domenica 12 maggio 2019
lunedì 25 marzo 2019
L'essere umano è al centro, con un sole spento che gli gira intorno – Pensieri su Cristo ed i cristiani cattolici
In
un intervento pubblico tenuto anni fa ed enfatizzato dalla stampa e
dal “circo” mediatico, Karol
Wojtyla
si è pronunciato sul “silenzio
di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo
cielo, quasi disgustato dall’agire dell’umanità”.
Il terrificante messaggio, per la comunità cristiana cattolica, di
un dio silente, pronto alla tempestosa collera che abbandona
l’umanità al proprio delirio babelico è stato sbrigativamente
liquidato dai media
come
sermone generalista (prodotto immateriale “buono” per
stigmatizzare la guerra, la distruzione dell’habitat,
il presunto deficit
etico nella sessualità, la clonazione).
Crediamo,
invece, che l’inquietante messaggio interroghi profondamente tutti
gli aspetti della cristianità, oltre a quella parte di mondo laico
che fonda i propri valori culturali e morali trascendendo una
prospettiva esclusivamente autoidentitaria e autoreferenziale. Papa
Wojtyla, consapevole, e noi con lui, della
decadenza
(nel linguaggio dell’economia, degenerazione iperliberista) che
caratterizza l’occidente capitalista, la denuncia come il male
attuale che l’umanità non è più in grado di sanare, al limite di
un epocale harahiri.
L’annuncio dell’Apocalisse spirituale, preludio della catastrofe planetaria è, non a caso, accompagnata dai ripetuti e condivisibili ultimi interventi dei due papa attuali, l’emerito Bendetto XVI e Francesco I, a favore della pace. Chi non li farebbe, anche solo vedendo le immagini del martirio sociale e catastrofe urbana di al-Raqqa dove sono avvenute decapitazioni e crocefissioni contrastate con i bombardamenti. Ma le ultime dichiarazioni appaiono, constatati il silenzio e l’assenza di dio, fautori di una pace costruita in nome proprio, in una prospettiva orizzontale totalmente immanente.
L’annuncio dell’Apocalisse spirituale, preludio della catastrofe planetaria è, non a caso, accompagnata dai ripetuti e condivisibili ultimi interventi dei due papa attuali, l’emerito Bendetto XVI e Francesco I, a favore della pace. Chi non li farebbe, anche solo vedendo le immagini del martirio sociale e catastrofe urbana di al-Raqqa dove sono avvenute decapitazioni e crocefissioni contrastate con i bombardamenti. Ma le ultime dichiarazioni appaiono, constatati il silenzio e l’assenza di dio, fautori di una pace costruita in nome proprio, in una prospettiva orizzontale totalmente immanente.
Viene
aperto, in questo non più “nuovo” millennio, uno
scenario filosofico
di tipo tolemaico, dove l’essere
umano è al centro con un sole spento che gli gira intorno.
Nuove e, fino a poco tempo fa, impensabili alleanze sono possibili
nella rappresentazione di un improbabile neo-illuminismo che ora
sembra accomunare Chiesa cattolica e sinistra no-global.
Entrambe sembrano dimenticare che lo straccetto arcobalenico che va
da Gino
Strada
a Don
Ciotti
ha sostituito la stretta di mano a Pinochet di ieri, che l’intervento
in favore della pace di oggi è in contraddizione con l’interventismo
espresso da Giovanni Paolo II nell’omelia in occasione del Giubileo
dei militari e delle forze di polizia, nel Novembre del 2000, che
vogliamo ricordare: «La
pace è un fondamentale diritto di ogni uomo, che va continuamente
promosso, tenendo conto che gli uomini in quanto peccatori sono e
saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta del
Cristo. Talora questo compito, come l’esperienza anche recente ha
dimostrato, comporta iniziative concrete per disarmare l’aggressore.
Intendo qui riferirmi alla cosiddetta “ingerenza umanitaria”, che
rappresenta, dopo il fallimento degli sforzi della politica e degli
strumenti di difesa non violenti, l’estremo tentativo a cui
ricorrere per arrestare la mano dell’ingiusto aggressore».
Senza
entrare nel merito della variabile, nella storia della Chiesa,
dell’opportunità politica dei diversi “expedit”
o “non
expedit”,
emerge il dato terribile che la morte
di dio,
già profetizzata da Nietzsche, è stata questa volta annunciata dal
“megafono
vaticano“,
che utilizza a pieno titolo e a piene mani il sistema
dell’informazione multimediale per amplificarsi. È evidente a
tutti che il pugno, evocato e giustificato da Francesco
I da
dare all'eventuale villano colpevole di aver offeso sua madre, fa
pendant
con
le variegate forme di esasperazione magico-misterica, di esaltazione
delirante, di nociva
intossicazione delle relazioni sociali ahimè testimoniata dai modi
di intendere il cristianesimo da parte dei credenti contemporanei.
Certo
è che l'autentico
cristiano non avverte la necessità di definirsi tale e/o baciato
dalla grazia divina;
egli opera da cristiano, emulando Cristo, anche nell'epoca della
virtualizzazione identitaria schizofrenica indotta da un uso né
consapevole né critico dei social
network
che, a volte, vengono anacronisticamente demonizzati e ripudiati
rifugiandosi nella solipsistica penitenziale preghiera. Tali pratiche
devote o delle liturgie ad
hoc,
quasi personali, à
la carte,
in preda al vaneggiamento della propria simbolica perfezione,
autorizza tali pseudocristiani a stigmatizzare ed ossessionare, con i
propri angusti codici interpretativi, i portatori del pensiero
critico, della laicità costitutiva dell'etica pubblica,
dell'ateismo, della razionalità filosofica e scientifica.
