lunedì 14 marzo 2011

Antagonismo di classe, questione irrisolta - Lottare per l'esistenza

Nel 1789, la borghesia europea trovò, con la “rivoluzione francese”, la sua forma-Stato. Si organizzò per sottrarsi in modo permanente dal vassallaggio del clero e della nobiltà, ormai oziosa, improduttiva, retriva e violentemente orientata a difendere il “potere”. Sul piano storico, restava la “questione” del “quarto stato”, del “proletariato”: a molti sembrò che la “rivoluzione russa” (bolscevica, sovietica) del 1917 fosse la soluzione tanto attesa. È così è stato, almeno fino al 1924. Con buona pace dei detrattori contemporanei, sempre con il culo al caldo. Va affermato che qualsiasi tipo d'antagonismo sociale la storia abbia prodotto nei decenni successivi, qualsiasi sia stata la modalità conflittuale entro la quale la contraddizione capitale-lavoro (anche quello prodotto dal “cognitariato”) si andava determinando (dalle rivolte novecentesche “occidentali” del '68 e del '77 alle rivolte “euromediterranee”, ancora in cronaca, del secondo decennio del XXI secolo), ancora oggi sono debitori nei confronti di quei sette anni che “sconvolsero il mondo”. La rottura rivoluzionaria leninista e la problematica edificazione del primo Stato socialista in Russia, non significa affatto che il problema dell'orientamento delle lotte di resistenza all'incedere dell'attuale “crisi capitalistica multinazionale” e della prospettiva autenticamente antagonistico-duale alla quale lavorare e dedicarsi, siano efficaci solo se si prendono le distanze da quelle esperienze. A giudicare da alcuni ragionamenti e dalle prassi adottate da certo “antagonismo laboratoriale e/o seminariale", da cenacoli leonardeschi, da certo iperattivo “estremismo” manieristico-intellettuale, la “questione” della contrapposizione materiale e coscienziale delle classi, la "questione" del contropotere proletario, del programma e dell'organizzazione popolare territoriale pare siano da aborrire, da evitare, da ripudiare. La “questione”, viceversa continua a sussistere in tutta la sua portata, laddove ogni “dominio” economico-statuale non sia realmente scardinato opponendo ad esso non “auspici”, “analisi” raffinate sulla composizione di classe, addirittura previsioni catastrofiche sull'esito dell'estensione delle lotte in corso nell'economia-mondo, bensì attualizzando integralmente l'esperienza leninista, sovietica in quelle realizzazioni concrete che, nel sociomorfismo globale che minaccia di negligere l'epoca contemporanea, possono innestarsi per aprire davvero la trasformazione sociale a destini innovativi. C'è chi, cambiando farmaci, ritiene di contrastare meglio la malattia; non è così che si procede sul terreno dell'antagonismo; la malattia era ed è vera; è, infatti, inconcepibile che nel “mondo” cosiddetto dalle “radici cristiane” e nel periodo storico nel quale l'automazione sembra ridurre la qualità del contributo dei singoli uomini alla costruzione delle ricchezza comune, le differenze retributive – spia rivelatrice dell'ingiustizia sociale strutturale – tra i “primi” e gli “ultimi” della comunità globalizzata tendano ad aumentare nell'indifferenza generale o, peggio, nell'ulteriore stratificazione di forme di sfruttamento e di gerarchizzazione – all'interno della stessa area sociale oppressa – tra chi ha un reddito di sopravvivenza e chi non ce l'ha, tra chi è istrutio e chi è considerato "in corpore vili", tra tra maschio e femmina.Molto schematicamente si potrebbe dire che l'antagonismo operai-padroni e la contraddizione capitale-lavoro, siano stati affrontati e “risolti” in tre diversi modi: in U.R.S.S., eliminando l'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, ma – nel prosieguo dell'esperienza leninista - a discapito delle libertà personali riproducendo dal 1924 in poi atroci disuguaglianze; in Germania, con la sperimentazione del “modello renano” capace di socialdemocratizzare la conflittualità sociale (“gradualismo”, “riformismo”, istituzionalizzazione del movimento operaio) rendendo eterno il dominio di classe e generando una “mediazione politica” (ceto politico-partitico-sindacale) per spegnere l'autonomia politica dei soggetti sociali subalterni; negli U.S.A., con la “partecipazione” degli operai agli utili dell'impresa abdicando ad ogni “diritto” e lasciando “governare” il proletariato dalla “mano” ben visibile del “mercato”. In Italia è stato valorizzato un modello conflittuale (delega negoziale e “rappresentanze”) che ha deresponsabilizzato tutti: lotta di classe permanente, ma permanentemente frustrata che ha visto solo la leadership politico-sindacale di “sinistra”, fino all'attualità, sistemarsi nei “valori” ufficialmente contestati e rivendicare, non più ambiguamente, ricette di fuoriuscita dalla “crisi” condivise con le controparti confidustriali e governative (“promuovere” la