mercoledì 25 maggio 2011

REFERENDUM 12 e il 13 giugno 2011

Il 12 e il 13 giugno 2011 si terrà in Italia un referendum suddiviso in 4 quesiti: uno riguarda il legittimo impedimento, istituto giuridico che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula, due riguardano la privatizzazione dell’acqua e uno ruota attorno al ritorno dell’energia nucleare in Italia.
Trattandosi di referendum abrogativo, ai cittadini verrà chiesto di abrogare o meno alcune norme esistenti, o loro parti, riguardanti le tematiche di cui sopra.

Più semplicemente, ogni quesito sarà del tipo “vuoi abrogare la norma x?”. Rispondendo “No” si esprimerà la proprio volontà affinché la norma rimanga vigente, al contrario, rispondendo “SI’”, si opterà per la sua abrogazione. Affinché le votazioni siano valide si deve raggiungere il quorum: è necessario, cioè, che vada a votare il “50% + 1” degli aventi diritto (circa 25 milioni di italiani).

Cos’è il referendum
La parola referendum riprende il gerundio latino del verbo refero, "riferisco" (nella frase ad referendum, "[chieder dei documenti, ecc.] per riferire")[1], e indica comunemente lo strumento attraverso cui il corpo elettorale viene consultato direttamente su temi specifici; esso è uno strumento di democrazia diretta, consente cioè agli elettori di fornire - senza intermediari - il proprio parere, o la propria decisione, su un tema oggetto di discussione.

I referendum in Italia
I referendum in Italia sono di numerose forme.
Solo le tipologie contemplate dalla Costituzione italiana ammontano a quattro: il referendum abrogativo di leggi e atti aventi forza di legge (articolo 75), quello sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale (articolo 138), quello riguardante la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni (articolo 132 comma 1), quello riguardante il passaggio da una Regione ad un'altra di Province o Comuni (articolo 132 comma 2). Inoltre è previsto, all'articolo 123 comma 1, che gli statuti regionali regolino l'esercizio del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione.
Nel 1989 una legge costituzionale ha consentito che, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo, si votasse anche per un referendum consultivo sul rafforzamento politico delle istituzioni comunitarie.
Altri referendum a livello comunale e provinciale sono poi previsti da fonti sub-costituzionali.
Il 2 giugno 1946 si svolse in Italia il primo referendum istituzionale con il quale i cittadini furono chiamati a scegliere tra repubblica e monarchia.

Quando, come e dove si vota
I referendum si terranno in tutta Italia Domenica 12 giugno dalle 8 alle 22 e Lunedì 13 giugno dalle 7 alle 15.

Si voterà nel proprio Comune di residenza, nella sezione elettorale indicata sulla propria tessera elettorale.

Gli elettori dovranno esibire al presidente del seggio la tessera elettorale ed un documento di riconoscimento e riceveranno da un componente del seggio 4 schede di diverso colore ognuna con un quesito e due caselle con su scritto “SI’” e “NO” sulle quali bisognerà apporre una croce: per votare “SI’”, e quindi per abrogare la norma oggetto del quesito, bisogna barrare la casella del “SI’”. Viceversa, per votare “NO” e mantenere la norma già esistente, bisogna barrare la casella del “NO”.

Calendarizzazione e critiche
La legge vuole che i referendum abrogativi si tengano in una data compresa il 15 aprile e il 15 giugno e comunque non prima che siano passati almeno 365 giorni dallo svolgimento dell'ultimo suffragio nazionale.

In un primo momento, era stato proposto l'accorpamento del referendum al primo o al secondo turno delle elezioni amministrative del 15-16 maggio 2011, poi, il Ministro degli Interni Roberto Maroni ha optato per la divisione delle due consultazioni dichiarando che il referendum si sarebbe svolto il 12 e 13 giugno “secondo una tradizione italiana che ha sempre distinto le due date”.

