, trasformati spesso in propri “contoterzisti”. Questa dinamica polarizza anche la possibilità di gestire la coesione sociale interna: i paesi più forti possono mantenere decenti livelli salariali e di welfare, senza forzare oltremisura i livelli di sfruttamento della forza lavoro. Mentre, man mano che si scende lungo le varie filiere produttive, queste condizioni vengono meno: l'allungamento della giornata lavorativa va di pari passo con l'aumento della disoccupazione, l'incremento dell'età pensionabile si accompagna all'espulsione della manodopera “garantita” (cinquantenni con contratto a tempo indeterminato) e alla precarizzazione generale di tutte le generazioni, il taglio dei servizi sociali rende disponibili altri settori di investimento per capitali privati a corto di sbocchi. L'Italia di Marchionne è un paese che va allontanandosi dal cuore produttivo dell'Europa e che rispecchia, anche merceologicamente, la polarizzazione estrema implicita in questo tipo di risposta: pochi brand di lusso (Ferrari, Maserati, Jeep, Dodge, Cherysler, forse anche Alfa Romeo) per le fasce sociali che mantengono o aumentano il proprio reddito e il marchio Fiat per quelle povere, possibilmente con modelli fabbricati in Turchia, Serbia, Polonia (in Messico, per il mercato Usa).Questo modello si è presentato fin da subito come una rottura consapevole, chirurgica, senza mediazioni, con il sistema di relazioni industriali costruito nel dopoguerra. Una rottura “coerente” con il tipo di competizione che si pensa di fare (le produzioni dei paesi emergenti) e che punta a riproporne qui alcune modalità.

Un taglio radicale con il passato “concertativo”, caratterizzato da sindacati generali e da contratti nazionali, ossia dal “compromesso tra capitale e lavoro”. Il quadro normativo delineato dal “piano Fiat” prevede infatti un modello di relazioni “complici” a livello aziendale, di tipo corporativo, nella logica competitiva che assume l'impresa come un esercito in guerra contro tutti gli altri. E all'interno di un esercito non è ammissibile né il confronto né, tantomeno, il conflitto. Solo l'obbedienza gerarchica. Se questa è l'idea di fondo, è però anche facilmente riconoscibile. Non siamo più da 50 anni un paese arretrato: i lavoratori sono abituati a contrattare le condizioni salariali e di lavoro, a costituire sindacati (e a cambiarli, se insoddisfatti), ad esercitare diritti. Il “modello Marchionne” incontra resistenze. Anzi, le produce anche là dove erano diventate quasi un ricordo del passato lontano.


E’ generalizzabile il modello FIAT?


Il Lingotto fa da apripista, dunque. Dobbiamo perciò considerare quale sia il suo peso specifico nell'economia italiana, insieme alla compatibilità del suo “modello” con il resto del sistema produttivo. Lo spin off tra Auto e Industrial sembra preludere a un abbandono del settore da parte della famiglia Agnelli, ancor oggi azionista di riferimento tramite l'archeologico schema della società in accomandita all'apice di una più “moderna” serie di scatole cinesi di derivazione più finanziaria che industriale. Se l'obiettivo dichiarato del gruppo è raggiungere i 6 milioni di vetture l'anno (soglia considerata “minima” per poter restare sul mercato globale), bisogna dire che la quasi totalità di questa cifra – prendendo per buoni i livelli di produzione promessi per gli stabilimenti italiani – verrà fabbricata altrove. Al tempo stesso, però, il mercato italiano è l'unico nel mondo dove la Fiat raggiunga livelli a doppia cifra (il 27%, nel quarto trimestre 2010). Non va però sottovalutato il fatto che buona parte dell'”appetibilità” delle vetture Fiat in Italia sia legato a fattori “affettivi” di stampo nazionalistico (le vittorie Ferrari in F1, la “nostra” industria automobilistica), oltre che ai livelli di prezzo (soprattutto a livello manutenzione). Abbandonare totalmente la produzione in Italia potrebbe farle perdere ulteriori quote di vendita. Ma il “cuore” progettuale e il mercato d'elezione è diventato il Nord America. Lì viene spostato gran parte dello staff che progetta i nuovi modelli; lì si investe (grazie ai sussidi del governo Usa) in nuove tecnologie per più bassi consumi e minor inquinamento: lì si pensa di realizzare i volumi di vendita qui impossibili (l'elemento nazional-motoristico vale anche per Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna, naturalmente). A tutti gli effetti, dunque, la Fiat ha ora la configurazione classica di una vera multinazionale, “basata” (per quanto, ancora?) in Italia. L'unica, nel settore manifatturiero (Eni, Enel, Unicredit hanno altre caratteristiche).