Questo
rito mistico dell'irrazionalità – molto simile ai roghi accesi
dall'Inquisizione per estirpare le eresie detentrici di verità –
sta annichilendo i cristiani cattolici che si rifugiano
nell'intimismo della preghiera e del dialogo egolatrico con dio;
inoltre, vedrà la parte egemone politicamente (destra neofascista)
del mondo cattolico imporre la propria “supremazia spirituale”
con la violenza argomentativa
e
della
sua
influenza istituzionale, celebrare a Verona (dal 29 al 31 Marzo 2019)
il XIII World
Congress of Families
, evento organizzatore del movimento globale antiabortista,
antifemminista, anti-LGBTQI e delle azioni contro la tutela dei
diritti delle persone.
A
latere,
viene spontaneo chiedere che, a questo proposito, ognuno parli per
sé. Cos’hanno da dire sul silenzio di dio le migliaia di giovani
riunite, con cadenze prossime, per un giubileo festoso e
rumoreggiante ? E tutti coloro, e crediamo siano tanti, che,
nell’ascolto dell’altro e nel silenzio di sé, lottano per la
pace attraverso la costruzione di un punto di vista che trascenda il
proprio ? Forse è Iannacci, in una sua vecchia canzone che può
inconsapevolmente indicarci la soluzione del paradosso teologico di
un Verbo
muto,
di un Lògos
afasico quando ricorda che “bisogna
avere orecchio, bisogna averne un sacco, tanto, anzi parecchio…”.
L’esperienza
dell’ascolto
– impossibile agli integralisti e rubato ai mistici del XXI secolo,
sordamente impegnati in via esclusiva nel penitenziàgite
- è possibile a partire dal silenzio, non di un eventuale dio, ma
nostro, mettendo a tacere le chiacchiere rumoreggianti, individuali e
collettive, tipiche dell’alienante sistema dominante
dell’informazione. Si presentano sempre più come “rumore
dei media”
che diviene omologante informazione del dominio che tutto cerca di
coprire, anche i pensieri più personali e le più intime
convinzioni, secondo il modello
del Panoptico,
la struttura di un edificio ideato da J. Bentham nel corso della
seconda metà del secolo XVIII per rispondere alle nuove esigenze di
organizzazione e controllo sociale dettate dallo sviluppo dei centri
urbani e dalle mutate condizioni di lavoro, entrambi epifenomeni
della cosiddetta prima rivoluzione industriale.
Viene
da chiedersi se tale incessante rumore
di fondo
– ciò che, parafrasando Foucault,
possiamo intendere come una sorta di “visibilità”
come “trappola”
della modernità – non sia uno strumento di persuasione alla
conformità, che, garantendo spazi identitari di “buonismo”,
purché controllato, eterodiretto e collettivo, cerca di mettere in
realtà al bando ogni divergente esperienza di libertà
individuale e collettiva.
Non è il silenzio di dio che preoccupa, tappa obbligata fra l’altro
di ogni autentica esperienza spirituale, ma la chiassosità di
proclami invadenti e unilaterali sulla nostra personale identità.
Inoltre, nella ricostruzione di “fronti”,
siano anche ispirati da valori encomiabili come quello della pace –
che, in definitiva, si gioca sul terreno economico piuttosto che
prepolitico, morale -, c’è sempre il rischio di inceppare in
meccanismi identitari di gruppo che, nella riconferma di sé,
escludono l’altro.
Esclusione
non solo del nemico guerrafondaio, ma anche di qualsiasi verticalità
che, al di fuori di noi, concorra ad ispirare le nostra azioni. Se
dio tace, parliamo noi, se ci abbandona alla guerra, qualcuno ha
sempre un Papa che lavora per tutti. Il rischio vero è che la
secolarizzazione della Chiesa cattolica vada di pari passo con la
delirante riconferma
di sé di chi si pensa nel giusto.
Se l’abbandono
dell’umanità
al suo destino da parte di dio appare motivato dagli avvenimenti
degli ultimi anni (non è mai troppo tardi ...), sorge ancora più
stridente l’autoesaltazione dei vari e mutevoli “fronti” per la
vita.
Come se la guerra
fosse sempre e comunque voluta da altri e non riguardasse
profondamente ciascuno di noi nella sua più intima essenza,
nell’aderire o meno ad una concezione del proprio essere al mondo
basata sul profitto. Altro che dimensione eterea, altro che il
sentire dell'anima ! Consapevolezza, questa dell'adesione alla
materialità dell'esistenza, che solo lo sguardo autocosciente,
coltivato nel personale spazio interiore che si sforza di cogliere
l'obiettività, può far scaturire: forse, in quello spazio,
religioso o laico che sia, “dio”, per chi crede in dio, o l’arma
della razionalità
critica
possono parlare ancora. Di fronte al bivio storico Trump – Kim
Jong-un, bisogna immaginare quale strada alternativa scegliere.
Giovanni
Dursi
sabato 10 febbraio 2018
"Democrazia macerata" - Ripagare con la stessa moneta
L'esaltazione
della razza – idea priva di validità scientifica nell'ambito
antropologico -, delle caratteristiche di un popolo, della sua potenza
travisa il significato del concetto di “nazione” quale comunità stabile,
formatasi storicamente, di lingua, di territorio e di conformazione
psichica che si manifesta nella comune cultura. Nel fanatismo omicida
razzista la “nazione” cessa d'essere un mezzo per ricomporre l'unità
dell'umanità ad un livello storicamente adeguato (Mazzini) e diventa un
fine in se stesso (Fichte). Da queste premesse derivano le teorie,
dottrina ed azione politica che, sviluppate nell'Ottocento (Chamberlain,
Gobineau) ed “aggiornate” nel 1925 dal Mein Kampf,
fonte ininterrotta di contaminazione dell’umanità ben oltre il 1945,
offrono ancor oggi una piattaforma ideologica a tutti i programmi
politici delle “destre” coalizzate, che siano già al governo di alcuni
paesi europei o che ambiscano ad esso, basati sull'aspirazione a
disporre di uno spazio vitale per soddisfare le esigenze di “un popolo” a
discapito degli altri. Come è facile constatare con l'episodio di
Macerata, quella piattaforma ideologica vede attivi mandanti ed
esecutori ed il razzismo nostrano, non essendo affatto regredito,
riproporsi inalterato.