La scelta è stata critica dai comitati promotori e dall’opposizione sia per l’evitabile spesa che va dai 300 ai 400 milioni di euro, sia perché vista come un tentativo di non fare raggiungere il quorum necessario, 50% + 1 degli aventi diritto al voto, vista lo collocazione del referendum poco distante dalle elezioni amministrative che inoltre, in alcune parti d’Italia dove si andrà al ballottaggio, si svolgeranno in due turni.


Primo quesito (Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione)
Volete voi che sia abrogato l'art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall'art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea», convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?

Viene chiesto se abrogare del tutto la norma sulla privatizzazione dell’acqua.

Votare “SI’” per abrogare la norma (lo Stato prenderebbe di nuovo in mano la gestione dei servizi idrici, togliendola ai privati).

Votare “NO” se si desidera che rimanga vigente l’attuale normativa.


Secondo quesito (Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma)
Volete voi che sia abrogato il comma 1 dell'art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», limitatamente alla seguente parte: «dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito»?

Viene chiesto se abrogare o meno una norma limitatamente alla parte riguardante la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito.

Votare “SI’” per abrogare questa parte della norma che permette il profitto/guadagno, e non soltanto il recupero dei costi di gestione e di investimenti, nell’erogazione del bene Acqua potabile.

Votare “NO” se si desidera che rimanga vigente l’attuale normativa e che chi eroga il servizio idrico ne tragga un profitto.


Terzo quesito (Nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme)
“Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante Diposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributarla, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare?”.

Il quesito è stato abbreviato in quanto molto lungo e articolato. Anche qui si tratta di abrogazione parziale di una parte del Decreto Legge n. 112 del 25 giugno 2008 recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito poi con modificazioni nella Legge n. 133 del 6 agosto 2008.

Votare “SI’” per abrogare questa parte della norma che consente il ritorno delle centrali nucleari in Italia.

Votare “NO” se si desidera che rimanga vigente l’attuale normativa che non consente la costruzione di tali impianti sul territorio nazionale.

La costruzione di centrali nucleari in Italia era consentita fino al 1987, anno successivo al tristemente noto disastro di Cernobyl e nel quale si tennero referendum sull’argomento. In quell’occasione circa l’80% dei votanti si di rivelò contrario all’utilizzo dell’energia atomica, le 3 centrali funzionanti vennero chiuse e altre non ne vennero più costruite.


Quarto quesito (Abrogazione di norme della legge 7 aprile 2010, n. 51, in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale, quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 2011 della Corte Costituzionale)
Volete voi che siano abrogati l'art. 1, commi 1, 2, 3, 5 e 6, e l'art. 2 della legge 7 aprile 2010, n. 51, recante «Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza», quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 13-25 gennaio 2011 della Corte costituzionale?

Come anticipato prima, il quesito è stato proposto dall’IdV ed è stato autorizzato dalla Corte di Cassazione dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità della norma in questione.

Votare “SI’” per abrogare i sopracitati articoli e se si è contrari, quindi, al fatto che alte cariche dello Stato, come Presidente del Consiglio e Ministri, per esempio, possano. Laddove citati, non presentarsi in Tribunale adducendo a impegni di governo.

Votare “NO” se si desidera che rimanga vigente l’attuale normativa-scudo nei confronti del sistema giudiziario.


Qualunque sia la nostra posizione sugli argomenti oggetto dei 4 quesiti referendari, l’importante è ANDARE A VOTARE per adempiere al proprio DOVERE e per esercitare il proprio DIRITTO.

mercoledì 11 maggio 2011

Emergenza e guerrra: Scelta politica della Babele post-moderna - through europe


http://th-rough.eu/writers/dursi-ita/emergenza-e-guerra-scelta-politica-della-babele-post-moderna

Giovanni Dursi, 54, has studied and studies Philosophy and Social Sciences and works as a high school teacher in Bologna; He has also been professor of Philosophy of Education at the Department of Education, University of Urbino.
In the late '70s, he joined the anti-capitalist movement and the “ideas' struggle”, by publishing for various magazines, periodicals and newspapers. In particular, he developed the question of Marxism in educational, sociological and linguistic content.
He now deals with management training in the knowledge society and public communication, on behalf of a number of local administrations in Italy.
He is co-editor of the magazine Bologna "Zero in condotta" [http://www.zic.it/] and he took part in the political experience of the new civic organization Bologna Free City [http://www.bolognacittalibera.org/profile/GiovanniDursi].