produttività del lavoro operaio, tagli alle spese sociali, sostegno all'impresa per sostenere la “domanda”). Questo modello – tendenzialmente affermatosi come aconflittuale – ha prodotto immorali rendite di posizione dei rappresentanti delle classe operaia, lasciando ai margini del “potere” la stessa classe che avrebbero dovuto difendere e valorizzare. I lavoratori non hanno ereditato né “i mezzi di produzione” come nell'organizzazione sociale della produzione comunista, né sono stati responsabilizzati e coinvolti nella gestione “riformista” dell'economia nazionale, come previsto dal “modello renano”, e neanche hanno potuto beneficiare di alcuna “partecipazione” agli utili dell'impresa, anzi il caso FIAT Pomigliano, Mirafiori e SEVEL dimostrano sfregio di “diritti acquisiti” e introduzione del neoschiavismo. Questo “modello” ideologico” fondato sul potenziale antagonistico deglla classe operaia svilito, depresso e disperso (depotenziamento iniziato con l'applicazione della cosidetta “democrazia progessiva” di divittoriana, togliattiana memoria), non ha dato agli operai né più potere contrattuale e/o decisionale dentro l'impresa, né semplicemente dignitosi salari, né ha ridotto le differenze tra management aziendale e condizione materiale d'esistenza dei lavoratori, tantomeno ha portato pezzi di “capitalismo azionario” nelle loro tasche come da “sinistra” alcuni auspicano da tempo desiderando continuare a frapporsi tra capitalisti e lavoratori, tra Stato e lavoratori. Era ed è difficile, per il proletariato, sentirsi sulla “stessa barca”. C'è solo una sorta di spoil system – dal P. C. I. gramsciano-togliattiano a S. E. L. di Vendola -, questo scandaloso meccanismo che privilegia i più servili di ogni schieramento, lasciando fuori i meno capaci di stare con il cappello in mano, quelle compagne e compagni in grado di aggredire alla radice la questione dell'antagonismo: l'irriducibilità degli interessi di parte proletaria con quelli del capitalismo multinazionale. Irriducibilità che si esercita anche sul versante sapere-potere: liberandosi di quell'angosciante rappresentazione consistente nell'analogia di struttura tra accumulazione ed espropriazione di ricchezza da un lato ed incremento indefinito di "sapere" dall'altro, inevitabilmente introiettata anche nelle "nostre fila". Gli operai hanno da tempo constatato che nulla della propria condizione potrà migliorare anche nell'eventualità d'una mera vittoria elettorale del “centrosinistra” utile solo a mandare i tessereati di lungo corso, la propria incravattata lobby dirigente, a dirigere le Poste, le Ferrovie, ASL ed altri Enti propaggini del fiorente sottobosco governativo. È questa la risposta italiana alla “questione operaia” ? Di fatto, le “sinistre” lavorano per perpetuare questa situazione di stallo nella trasformazione possibile della società italiana, dando ragione all'ad FIAT Marchione quando richiede un nuovo “partto sociale” per rideterminare il comando capitalista sulla forza lavoro. Questo “patto” potrebbe servire anche per irrobustire la presenza della cooperazione nella società italiana (articolo 45 delle Costituzione); se invece deve servire solo per eliminare la “lotta” e consentire ai “padroni” di diventare sempre più ricchi e lasciare gli ultimi al loro “posto”, sarà difficile partecipare autolesionisticamente al massacro sociale perpetuato dall'impresa.
DOCUMENTO / PROPOSTA
Piattaforma per la costruzione dei Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva1. Se le responsabilità del massacro sociale, causato dall'irreversibile crisi economico-finanziaria del modo di produzione capitalista, sono chiare, altrettanto evidenti sono le colpevoli responsabilità del quadro politico dirigente delle istituzioni rappresentative del movimento operaio (partiti delle “sinistre” e sindacato) circa la difesa dell'autonomia politico-organizzativa dell'antagonismo sociale . In Italia, il “collaborazionismo” dei dirigenti delle “sinistre” politiche e sindacali (a diversi livelli di incarichi, locali e/o nazionali, svolti) con le strategie ristrutturative del “comando” capitalista – dalla disdetta della “scala mobile” alla Legge delega di revisione della Legge 146/'90 che introduce nuovi limiti al diritto di sciopero (diritto consacrato nell'art. 40 della Costituzione) e di libertà sindacali – è dimostrato dalla voluta liquidazione di ogni rappresentanza della conflittualità, ormai inesistente in Parlamento, per meglio imporre relazioni sociali e politiche consolidando il reciproco riconoscimento negoziale tra frazioni borghesi in lotta (autoritarismo affaristico-telecratico tout court o regime pseudo liberale-liberistico, queste le opzioni in campo) per il predominio statuale e l'oscuramento delle istanze collettive di difesa democratica nella ridistribuzione egualitaria del reddito . . . . .