In analogia con la mentalità anacronistica e preindustriale del luddismo
inglese (caratterizzato dal sabotaggio in fabbrica e distruzione delle
macchine), un soldato americano, in un gesto che non era
comprensibilmente solo simbolico, gettò nelle fiamme le matrici di
piombo
del pamphlet
di Adolf Hitler. Evidentemente, sul lungo periodo, senza alcun
risultato culturale e politico vista la sopravvivenza della “mala
pianta”, del fascino nefasto che può avere la propaganda fascista
impostata sull'odio razziale quando si intendono dirottare sentimenti di
protesta e frustrazione degli sfruttati su falsi nemici, quale che sia
il rapporto reale fra “potere” e “condizione” delle masse. Pertanto, va
posta una domanda aspra, verificato che la pedagogia del “mai più”
suggerito dalla memoria storica non insegna a tutti, volendo evitare
l'inefficacia d'una posizione, per così dire neoluddista
(confondere, sbagliando, gli obiettivi da raggiungere) di lotta
politica e culturale al fascismo razzista: può essere considerata in
gioco un'ulteriore variabile, con l'intento di liberare definitivamente
l'umanità dalla piattaforma ideologica che la tiene ciclicamente
sottoscacco, definendo una moratoria etica e giuridica - circoscritta
alla fattispecie e temporalmente limitata - per ripagare fascisti e razzisti con la stessa moneta ?
sabato 7 ottobre 2017
Una prospettiva interpretativa dell’indipendenza della Catalogna
Il capitalismo globale pone da tempo [1] la questione della relazione causale tra finanziarizzazione ed interdipendenza subalterna delle economie nazionali ed annientamento delle ultime parvenze della democrazia parlamentare, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati fino all’affermazione del neoliberismo).
Con
l’esperienza referendaria catalana (la partecipazione alla
consultazione si è attesta sul 42%, su 5,3 milioni di persone aventi
diritto: massiccia l’adesione all’opzione indipendentista, a
favore della quale si sono pronunciati oltre 2 milioni di elettori,
per una percentuale leggermente superiore al 90%; per il ‘no’ si
sono invece espressi 176.565 elettori -7,8%-, per quanto ovviamente
il fronte anti-indipendentista sia numericamente ben più nutrito e –
secondo un sondaggio realizzato a luglio – conti circa il 49% della
popolazione; 45.586 sono state le schede bianche e 20.129 i voti
nulli) si è giunti ad una fase storica di svolta: quella che segna
la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo
con le forme della democrazia che fin qui si sono affermate.
Bisogna,
conseguentemente, ricordare che il processo d’autodeterminazione
di un popolo può avere per fine la modifica della composizione della
società internazionale, per costruire un nuovo ente o rafforzare un
ente già esistente, ma non ancora dotato di una posizione
sufficientemente indipendente. Questa è la chiave di lettura di
quanto sta accadendo in Catalogna: non si tratta né di «una
messinscena, un ulteriore episodio di una strategia contro la
convivenza democratica e la legalità» (M. Rajoy), né solo del
protagonismo dei cittadini catalani che «hanno conquistato il
diritto ad avere uno Stato indipendente che si costituisca sotto
forma di Repubblica» (Presidente della Generalitat C.
Puigdemont); trattasi, bensì, di una consultazione referendaria che
– anche al di là delle intenzioni dei promotori – può veicolare
una chiara, irreversibile rottura con quanto previsto
dall’ordinamento e dalla Costituzione spagnoli dello Stato
monarchico plurisecolare, e prefigurare elementi di progresso
economico, sociale e politico-istituzionale. Se così non fosse –
un laboratorio di sperimentazione di nuove istituzionalità popolari
e di riorganizzazione solidaristica ed antimercantile della
produzione -, se il pronunciamento referendario catalano non
alludesse ad una contestuale battaglia contro la ristretta visione
nazionale e nazionalistica, la tendenza all’isolamento autarchico
avrebbe il sopravvento.
Nell’affermare
l’esigenza della Catalogna all’autodeterminazione, il
movimento propulsore, per essere internazionalmente efficace, deve
rendere evidente che i vincoli caratterizzanti il gruppo sociale
indipendentista si esprimano in relazione ad un’autonomia regionale
rispetto allo Stato spagnolo che parli lo schietto linguaggio di
fuoriuscita dalla logica rivendicazionista identitaria
sociopoliticamente compatibile con il capitalismo globale e di
sfruttamento territoriale in proprio di benefit economici. Da
questo punto di vista, la brutale repressione del gendarme monarchico
spagnolo – paradossalmente – è un segnale d’allarme
significativo.
Infine,
il balbettio formale dell’UE. serve solo a sottolineare
come, ai sensi della Costituzione, il referendum non possa
considerarsi legale, ribadendo che lo scontro tra Madrid e Barcellona
è questione interna alla Spagna e va risolta in linea con l’ordine
costituzionale spagnolo; da Bruxelles, la Commissione europea non
manca retoricamente ed ambiguamente di evidenziare come oggi più che
mai siano necessarie unità e stabilità: serve dialogo, senza
ricorrere alla violenza, ma è evidente come l’enfatizzazione
conservatrice europea dello status quo spagnolo si configuri come
un’ingerenza, interferenza esterna in modo talmente sfacciato da
precludere ai catalani l’effettiva partecipazione alla vita
politica dei propri territori foriera di decisioni correlate alla
volontà popolare.