venerdì 1 aprile 2011

Roma, il 2 e 3 aprile 2011 - Terza Assemblea nazionale della Rete dei Comunisti - Centro congressi Cavour - Via Cavour, 50/A


Ben scavato vecchia talpa! Dalla crisi di civiltà del capitalismo una nuova opportunità per i comunisti - 3° Assemblea nazionale della Rete dei Comunisti
ROMA 2-3 Aprile 2011

http://www.contropiano.org/it/archivio-news/editoriale/item/500-la-3°-assemblea-nazionale-della-rete-dei-comunisti
http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Aprile11/ManifestoPolitico3AssRete.pdf
http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Aprile11/3AssembleaNazReteComunisti.pdf

Corpi

Dai fatti drammatici di Tunisia (dal decesso, per le gravissime ustioni riportate, di Mohamed Bouazizi, giovane disoccupato tunisino che per protesta si è dato fuoco, incendiando la rivolta che dalla città di Sidi Bouzib ha contaminato altri Paesi arabi) alle mattanze di Libia e Siria (tributo ad un cambiamento inarrestabile e di lungo periodo perché si appoggia su una maggioranza di giovani che uniscono nella lotta l’esigenza di migliori condizioni materiali di vita con la voglia di libertà e di una nuova identità anche diversa da quella culturale e religiosa), la genericità ed evanescenza di ogni discussione geopoltica e di natura scientifico-sociale si mostrano in tutta evidenza.

Il dato primordiale – al quale necessariamente risalire e sul quale doverosamente riflettere – è il corpo messo a repentaglio, non certo un'ambivalente “rivolta precaria cognitiva” che unificherebbe, con la presunta consapevolezza d'una forte “rappresentazione teorica”, gli ambiti sociali e, di risulta, politici euromediterranei. Come sostenuto da alcuni filosofi (R. Bodei) “... Il corpo è ciò che pone l’uomo in contatto con il mondo … l’uomo non ha un corpo, ma è un corpo. Seguendo questa concezione, corpo ed anima non sono separati. Pure ammettendo che tale separazione ci sia, il corpo può fungere da veicolo per la crescita e per la grandezza dell’anima ...”. Già F. Nietzsche in ”Ecce homo” affermava “Che si sia imparato a disprezzare gli istinti primari della vita; che si sia finta l'esistenza di un'anima, di uno spirito, per fare andare in rovina il corpo; che si sia imparato a considerare come qualcosa di impuro ciò che è il presupposto della vita, la sessualità”.


Certo è significativo che i sommovimenti gravidi di cambiamenti “reali” accadano dopo l'appropriazione di tecniche e forme universali nella comunicazione sociale in grado di mobilitare le coscienze da parte di popoli oppressi. Ciò che contraddistingue la fenomenologia delle rivolte arabe e ne configura andamenti ed esiti prossimi, non è però la “modalità” aggregativa e potenzialmente rivoluzionaria del presunto valore aggiunto della “conoscenza” incorporato nell'uso proprio – critico, sociale, mobilitativo – delle risorse della “rete”. Viceversa, è la “datità” del corpo messo a repentaglio, è l'esistenza in vita messa in gioco a dare prospettiva, significato, drammatica autenticità ai comportamenti adottati. Forme di lotta radicali, tanto irriducibili ad ogni ipotetico disegno teorico-politico quanto necessarie, per andare oltre gli angusti liberticidi limiti di civiltà: la morte fisica, unica seria posta in gioco. Il presente impone di dotarsi di adeguati strumenti concettuali per affrontare i nuovi ambiti di ristrutturazione sociale che caratterizzano i conflitti emergenti, la storia di chi esce rabbioso da putride stive, i “vissuti” individuali e collettivi dentro la crisi organizzativa del capitale globale. È il sentire corporeo l'elemento comune alla molteplicità dei fenomeni relazionali ed affettivi (passioni, sentimenti, emozioni, stati d’animo) della travagliata contemporaneità. Il corpo è l'elemento mutogeno, ma comune, imprescindibile che non deve “lasciar valere alcuna datità” ulteriore che non permetta di conoscere in modo rigoroso l’esperienza umana, le pratiche agite, i significati attribuiti all’esperienza, le teorie costruite sui vissuti. Significa prestare attenzione ad ogni oggetto non nelle sue qualità ideali, ma nei suoi tratti individuali specifici e questi oggetti non sono altro che i corpi.


