venerdì 10 dicembre 2010

Nell'intimo: voglia di comunismo

Quella porta socchiusa, il minimo indispensabile per intravedere, per rendersi disponibili agli altri, ma non a tutti, per ritrarsi quando ci si sente “invasi”, quando si è intossicati dal nocivo fumo dell'omologazione che ci rende “testimoni e vittime di lutti culturali” (Pasolini). La sfera intima non può contenere la “vita sociale” nella sua interezza. A me capita così. Le “donne”, gli “amici”, i “figli”, gli “allievi”, i “genitori”, i “compagni”, mi riempiono la vita, ma non tutti entrano nell'intimo, anzi, quasi tutti restano fuori dall'uscio, prossimi all'intimità, in attesa, forse, ma all'esterno. Non è miope esclusione; è un lento venire alla luce come un'apparenza che muore. Coloro che si approssimano all'uscio, sono interfacce arricchenti, gradevoli, esemplari della mia personalità, espressioni preziose di dignità, tenerezza, dedizione, di sapere e saper fare, di incantevoli gesti di pìetas. La soglia da attraversare, però, è un passo decisivo, non da tutti, che rende unica la persona, perché non è preceduto, accompagnato o seguito da nessun altro ardente, prepotente “amore” di quel tipo. Con l'andare degli anni, ho scoperto che nell'intimo conservo tracce di intenso coinvolgimento, quasi un humus di un florido giardino. Un'emozionante inclinazione alla predilezione. La rarità di presenze, nella stanza che accoglie pochi intimi, non allude affatto ad aridità d'animo, bensì alla capacità di comprendere il “valore” dell'altro e di farsi conoscere in modo autentico e disinteressato perché “l'amor non fa bollir la pentola”. Ecco, l'intima frequentazione, si distanzia dal fluire incessante di relazioni pur significative, impegnative o importanti per sé che scandiscono l'esperienza umana. La peculiare natura dell'intimo si mostra anche nella sua fenomenologia: risiede nel “sentire comune”, un dato primordiale indispensabile per far si che il legame possa sbocciare, crescere, interamente “occuparti”. Né le convinzioni, né la razionalità condivisa, né le similari prassi possono rappresentare il “sentire comune” che risiede nell'esclusivo spazio concesso e conquistato, insieme. L'appartenenza che descrivo non è “quella ottusa, becera, volgare che governa il nostro presente e vira ogni giorno di più in ipocrisia strafottenza, corporativismo” (da “Il coraggio di appartenere solo a se stessi” di E. D'Errico, Corriere delle Sera, giovedì 9 Dicembre 2010, pag. 53). Penso addirittura che questa dimensione d'esclusività alluda ad una ereticale radicalità nella forma di vita prescelta – in ogni “scelta” c'è la libertà – che sostanzialmente discosta l'aggregazione sociale coatta alla quale, volenti o nolenti, siamo tutti indotti, da quel ritmo vulcanicamente vitale, da quel fuoco interiore che è alimentato da raro umano combustibile. Gli ideali, i valori, la morale avvicinano, ma quasi mai rendono unico ciò che è duale, separato. Viceversa, la “fusione” avviene nello spazio delimitato dal voler essere “veri”, poiché non lo si è spontaneamente né “socialmente”. Questo alone di “verità” (al plurale, ovviamente) ci accompagna nei sentieri che percorriamo, nelle comunità solidali, nelle responsabilità collettive che assumiamo, tanto da essere sempre “diversi”, da parlare un linguaggio “altro” che – è bene che qualcuno si rassegni – non sarà mai agevolmente decodificabile, mai assimilabile del tutto, se non inoltrandosi nell'arduo cammino dell'intimità ricercata. Tendenzialmente intimi, questo è ciò che si da nella generalità delle pur serie relazioni instaurate nel corso esistenziale; altro è “entrare” nella recondita e riservata stanza.Questo eccezionale evento – al di là d'una greve “quantità” di rapporti sentimentali, erotici, socio-culturali, bio-politici, generazionali, filiali che possono darsi – contraddistingue quella trasformazione/emancipazione (possibile) in corpore vili dell'essere umano, traviato dal meccanismo di riproduzione “finalizzata” della forma di vita capitalistica alla quale è incatenato, nel caratteristico autonomo procedere, nel libero incedere verso un felice ed irreversibile “cambiamento del mondo”, impossibilitato a realizzarsi se non esprimendo una novella, netta “ideologia” di rapporti umani “fuori mercato”: voglia di “comunismo” per essere partigiani di inalienabile vita. C'è, dunque, un altro “modo”. Come c’è un altro “mondo”, che quel modo evoca e crea.
[Nota “a margine” di “Gaber – L'illogica utopia”, G. Harari, ChiareLettere, 2010]

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