[1]
Cfr. Alfonso Gianni, “Capitalismo finanziario globale e
democrazia: la stretta finale“, MicroMega, 18 Novembre 2013
mercoledì 8 marzo 2017
Lotte a Marzo e nei mesi successivi ...
In
almeno 40 paesi in tutti i continenti l'8marzo sarà sciopero delle
donne. Sciopero contro l'oppressione e la violenza esercitata sulle
donne dai maschi. Sciopero contro le discriminazioni e lo
sfruttamento che il capitalismo liberista impone in particolare alle
lavoratrici, nel nome della flessibilità e della produttività a
tutti i costi.
Sciopero contro le discriminazioni salariali e gli orari assurdi che costringono le donne a un doppio carico di fatica sul lavoro produttivo e su quello riproduttivo e di cura. Sciopero contro i tagli allo stato sociale che sulle donne si scaricano il doppio come danni alla vita e come fatica in più per accudire di più chi meno viene accudito. Sciopero contro la cancellazione dei diritti conquistati con tanta sofferenza, come quello alla tutela pubblica dell'aborto. Sciopero contro la mercificazione del corpo delle donne, dove il peggio del dominio del maschio si unisce al peggio del dominio del mercato.
Sciopero contro le discriminazioni salariali e gli orari assurdi che costringono le donne a un doppio carico di fatica sul lavoro produttivo e su quello riproduttivo e di cura. Sciopero contro i tagli allo stato sociale che sulle donne si scaricano il doppio come danni alla vita e come fatica in più per accudire di più chi meno viene accudito. Sciopero contro la cancellazione dei diritti conquistati con tanta sofferenza, come quello alla tutela pubblica dell'aborto. Sciopero contro la mercificazione del corpo delle donne, dove il peggio del dominio del maschio si unisce al peggio del dominio del mercato.
domenica 22 gennaio 2017
Conferenza di Roma sul comunismo - 18 / 22 Gennaio 2017

Ognuno degli assi tematici che articolano le 5 giornate di discussione sarà introdotto e informato da una serie di domande. Le domande scandiranno il ritmo tanto delle conferenze quanto dei workshop.
Comunismi
Critica dell’economia politica
Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e […]
Chi sono i comunisti?
Chi sono i comunisti oggi? Quale il vettore organizzativo
che, per dirla con Marx ed Engels, può favorire la «formazione del
proletariato come classe»? Ancora: quale il rapporto tra lotte
economiche e lotte politiche? E quali le pretese di una nuova politica
economica che metta al centro il Comune? Un’indagine a tutto campo sui
processi […]
Comunismo del sensibile
Ciò che è in primo luogo Comune è l’«Essere del
sensibile». Sensibile nel quale siamo immersi; sensibile della nostra
prassi; sensibile delle relazioni, nelle quali siamo sempre gettati.
Riflettere sul sensibile significherà anche e soprattutto mettere in
tensione il Comune del comunismo con l’estetica, con la costruzione del
sensibile, dei suoi orientamenti. Ancora: sarà un […]
Poteri comunisti
Si chiedeva Foucault alla fine degli anni ’70: è possibile
una «governamentalità socialista»? Oggi che la governance globale
definisce una nuova articolazione dello Stato e delle sue funzioni, la
domanda di Foucault si fa non solo attuale ma urgente. Altrettanto: è
possibile immaginare o costruire istituzioni che non convergono nella
macchina statale? L’ipotesi federalista, il […]
Mostra
venerdì 20 gennaio 2017
Conferenza di Roma sul comunismo

C17 - Esc - COMUNISMI - Peter Thomas 18/01/2017
Saturday at 1:23 98 views
C17 - Esc - COMUNISMI - Maria Luisa Boccia 18/01/2017
Saturday at 12:47 59 views
C17 - Esc - COMUNISMI - Mario Tronti 18/01/2017
Saturday at 12:20 199 views
C17 - Esc - CHI SONO I COMUNISTI? - 20/01/2017
Friday at 9:40 293 views
La Conferenza di Roma Sul Comunismo_1°parte_20_01_2017
Friday at 11:11 264 views
Critica dell'economia politica e chi sono i comunisti?
Thursday at 10:24 340 viewsgiovedì 29 dicembre 2016
Il regime del salario
Pubblicato Il regime del salario,
l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli
interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà
sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
***
Questa premessa intende rilevare alcuni
effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in
particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione
del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in
modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue
tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche
coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione
della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da
tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri
continenti e in particolare nell’Asia orientale.
Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai
disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono
motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35
anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di
conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione
del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970
negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker
alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento
della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal
placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga.
Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua
pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il
rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio
(2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla
Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato
nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel
2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena
del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione
del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del
parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia
commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il
principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei
confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al
dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della
lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto
congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una
delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento
dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle
esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli
dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima
onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il
luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro
l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri
euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva
Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte
balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso,
una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi
scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo
dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della
grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva
mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la
socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari
dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero
dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella
decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in
ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo
luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei
detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre
condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione,
in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle
condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del
potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle
organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le
misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i
salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario
minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo
intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010
il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder
(cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla
previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di
disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti
di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta
produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e
straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito
socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a
partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze
imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta
arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con
lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato
internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che
non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie
all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania
attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici
tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più
svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile
a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli
dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea.
Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro
primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la
Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il
benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già
ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non
disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento
sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e
i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In
breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando
nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla
precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
![]() |
http://www.asterios.it/ |
La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali.
Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative
attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà
l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo
nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea
appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali:
per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è
salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per
la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri
finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi
«a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione
le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il
ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi
sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e
della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura
di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la
ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più
prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di
applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In
realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano
proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la
conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo
Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo
Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi
manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo
(governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002
decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di
abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa.
Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che
sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di
oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena
l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non
mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri
termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore
aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del
suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei
confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è
risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i
cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici
e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto
l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor
più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non
soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di
lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la
solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi.
Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente
contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già
indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva
cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi
e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava
dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore
di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e
licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione
all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al
termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa
così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi?
Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve,
scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e
addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i
salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti
politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di
lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a
gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è
rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso
la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di
comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di
650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di
sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità
d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno
100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause
– tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi –
in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al
fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in
gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla
trasmissione della vita.
PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO
mercoledì 26 ottobre 2016
XIV Edizione di Gender Bender
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Dal 26 ottobre al 6 novembre si svolgerà a Bologna la XIV Edizione di Gender Bender, il festival internazionale che presenta al pubblico italiano gli immaginari contemporanei legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale. Quest’anno inauguriamo la nostra collaborazione con il festival, con la forma inedita di un “percorso” di visioni femministe consigliato da Comunicattive. Perché di femminismi, in questi tempi atroci di violenze materiali e simboliche contro i corpi e le vite delle donne, ne abbiamo veramente un bisogno radicale. Scoprite come abbiamo scelto i film, gli spettacoli e gli incontri che vi consigliamo e quali sono gli appuntamenti >> | |
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Non una di meno contro violenza maschile sulle donne, femminicidio e violenza di genere
Come Comunicattive abbiamo aderito con entusiasmo alla manifestazione NON UNA DI MENO del 26 Novembre a Roma: una grande mobilitazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, il femminicidio ... Leggi tutto
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martedì 25 ottobre 2016
N O perchè ...
No perché gli interessi in gioco - territorialmente, economicamente e socialmente vasti - sono "gestiti", paradossalmente, da entrambi gli schieramenti referendari, ridefinendoli in termini di interessi politicamente ristretti. Basta sapere come si è giunti - parlamentarmente - a questo Referendum confermativo e da chi è sponsorizzato. Ecco perché va riletto il libro "Senza tregua - La guerra dei GAP" di Giovanni Pesce.
Prefazione [kb
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Capitolo Primo Alla macchia [kb 33 HTML]
Capitolo Secondo Nelle Brigate Internazionali [kb 30 HTML]
Capiitolo terzo Come nasce una bomba [kb 44 HTML]
Capitolo Quarto Quanto vale un gappista? [kb 47 HTML]
Capitolo Quinto All'assalto di Torino [kb 42 HTML]
Capitolo Sesto Morte e trasfigurazione [kb 83 HTML]
Capitolo Settimo Addio Torino [kb 34 HTML]
Capitolo Ottavo Milano[kb 34 HTML]
Capitolo Nono La battaglia dei binari [kb 44 HTML]
Capitolo Decimo Spie, carnefici e giustizieri [kb 32 HTML]
Capitolo Undicesimo Un elemento sicuro [kb 44 HTML]
Capitolo Dodicesimo Valle Olona [kb 40 HTML]
Capitolo Tredicesimo Reazioni a catena [kb 52 HTML]
Capitolo Quattordicesimo A ritmo serrato [kb 60 HTML]
Capitolo Primo Alla macchia [kb 33 HTML]
Capitolo Secondo Nelle Brigate Internazionali [kb 30 HTML]
Capiitolo terzo Come nasce una bomba [kb 44 HTML]
Capitolo Quarto Quanto vale un gappista? [kb 47 HTML]
Capitolo Quinto All'assalto di Torino [kb 42 HTML]
Capitolo Sesto Morte e trasfigurazione [kb 83 HTML]
Capitolo Settimo Addio Torino [kb 34 HTML]
Capitolo Ottavo Milano[kb 34 HTML]
Capitolo Nono La battaglia dei binari [kb 44 HTML]
Capitolo Decimo Spie, carnefici e giustizieri [kb 32 HTML]
Capitolo Undicesimo Un elemento sicuro [kb 44 HTML]
Capitolo Dodicesimo Valle Olona [kb 40 HTML]
Capitolo Tredicesimo Reazioni a catena [kb 52 HTML]
Capitolo Quattordicesimo A ritmo serrato [kb 60 HTML]
Nella Gazzetta Ufficiale del 15 Aprile 2016 è stato
pubblicato il testo della Legge costituzionale approvato da entrambe le
Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti.
La riforma dispone, in particolare, il superamento dell'attuale sistema
di bicameralismo paritario, riformando il Senato che diviene organo di
rappresentanza delle istituzioni territoriali; contestualmente, sono
oggetto di revisione la disciplina del procedimento legislativo e le
previsioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle
competenze dello Stato e delle Regioni. E' altresì disposta la
soppressione del CNEL.
A seguito della presentazione di richieste di sottoposizione della legge a referendum costituzionale, ai sensi dell'art. 138 della Costituzione, l'Ufficio centrale per il referendum
della Corte di cassazione ha dichiarato la legittimità del seguente
quesito referendario: «Approvate voi il testo della legge costituzionale
concernente "Disposizioni per il superamento del bicameralismo
paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei
costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la
revisione del titolo V della parte II della Costituzione" approvato dal
Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Il 4 Dicembre 2016 si svolgerà il referendum popolare confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione sulla suddetta legge costituzionale.
* * * * *
Resistenza e
Costituzione.
di Alberto Berti
Questo è un discorso che
voglio fare soprattutto ai giovani amici di Recsando sapendo che
nelle nostre scuole certi problemi che dovrebbero contribuire alla
loro formazione di cittadini di una repubblica democratica raramente
vengono affrontati e se affrontati lo vengono con estrema
superficialità dando loro scarsissima importanza.
Credo che pochissimi
conoscano la nostra Carta Costituzionale e che ancora meno
siano coloro che si rendono conto di vivere in un paese che ha una
delle costituzioni più avanzate fra quelle esistenti.