Negli ultimi anni l'ICT ha artificializzato non poco le relazioni sociali, se non per tutti, almeno per tanti; aver dato uno sguardo al mondo attraverso la “rete” ed essere usciti da un’ottica ristretta tribale o di comunità locale non corrisponde obbligatoriamente ad una liberazione a portata di mano o ad una auspicata, quanto inconsistente, democratizzazione dei rapporti sociali. Non a caso i “nativi digitali” ed i competenti teorici della cognizione reticolare sembrano trascurare la persistenza dell'esclusione dal “mondo di InterNet” di miliardi di persone dalla fruizione libera e consapevole di informazioni. Il movimento anti digital divide deve essere ancora inventato, non è una priorità da parte di chi cerca intelligentemente di contrastare la dittatura politico-cognitiva dei regimi oligarchici (in occidente quanto altrove insediati) che si traduce, sul versante storico, in brutali repressioni attuate dall’esercito, dall’aviazione e, se del caso, dai mercenari, che hanno già causato migliaia di morti, mutilati, feriti nelle piazze e nelle strade, da decenni, non solo di Bengasi e di Tripoli. Per questi motivi, non si tratta solo di condannare il massacro in corso, assumendo urgentemente tutte le iniziative necessarie a salvaguardare la vita e la sicurezza della popolazione in rivolta e in fuga dai massacri; la pace e la stabilità in tutto il Mediterraneo, si potranno raggiungere solo con l’instaurazione delle democrazia popolari, con il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali che sono alla base di ogni sviluppo sociale e condizione per risolvere anche il problema delle migrazioni senza accoglienza. Essere oggi a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici, degli studenti e dei disoccupati che in questi giorni stanno riempiendo le piazze per chiedere democrazia, libertà, dignità e lavoro ovunque nel mondo martoriato dal capitalismo globale che mercifica l'esistenza alla stessa stregua del petrolio, vuol dire assumere la visione integrale del corpo quale unico, ultimo strumento di liberazione effettiva. Corpi nudi, dunque, poiché insofferenti ormai alla morte civile, mentre rischiano la mera persistenza biologica. Gli insorti di Bengasi qualcuno pensa siano strumentalizzati e certamente i servizi segreti occidentali sono nel teatro di guerra; troppe armi per una rivolta la cui forza autentica è nella generalizzazione dell'intifāda come estremo, irrimediabile sacrificio umano per le comunità a venire. Fermare i carri armati, qui vuol dire esserne calpestati. L'estraneità timorosa che provano gli osservatori europei nell'assistere a questi eventi, la loro lontananza determinata dalla non comprensione delle dinamiche interne ai paesi arabi islamici chiusi per le masse ad ogni possibile contatto con altre culture foriere di forme avanzate di partecipazione, sono le spie rivelatrici di uno status che deriva dall'appartenere al cosiddetto mondo “opulento” e “liquido”; questo status non permette più di superare l'omologato istinto di conservazione individuale e collettiva in modo tale da compromettere il senso proprio dell'esistere quali soggetti subalterni. Le rivolte dei corpi morituri per rigenerare “vita” nella metropoli capitalistiche del terzo millennio non si verificano e per quanto pronti le nuove generazioni al gioco della testimonianza critica, della protesta, delle prassi di lotta rivendicativa, della contrarietà alle politiche governative, per quanto alfieri d'una inedita partecipazione da protagonisti ai circuiti globali dell'informazione, non insorgono mostrando impulsi etici, pre-politici assimilabili ai partigiani della metà degli anni '40 del Novecento che guerreggiarono contro il nazi-fascismo. I partigiani hanno avuto lo stesso scatto interiore, la stessa saldezza, la stessa triste gioia di vivere rischiando la morte degli odierni impavidi rivoltosi arabi. Ai morti di allora e di oggi che si deve il ritorno nella storia della speranza. Il debito contratto con quei corpi sepolti è inestimabile. C'è qualcosa che accomuna la Resistenza armata europea scaturita dal secondo conflitto mondiale alla rivolta dei popoli arabi, al di là di ovvie diversità di contesto e di epoca, e non è un'analoga composizione sociale ancora da decodificare né, tantomeno, una comoda immaginazione sociale (produttiva di convegni, conferenze, rassegne telematiche, gruppi di discussione su InterNet, articoli, flash mob) contro la sofferenza che di per sé possono rappresentare la via di uscita dalle plurime forme del dominio capitalista sulla vita di miliardi di uomini. La prossimità sociale delle due coste del mar Mediterraneo non serve più di tanto a far circuitare la ribellione e la rivolta; servono corpi che si scagliano contro, serve immolarsi. Questa realtà atroce e ultima, pur avendo diverse originarie antropologie e datazioni, è sostanzialmente ancora tutta attuale per il tipo di problematica affrontata: quella della liberazione umana. Saper rinunciare alla vita non è la stessa cosa della semplice denuncia dei tentativi di un suo smantellamento economico-sociale, svuotamento spirituale o alienazione perenne. È il vero “processo di costituzione” della socialità. Per chi sopravvive. Grazie a chi non c'è più, a corpi ormai immoti, sublimi e coraggiosi.