Sul piano occupazionale, il solo settore auto ha appena 25.000 dipendenti (ma Termini Imerese è già chiusa), e non si prevedono certo assunzioni. Ma l'indotto auto è enorme e coinvolge – direttamente o indirettamente – quasi un milione di persone. Difficile valutare il disastro occupazionale in caso di fuoriuscita completa del gruppo dall'Italia, ma impossibile sottovalutare il “peso specifico” della Fiat nell'industria e nel fatturato complessivo del paese.

Il “modello Fiat”, così come descritto negli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori, sembra attagliarsi meglio ad industrie grandi o molto grandi, con una presenza già affermata sui mercati globali, e che possono perciò credibilmente esercitare sui propri dipendenti lo stesso ricatto pensato da Marchionne: “o così, o me ne vado altrove”.

Per le altre - che hanno il proprio business legato alla territorialità o dimensioni che non consentono una rapida delocalizzazione - allungare la giornata lavorativa e comprimere il salario non è semplicissimo. Il primo obiettivo richiede contrattazione sindacale e qualche contropartita salariale (persino tramite le organizzazioni “complici”). Gestire pacificamente un impoverimento così drastico pare proprio che non sia possibile nemmeno in paesi tradizionalmente dittatoriali (vedere i moti in Tunisia, Egitto, per altri versi Algeria e Albania).
Nel settore pubblico – evidentemente non “delocalizzabile” ­ si potrebbe proseguire sulla via delle esternalizzazioni e della precarizzazione, con seria riduzione dei diritti individuali e sindacali, nonché delle sigle ammesse alle trattative. Ma proprio la “rigidità” intrinseca a questo tipo di settori rende problematica una gestione autoritaria senza contropartite in termini salariali, di benefit, di “discrezionalità appropriativa”. La stessa sintonia tra governo e sindacati complici (Cisl, Uil e sindacalismo autonomo e corporativo) rende difficile portare fino in fondo progetti drastici di riduzione delle libertà sindacali e di netto peggioramento delle condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti. La “fortuna” dell'iniziativa Fiat, dunque, si è fin qui giovata di alcuni fattori difficilmente ripetibili: l'appoggio dichiarato del governo (lo smantellamento delle tutele legislative del lavoro, opera del ministro Sacconi), la “complicità” esibita da Cisl, Uil, Ugl e – tra i metalmeccanici – il sindacato aziendale Fismic. Il tentativo di isolare la Cgil e espellere la Fiom dalle fabbriche appare quindi condizionato da fattori politici abbastanza caduchi: il ciclo berlusconiano volge chiaramente al termine e persino un altro governo “tecnico” o di “centrodestra allargato” potrebbe trovare necessario ri-coinvolgere la Cgil nel gioco delle trattative a perdere. Sul piano strutturale, infine, le poche imprese medio-grandi e pubblica amministrazione galleggiano su un mare di lavoro disperso e disgregato che caratterizza ormai oltre il 60% della forza lavoro; un mondo che è nato e cresciuto nell'assenza di veri diritti individuali e sindacali, spesso grazie anche alla Cgil e al centrosinistra del “pacchetto Treu”. Un mondo polverizzato in cui il lavoro di ricucitura sindacale è oggettivamente difficilissimo e dove il rapporto di lavoro precario è la norma, non l’eccezione. Un mondo che programmaticamente, però, non è stato mai organizzato da tutti i sindacati confederali, che, sotto questo aspetto, sono tutti complici.La dinamica della crisi dice che l'ambito della precarietà è l'unico in cui si manifesta una qualche perversa “crescita” dell'occupazione (soprattutto in “nero”, pare). Si tratta di classe propriamente detta, generata da una trasformazione della produzione e della relazioni industriali in atto ormai da tempo. La vicenda FIAT, il tentativo di eliminare il contratto nazionale, la riduzione dei diritti sindacali anche nelle grandi concentrazioni di lavoratori sono la conclusione di un attacco generale già fatto e che ora si appresta ad assaltare le ultime roccaforti di quelli che sono stati i punti di forza del conflitto di classe in Italia. Non siamo all’inizio ma alla fine di una profonda fase di trasformazione che deve essere compresa nei suoi effetti per poterci mettere in condizione di rispondere. La trasformazione non è mai del resto un “atto improvviso”, ma il risultato di processi di lungo periodo che “precipitano” in un certo luogo, in un certo momento. Per riuscire a organizzare la risposta di classe, perciò, va colta – nella loro relazione - sia la tendenza che la congiuntura; sia il dato di lungo periodo (in cui, come si usa dire, prevalgono gli elementi di continuità) che quello immediato

La crisi del tatticismo.