In Austria, in Svezia,
negli Stati Uniti, già in quelle che sono le ultime classi delle
scuole elementari, i maestri cominciano a spiegare la Costituzione
che regola i rapporti fra i cittadini ed i poteri dello stato in cui
vivono. Negli Stati Uniti i ragazzi vengono educati a conoscere anche
gli “emendamenti” della loro Costituzione e richiamarsi ad essi.
In Italia, fra qualche
settimana, il 22 dicembre festeggeremo (?) i cinquant’anni
dell’approvazione a grandissima maggioranza della Costituzione
avvenuta nel lontano 22 dicembre 1947 da parte dell’Assemblea
Costituente eletta dal popolo italiano il 2 giugno 1946
assieme al referendum che spazzava via la monarchia savoiarda.
L’approvazione della
Costituzione ha segnato una svolta fondamentale nella storia del
nostro paese, non soltanto per i principi che essa ha posto alla base
dell’ordinamento della società italiana, ma anche per le garanzie
di cui li ha rivestiti e che hanno il loro perno nella qualificazione
della Costituzione stessa come Costituzione rigida.
Cosa vuol dire
Costituzione rigida? Vuol dire semplicemente che i “princìpi” in
essa enunciati non sono modificabili con procedure legislative
ordinarie e, dall’altro lato, che le leggi che sono incompatibili
con quei principi non hanno alcuna validità. Sono da ritenersi
nulle. Anzi, la dottrina costituzionalista e la giurisprudenza della
Corte Costituzionale (anch’essa introdotta nel nostro paese per la
prima volta con la Costituzione) hanno messo in luce la regola
secondo la quale esiste un nucleo di “principi supremi” che non
sono suscettibili di modificazione neppure attraverso i procedimenti
di revisione che la Costituzione stessa prevede. Infatti in questi
ultimi tempi si è parlato molto di revisione della Costituzione, da
parte della Commissione bicamerale appositamente designata, ma se
fate caso, leggendo i giornali, vedrete che essa si è occupata
dell’ordinamento dello Stato, sul sistema delle elezioni di
deputati e senatori, sui compiti attribuiti alle due Camere,
sull’elezione del Presidente della Repubblica, sulle funzioni
pubbliche attribuite a comuni, provincie, Regioni e Stato, eccetera,
quindi la commissione è intervenuta sulla seconda parte della
Costituzione e non sulla prima che enunciava i principi fondamentali
del nostro vivere civile.
Sarebbe opportuno, senza
che io li ripeta qui di seguito, che i miei giovani lettori
leggessero i primi articoli della costituzione in modo da poter
percepire e comprendere, la portata pratica dell’affermazione dei
valori della libertà, dell’eguaglianza e della democrazia. Il
catalogo delle libertà che la Costituzione enuncia, comprende,
insieme con i classici diritti civili e politici, un complesso di
diritti economici e sociali i quali concorrono a qualificare la forma
di Stato, oltre che come forma di stato di diritto, anche come stato
sociale.
Queste enunciazioni
sviluppano, in particolare, i due princìpi, certamente “supremi”
che troviamo scritti negli articoli 2 e 3, che fondano la libertà
umana e l’esigenza di promuovere in ogni modo possibile
l’eliminazione delle discriminazioni - sia di diritto che di fatto
- che ostacolano la realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini.
Adesso, care sandonaute e
sandonauti, occorrerebbe stabilire come la Costituzione italiana sia
nata e perché. Ed allora bisogna riandare a quel meraviglioso
fenomeno popolare che è stata la Resistenza.
Per dare un significato
politico, per stabilire un collegamento tra Resistenza e
Costituzione, penso che sia necessario iniziare ricordando il
discorso di Piero Calamandrei ai giovani milanesi tenuto nel
1955 che si concluse con la forte immagine secondo la quale la
Costituzione veniva presentata come un “testamento”: il
testamento dei caduti della Resistenza.
Calamandrei con il suo
mirabile discorso voleva tenere viva l’attenzione dei giovani sui
valori che la Costituzione aveva codificato e che le vicende
politiche successive rischiavano in qualche modo di appannare.
A più di cinquant’anni
di distanza mi sembra necessario accentuare non tanto il fatto
militare, quanto il forte spessore politico che danno valore alla
Resistenza e alla guerra di liberazione.
Se ci volessimo limitare
a ricordare la Resistenza come un solo fatto militare saremmo oggi
ridotti a celebrarla come vecchi compagni d’armi che si ritrovano,
consumano assieme il rancio, ascoltano qualche ricordo, si salutano
augurandosi di ritrovarsi l’anno successivo.
Se la guerra di
liberazione e la lotta partigiana consistessero soltanto in un evento
di carattere militare, terminata la guerra, il 25 aprile 1945,
si sarebbe potuto dire missione compiuta, non ne parliamo più.
Invece bisogna parlarne, perché la lotta di liberazione del nostro
paese non è stata soltanto un fatto di carattere militare, è stata
un fatto politico, nel senso nobile della parola, e non partitico:
cioè nell’interesse della collettività, del bene collettivo.
Infatti nei territori occupati dai nazisti, diciamocelo francamente,
l’unica vera forma di rappresentanza dell’Italia era data dai
partigiani e da coloro che combattevano per la Libertà.
L’esercito non esisteva
più, si era liquefatto come neve al sole, il paese era in mano ai
nazisti oppressori e chi veramente rappresentava il paese erano i
partigiani, i comitati di liberazione nazionale tant’è vero che
furono costituite delle repubbliche partigiane Carnia,
Montefiorino, Val d’Ossola, dove i loro governi provvisori
emanarono addirittura delle leggi.