giovedì 31 marzo 2011

Comunicazione e lottte

Il linguaggio della guerra

Diventa sempre più difficile oggi parlare di altro che non sia il tema della guerra. Diventa quasi impossibile, ad esempio, parlare di problemi contrattuali e vertenziali, quasi che si possa apparire come degli egoisti che non pensano ad altro che al proprio "meschino particulare". Eppure è proprio vero il contrario, ed è ciò che si deve invece fare, seppure con una necessaria coscienza più allargata, ovvero "di classe" e globale.Il vocabolario della guerra, il suo linguaggio è fatto apposta proprio per coprire la voce e le parole dei lavoratori, perchè sono essi i bersagli di ogni guerra dei padroni. La solita guerra (di classe) che i padroni, incessantemente, rivolgono ai lavoratori cambia talvolta di forma, mai di sostanza.
La politica è guerra senza spargimento di sangue; la guerra è politica con spargimento di sangue. Siamo portati a credere che non esista alcun nesso tra questioni ritenute "sindacali" (come leggi di precarietà, abbassamento di diritti e di salari, licenziamenti e chiusure di fabbriche, etc...) e guerre combattute con ordigni bellici. E' questo, in soldoni, il pensiero dominante in ogni paese. Chi indica in Roma ladrona l'origine delle sue sofferenze, chi negli immigrati, chi negli impiegati pubblici, e chi ancora negli operai improduttivi, mente sapendo di mentire. Costoro sanno che l'origine della povertà, in un mondo ricco di ogni bene di consumo, non è altri che il Capitale e la sua legge del Profitto. E' sempre il Capitale che ordina e riordina, a suo esclusivo vantaggio, le leggi che regolano i diritti (borghesi), i contratti e le stesse gerarchie tra i vari paesi, anche tra quelli imperialisti. Laddove non è sufficiente la mediazione "politica", il Capitale non esita ad adoperare i mezzi bellici, e lo fa indipendentemente dal fatto che il Presidente Supremo (a stelle e strisce) sia un reazionario petroliere texano o un raffinato fighetto democratico di colore. E' sempre il Profitto a dettare le regole, le parole e le azioni. Non comprendere ciò equivale a non vedere la foresta dietro l'albero. La crisi di un modello. Siamo anche portati a credere che non possa esistere altro modello sociale che non sia quello "occidentale e democratico", e che tutto ciò che non vi si conformi sia destinato, prima o poi, a doverlo fare. Siamo portati a credere che ciò avvenga "naturalmente", magari perché ritenuto "vantaggioso" per chiunque, compresi i "buoni selvaggi" che ancora ignorano tanta bontà. Siamo convinti che quel modello sia l'incarnazione della Civiltà e del Progresso quando non anche la Fine della Storia. Invece, in buona parte del pianeta terra, questo modello viene rifiutato esplicitamente o, magari, applicato appena un po' diversamente, ovvero con "correttivi" e varie "interpretazioni" locali. Peccato che oggi, in piena crisi di quel modello di accumulazione capitalistica, anche ogni più piccola "variazione" rappresenti una seria minaccia