Tutte le ipotesi e le pratiche politico-organizzative messe in cantiere (volendo limitarsi a considerare solo il periodo dalll'89 ad oggi), sono state fallimentari per gli interessi delle classi subalterne. Gli stessi sciagurati protagonisti ed interpreti degli ultimi decenni della devastazione progettuale e della stessa mobilitazione delle coscienze, si ripropongono ora come “salvatori” avanzando ricette avvelenate (tutti uniti al PD) ed inventandosi conduttori di reality politici sulla pelle delle masse lavoratrici, dei disoccupati, degli sfruttati. Nessuno di costoro può più permettersi – senza pagare dazio – di anteporre proprie concezioni teorico-politiche al reale movimento sociale di resistenza all'incedere della crisi, nessuno è più legittimato a rappresentare moltitudini non disposte a delegare ulteriormente. Pertanto, qualsiasi ripresa della lotta e della partecipazione politica deve individuare il massimo di contraddizione nell'assetto della “rappresentanza” e della “rappresentatività” operando una rottura teorico-politica e di prassi, liberando una soggettività politica da ogni “appartenenza” - anche se residuale - nel “noi sociale” in grado di comunicare nuove forme istituzionali della “domanda popolare” e contenuti propri, oggetti specifici delle “politiche sociali” che si vogliono perseguire. Il punto più alto delle contraddizioni economico-sociali del capitale è l'annientamento delle “socialità altre”, non “collaborazioniste”. Il punto più alto di risposta allo stato presente di cose è “fare comunità” - costruire il “noi sociale” - tramite capacità di autovalorizzazione (conoscenze, professionalità, autoimprenditorialità, sostenibilità, potere) di progetto e di comunicazione sociale . . . . .
La realtà non deve diventare la sua rappresentazione mediale, come anche significative esperienze recenti (neocivismo) hanno fatto. L'irruzione della realtà nella lotta politica dipende dalla volontà del “noi sociale” di distruggere il paradigma della rappresentazione partitico-mediale delle contraddizioni sociali. “Noi” dobbiamo rappresentare personalmente noi stessi, non un brand, un veicolo di comunicazione nel mercato della politica o della “cultura”. Rompere questo dispositivo di potere (“delega” e “rappresentanza”) evitando di essere ancora sudditi, vuol dire farsi carico in prima persona dell'agire politico e sviluppare non solo pensiero, ma anche pratiche di liberazione. La precondizione è costituire un “luogo politico” - Comitato popolare di resistenza per la cittadinanza attiva (CPRCA) – che nel territorio accolga, spogliati di ogni appartenenza partitica, sindacale, associativa, ogni individuo, ogni sincera compagna, ogni onesto compagno, disponibili tutte e tutti a proporre, organizzare e lavorare per un sistema neoistituzionale che dal basso possa affrontare e risolvere i problemi della “cittadinanza” conferendo autonomia e responsabilità amministrativa nuove ai territori sociali “partecipati”, imponendo socialmente l'agenda politica. I territori regionali, da provincia a provincia, sono lo scenario entro il quale muoverci a fronte d'una socialità atonomisticamente frammentata e zone specializzate per funzioni. Costruire i CPRCA per ogni provincia può significare costruire un proprio “frame” capace di ricomporre politicamente il territorio regionale aggredendone i santuari del potere che da questa parcellizzazione egolatrica ne trae beneficio al fine di rideterminare forme di dominio. Sottrarsi ad ogni gioco politico eterodiretto dai “soliti noti” (partiti e personale politico ben retribuito) e vivere politicamente ed esclusivamente nello spazio/tempo della comunità in cui si riesce a giocare la propria “sottrazione” ed estraneità. Costruire nuove istituzionalità che si sviluppino nel tempo divenendo egemoni nella dimensione popolare delle forme di vita, esigendo “beni comuni” in ogni città del territorio regionale . . . . [http://cprca2010.ning.com/]
SIETE TUTTI INVITATI AD AVVIARE UN DISCORSO PUBBLICO SU QUESTI TEMI
“... Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente ...” - Tratto da “Ho fatto un sogno: Vivere il socialismo dell'armonia” di Zygmunt Bauman
NB: Il testo può essere arricchito, emendato, integrato, sviluppato ...
Primi firmatari, a suo tempo proponenti: Giovanni Dursi, Oscar Marchisio

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