Se siamo arrivati alla condizione in cui il conflitto di classe è promosso dall’alto, cioè solo dall’avversario di classe, ci sono sia ragioni oggettive (arretramento generale, politico e culturale, davanti alla capacità della borghesia di riprendere il ciclo di crescita dopo gli anni ‘70 e l’89), sia il prodotto di responsabilità soggettive del movimento comunista e di classe (sul piano sindacale e di movimento).

Il punto politico, organizzativo e teorico che vogliamo affrontare è preciso: negli ultimi due decenni, soprattutto in Italia, è stato abbandonato ogni collegamento organico con la classe reale che andava evolvendo sotto la spinta delle modifiche produttive complessive. C'è chi lo ha fatto aggrappandosi a visioni ultra-ortodosse e chi assumendo posizioni “moderniste” fino al ridicolo. Ma comunque lasciando deperire quel grande capitale di organizzazione politica, sindacale, sociale e di coscienza di classe accumulato nei precedenti cicli di lotte. Senza visione generale, e senza rappresentanza politica a livello nazionale, tende a prevalere il piccolo cabotaggio, l'iniziativa giorno per giorno, la pura reazione anche generosa, ma senza progetto e senza alternativa. E, più spesso, il puro adattamento ad amministrare l'esistente, che sul piano sindacale diventa difendere la propria organizzazione, su quello politico il puntare sulla capacità attrattiva residua di un simbolo prestigioso. Un “tarlo” che ha minato l’organizzazione di classe nel nostro paese è stato perciò il tatticismo, il politicismo, il prevalere della contingenza a scapito della prospettiva e del progetto di società. Questo “tarlo” è ancora ben presente oggi.

In questo senso si può dare un giudizio positivo sulle recenti scelte della Fiom, ma quello che si pone nella ed oltre la vicenda Fiat è come si organizza complessivamente il mondo del lavoro nella sua configurazione attuale. Il rischio che vediamo è quello di un uso “politico” della vicenda Fiat, ritenuta magari utilizzabile per ridar fiato alla politica della “sinistra”. I comitati costituiti da Bertinotti e Cofferati a sostegno del NO, le varie iniziative politiche che cercano di ricucire una dialettica con il centrosinistra, il reciproco uso strumentale tra sindacato e politica a cui stiamo assistendo, rischiano di divenire un boomerang nel momento in cui tutto questo non trova prospettive dentro un processo di riorganizzazione effettiva della classe. Questa preoccupazione diviene ancora più forte se si considera che molti dei personaggi che oggi si sono riaffacciati sono gli stessi che sono stati protagonisti di un’altra avventura, purtroppo quasi rimossa, ma che ora mostra tutto il suo significato politico. Ci riferiamo al referendum tenuto nel 1995 sull’art. 19, che ha fissato il criterio dei “firmatari di contratto” per poter usufruire delle libertà sindacali. Un referendum promosso dalla sinistra sindacale e da quello che era allora il Partito della Rifondazione Comunista; concepito per tagliare le gambe al nascente sindacalismo di base e ai movimenti indipendenti, oggi si ritorce pesantemente contro quelli che lo hanno promosso. Marchionne, Cisl e Uil hanno utilizzato proprio quell’articolo per “far fuori” la Fiom.