Durante quei governi ci
fu una distinzione tra giurisdizione civile e quella penale; ci fu
una distinzione tra reati comuni e reati politici; ci fu una polizia
alle dirette dipendenze della magistratura: tutte cose che hanno
servito a quello che si doveva costruire nel nostro paese. E' da
ricordare che la costruzione politica derivante dalla Resistenza è
stata difficilissima fin dal tempo della Resistenza stessa, perché i
partigiani non avevano alle spalle quello che avevano gli altri
resistenti e combattenti in Europa. I grandi avvenimenti, come la
rivoluzione russa, hanno avuto dei precedenti di carattere culturale
e filosofico. Per la rivoluzione francese abbiamo avuto tutto il
periodo dell’illuminismo, per la rivoluzione russa abbiamo avuto
tutto il marxismo, le sue implicazioni, le culture diverse intorno al
marxismo, le discussioni. In Italia dietro le spalle non c’era
nulla.
Ci fu chi battezzò la
Resistenza come il nostro Secondo Risorgimento. Non sono d’accordo
con quel grande storico che fu Luigi Salvatorelli. Anzitutto perché
al Risorgimento partecipò, anzi lo portò alla vittoria la monarchia
sabauda che non parteciperà alla Resistenza. Il Re che aveva già
tradito lo statuto albertino, che non seppe ripudiare il fascismo,
che non si tirò indietro né davanti alle leggi razziali ne alla
dichiarazione di guerra, di fronte al movimento di Resistenza rimase
freddo ed assente ed i motivi li conosciamo sin troppo bene. Pensava
di rifarsi una verginità e di far dimenticare le sue malefatte
avallando la dichiarazione di guerra alla Germania nazista
presentatagli da Badoglio nell’ottobre del 1943.
La differenza tra
Risorgimento e Resistenza è notevole: i due movimenti sono
paragonabili su un solo piano, quello di liberare l’Italia
dall’occupazione straniera. Per il resto, idee, contenuti,
esercito, lotte, partecipazione, ecc. sono diversissimi.
Il Risorgimento discende
direttamente dalle idee della rivoluzione francese e dalle guerre
napoleoniche che fanno balenare nelle menti più aperte degli
italiani la possibilità e la necessità di riunire dopo tanti secoli
l’Italia in un solo Stato. Quelli che sentono questa necessità e
si prodigano per propagandarla costituiscono un'élite minoritaria
rispetto al resto della popolazione. Si tratta di nobili,
intellettuali, professionisti e studenti. La classe operaia e quella
contadina non sentono e da quei problemi non vengono affascinate.
Anzi, per quel poco che sanno, li odiano. Per loro l’unità
d’Italia significa guerra, carneficine, lutti e miserie di cui
loro, contadini ed operai sono costretti a portarne il peso. Infatti
essi costituiscono la cosiddetta carne da cannone, quella che deve
sacrificarsi sui campi di battaglia. Da ciò deriva il loro odio per
i Bandi di mobilitazione generale, le cartoline precetto di richiamo
alle armi ed in una parola di tutto ciò che ha attinenza con la
guerra.
La Resistenza è una cosa
diversa: non esistono né Bandi di mobilitazione, né cartoline
precetto. Si va in montagna liberamente, spinti da ideali
diversissimi, quando addirittura non saranno i Bandi della repubblica
di Salò a costringere i giovani ad una scelta decisiva.
Ci si ritrova in montagna
giovani e vecchi, operai e contadini, uomini e donne, comunisti,
socialisti, GL, monarchici e persino i cattolici che durante il
Risorgimento erano stati col cuore dalla parte del Papato. Per la
prima volta nella storia d’Italia contadini ed operai partecipano
attivamente alla costruzione del loro futuro e non lo subiscono.
Troviamo formazioni partigiane costituite quasi completamente da
contadini, come nel cuneese, oppure da operai dei cantieri navali
nella Venezia Giulia.
Le donne s’impegnano
in tutte le forme possibili: reperimento di viveri in pianura per
portarli con le gerle in montagna, cucendo indumenti per il parente o
l’amico partigiano, facendo la staffetta da una formazione
all’altra, portando ordini e notizie sia dalla pianura che dalla
città. Come sarebbe stata possibile altrimenti una Resistenza senza
l’aiuto delle donne?
La Resistenza fu infatti,
come la definì Salvemini, una guerra di popolo, né più, né meno
di quello che aveva dichiarato Parri ai primi di novembre del 1943,
quando con Valiani attraversò il confine svizzero per incontrarsi
con i delegati angloamericani i quali dal movimento partigiano si
aspettavano solo sabotaggi ed informazioni e rimasero strabiliati
quando egli affermò ripetutamente che puntava su una guerra del
popolo italiano, condotta da una esercito del popolo: i partigiani. A
quel tempo i partigiani che erano saliti in montagna ammontavano si e
no a qualche migliaio.
Alcuni fatti mi sembrano
importanti da chiarire in quanto di solito vengono dimenticati o
sottovalutati. Man mano che la lotta partigiana aumentava d’intensità
nei territori occupati dai tedeschi essa si conquistò l’ammirazione
ed il rispetto dei comandi alleati, specie dopo l’insurrezione di
Firenze che pose fine alla lotta sanguinosissima combattuta in
Toscana. Nello stesso mese di agosto del 1944 la brigata Rosselli,
comandata da Nuto Revelli, impedì per alcuni giorni nella battaglia
della Val Stura alla 90° divisione corazzata tedesca di accorrere da
Acqui, dove si trovava, a Tolone, valicando il passo della Maddalena,
per bloccare lo sbarco angloamericano avvenuto tra Nizza e Marsiglia.
Nello stesso tempo i garibaldini di Arrigo Boldrini con i mazziniani
di Biasini e Libero Gualtieri combattevano contro i tedeschi sulla
linea gotica.
La guerra di liberazione
nazionale fu senza alcun dubbio una lotta armata contro l’invasore
nazista e contro il fascismo nostrano messosi al suo servizio, ma fu
anche una lotta politica che cominciò al Sud nel territorio già
liberato dagli angloamericani i quali tardavano a ripristinare le
libertà democratiche. In ciò vi era senza alcun dubbio l’interesse
di Churchill che voleva difendere la monarchia sabauda e che la
riteneva un possibile futuro baluardo contro una eventuale minaccia
comunista.
Il congresso del partito
d’azione tenutosi a Bari nel gennaio del 1944, che si espresse in
modi durissimi all’unanimità contro la monarchia sabauda aveva
profondamente turbato Churchill che neanche l’arrivo di Togliatti
dalla Russia nel successivo marzo e la conseguente “svolta di
Salerno” riuscirà a tranquillizzare.
Il fatto politico più
importante fu senza dubbio la creazione dei CLN, i Comitati di
Liberazione Nazionale, che consentirono di dare alla Resistenza
italiana un unico indirizzo politico, un unico comando generale della
lotta partigiana e s’imposero, con loro unitarietà, sia di fronte
alle forze partigiane che li riconobbero come loro emanazione, ma
anche rispetto alle autorità militari angloamericane.
I CLN che discendevano a
grappolo dal centro, Milano, sino al più sperduto paese dove si
lottava per la libertà, vennero riconosciuti dagli alleati, ma
l’azione politica più importante si svolse a Roma.
Qualche giorno prima
della liberazione di Roma, il CLN centrale chiese in forma ultimativa
le dimissioni del generale Badoglio da presidente del consiglio, di
dare pieni poteri legislativi al governo che si sarebbe formato, di
esentare i ministri dal giuramento di fedeltà al Re e di farli
giurare invece nell’interesse supremo della nazione e stabilire con
un decreto legge che al termine della guerra il popolo italiano
avrebbe potuto scegliere la forma statuale che più gli aggradava:
monarchia o repubblica.
Liberata Roma, Badoglio
fu costretto a dimettersi ed il suo successore, Bonomi, ex presidente
del CLN romano, si fece dare pieni poteri legislativi e sulla base
degli stessi emanò il 25 giugno 1944 il decreto che stabiliva sia
l’elezione di una Assemblea Costituente che la scelta
istituzionale, a guerra conclusa, tra Monarchia e Repubblica.
Calamandrei commentò:” siamo usciti dalla legalità statutaria e
siamo entrati nella legalità precostituente.”
A fine estate, sbalordito
dell’opera delle brigate partigiane e dei CLN, il toscano in
particolare e dell’importanza assunta dal movimento partigiano che
era riuscito a creare tre zone libere ed aveva bloccato una intera
divisione corazzata che si stava precipitando a dare manforte alle
guarnigioni tedesche che tentavano di impedire lo sbarco, il Comando
delle truppe alleate, chiese un incontro con il CLN alta Italia
(CLNAI). La delegazione del CLNAI (formata da Parri, Pizzoni, Paietta
e Sogno) che si recò a Roma già da mesi liberata, ebbe dagli
incaricati del generale Wilson e del Maresciallo Alexander il
riconoscimento del diritto di condurre la lotta partigiana, che
costituiva un invito alle popolazioni di sostenere il movimento
partigiano e fu anche firmato un protocollo di accordo col quale le
autorità militari alleate s’impegnavano ad avallare le nomine dei
responsabili amministrativi (Prefetti, sindaci, questori,
provveditori agli studi,ecc.) effettuate dai CLN.
Il successo della
missione romana degli esponenti della Resistenza nel Nord, ancora
occupato dai nazisti fu completato dalla promessa Alleata di
intensificare i lanci paracadutati di armi ed aiuti di vario genere
alle formazioni partigiane.
Il tutto venne raccolto
in un protocollo firmato da entrambe le parti. L’importanza
politica di questo protocollo è notevolissima: eccetto che nel caso
della Jugoslavia, gli alleati avevano sempre trattato con i governi
in esilio delle varie nazioni occupate dai tedeschi. In questo caso
invece trattavano e firmavano documenti direttamente col movimento
partigiano operante nella zona occupata dai nazisti ed ebbe sentore
di quelli che erano i motivi ed i programmi del movimento partigiano.
Udirono Parri dichiarare
senza mezzi termini che si combatteva per costituire una repubblica
democratica che bandisse in quella che sarebbe stata la sua nuova
carta costituzionale ogni tipo di guerra di aggressione, che non ci
sarebbero più state in Italia discriminazioni dovute a razza, fede
religiosa od altro, che l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle
leggi dello stato non avrebbe avuto limitazioni, eccetera; tutte cose
che noi poi troveremo scritte tra i principi della nostra
costituzione.
Altro aspetto politico
importante della Resistenza italiana fu l’organizzazione degli
scioperi dei primi di marzo 1944 che bloccarono l’attività di
moltissime fabbriche e di intere città. A Milano si fermarono i
tram, lo sciopero bloccò anche Il Corriere della Sera. Non era
possibile per i nazifascisti nascondere la gravità che da tali
scioperi emergeva. Inoltre fu attraverso l’attività dei
propagandisti politici nelle fabbriche, negli uffici e dappertutto
che in molti cittadini, sino a quel momento disinteressati, si
manifestò il desiderio e la necessità di seguire attentamente le
vicissitudini della politica.
Le fucilazioni e le
deportazioni di scioperanti, operate dai nazisti, i manifesti affissi
nelle strade che annunciavano condanne a morte ottennero solo lo
scopo di fare odiare ancor di più dalle popolazioni fascisti e
nazisti.
Un altro aspetto che non
bisogna dimenticare è l’apporto di idee e programmi che la
Resistenza ha elaborato e consegnato ai futuri reggitori della
politica nazionale. E da quelle idee e da quei programmi che sono
usciti i valori, i principi che sono alla base delle nostra
Costituzione che il 22 dicembre compirà cinquant’anni.
Ricordiamocelo.
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