Il punto politico che vogliamo mettere in evidenza non è tanto il merito di quell’episodio di masochismo sindacale, quanto il fatto che allora come oggi - sia col segno negativo del ’95, sia con quello positivo attuale - se continua a prevalere la contingenza e la necessità tattica, in questo momento di crisi non si andrà da nessuna parte, e conosceremo una nuova sconfitta politica. Quella pratica e quella cultura sono logorate e ormai da tempo hanno mostrato i loro limiti. Prendiamo atto che l’esigenza pratica di uscire da questa logica si è per ora tradotta nel tentativo di dar vita a un “movimento che si autorappresenta” anche sul terreno della politica, ovvero come “Uniti contro la crisi” che afferma di voler costruire una “alternativa sociale”. Non è la prima volta che la sordità dimostrata dalla classe politica rispetto alle domande sociali stimola processi simili.Nel passato, però, questi tentativi si sono sempre scontrati, ad un certo punto, col problema del progetto e dell’organizzazione; ovvero della necessità di dotarsi di una visione unitaria di lungo periodo, struttura organizzata, centri di responsabilità e strategia fortemente ancorati alla prospettiva nettamente indipendente dal centrosinistra.

I Comunisti nel conflitto di classe

Bisogna, dunque, fare i conti con questa situazione sia sul piano dell’emergenza politica sia su quello delle prospettive che rimane dirimente e decisivo anche come verifica per i comunisti su come stanno nel moderno conflitto di classe. La resistenza dei lavoratori della FIAT è una indicazione importante che va raccolta e rilanciata. Lo sciopero dei metalmeccanici indetto dalla FIOM e dal sindacalismo di base per il 28 Gennaio è un primo momento importante che non può che essere seguito dalla sciopero generale e generalizzato. Ci sembra che continuare a tirare la giacca alla CGIL per chiedere lo sciopero è un modo per non fare lo sciopero generale. Continuare su questa strada comunque e chiedere alla FIOM di schierarsi ci sembra un elemento di chiarezza politica e d’indicazione sul lavoro da svolgere.

Questi sono solo i passaggi preliminari ad una visione complessiva di riorganizzazione del movimento di classe e dunque dobbiamo indicare con il massimo della chiarezza i contenuti e i piani di lavoro con i quali misurarci per far ritrovare ai comunisti una funzione reale dentro lo scontro di classe che si ripropone in un moderno Stato imperialista.

L’Indipendenza Politica. E’ l’elemento qualitativo che deve caratterizzare i conflitti nel nostro paese oggi. Quando si parla di indipendenza non si può intendere solo quella enunciata ma quella praticata nel conflitto e, soprattutto, nell’organizzazione del mondo del lavoro e nella società nel suo complesso. Si tratta di confermare e rafforzare un processo che conduca fuori delle alleanze con il centro sinistra e che ha bisogno di strutturalità e capacità soggettive.

La Confederalità. Se è vero che l’attacco di Marchionne intende fare una resa dei conti con la classe operaia della grande impresa e con le grandi aggregazioni di lavoratori è chiaro che la prima risposta è di difendere in tutti i modi l’organizzazione sindacale esistente in questi ambiti. Ma poi bisogna anche andare oltre e rilanciare l’iniziativa perché la crisi sistemica con la quale le società capitaliste stanno facendo i conti aumenta le contraddizioni che permettono non solo la difesa ma anche il rilancio di una vera organizzazione sindacale a cominciare dalle “roccaforti” del mondo del lavoro. Questa necessità, però, non può prescindere dalla costruzione di una nuova confederalità in quanto nessuna categoria è tanto forte da poter resistere da sola all’attacco a cui sono sottoposti i lavoratori. Allargare l’organizzazione sindacale anche laddove il lavoro è disgregato e precarizzato, trovare le forme adeguate di organizzazione anche per quel 60% di lavoratori considerati fuori dai diritti sindacali, fare delle aree metropolitane dei centri di aggregazione e di lotta significa attrezzarci per quello che sarà la dimensione reale del mondo del lavoro nel prossimo futuro dove alla disgregazione produttiva e sociale si potrà rispondere solo con una forte soggettività organizzata della classe.

La Rappresentanza del Blocco Sociale. E’ necessario aprire una nuova prospettiva sul piano sindacale ma è altrettanto importante ricostruire una rappresentanza politica delle classi subalterne nel nostro paese. Sappiamo bene che è un compito improbo che deve fare i conti con la concretezza dei settori di classe, nella loro odierna condizione di arretratezza, e con concezioni della sinistra e tra i comunisti che hanno portato ad una situazione disastrosa. Sarà un percorso complesso, che procederà per tappe ed ognuna di queste sarà un “esame” da affrontare che, però, andrà seguito con determinazione in quanto le contraddizioni che stanno emergendo riguardano la tenuta dell’attuale sistema sociale. 26 gennaio 2011
Link: http://www.contropiano.org/Retedeicomunisti/reteindex.asp
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