ad un ordine imperialista che, proprio in virtù di questa crisi, non può che reggersi su una mera supremazia militare (con buona pace della "diplomazia" politica...) e sulla rapina di ogni fonte energetica. Ergo, il warfare state (lo stato di guerra permanente) è il paradigma di ogni ambito civile e sociale del nuovo millennio. Anche nel più misero e ridotto contratto di lavoro.Il battito d'ali di una farfalla in Giappone può produrre una tempesta in Occidente. In Giappone si è avuto il più disastroso evento naturale che la mente umana ricordi (seppure non manchino ipotesi più inquietanti e, per questo, definite "complottiste"...). Un terremoto devastante ed uno tsunami di proporzioni gigantesche ha spazzato buona parte del paese causando molte migliaia di vittime (ancora imprecisate) e danni sicuramente superiori a quelli della Seconda Guerra Mondiale. Eppure il popolo giapponese, uso ad una consolidata tradizione di operosità ed efficienza, è già in grado di rimediare - a tempi da record - a gran parte di questi danni, dimostrandoci che i danni della natura, per quanto tragici, sono comunque arginabili. Dove, purtroppo, non si potrà porre rimedio (non in maniera efficace, almeno...) sarà ai danni causati dalla mano dell'uomo, ovvero al suo delirio nucleare. Sarà questo, infatti, il punto dolente che rimarrà per secoli a venire, avvelenando acque e terre giapponesi, ma non solo giapponesi... I destini di ogni popolo sulla faccia della Terra non sono mai stati così intrecciati come nell'era della moderna "globalizzazione". Non perchè, come su detto, ciò sia avvenuto per un naturale e pacifico sviluppo delle relazioni umane, quanto piuttosto per la violenza delle leggi di un Capitale alla ricerca incessante di nuovi mercati e nuove aree di sfruttamento. Uno sfruttamento che, come si sa, non si limita all'estrazione di plus valore dal lavoro umano, bensì si estende allo sfruttamento selvaggio della natura e si fa beffe di ogni limite ecologico. Ebbene, il nucleare è l'apoteosi del sogno di dominio del Capitale. Una centrale nucleare racchiude in sè il massimo di concentrazione e di intensità di investimento finanziario e tecnologico; il massimo di controllo politico e militare di un apparato, a tutti gli effetti paragonabile ad un'arma di distruzione di massa, gestito da una ristrettissima tecnocrazia a livello mondiale. Una centrale nucleare è il controllo totale di un intero paese e condiziona i destini - ecologici ed economici- di tanti altri paesi, non necessariamente confinanti o vicini. Mutatis mutandis, sono essi i veri e propri "padroni del vapore" del terzo millennio. E sono e saranno sempre più loro a voler dettare le regole, anche se dovessero - temporaneamente, si badi! - mettere nel cassetto ogni ipotesi di nuovi impianti nucleari. Il petrolio. Ricchezza per i paesi imperialisti, disgrazia per chi lo possiede. Seppure sarà l'acqua il liquido sempre più prezioso e futuro bene che scatenerà guerre di conquista, non si esaurisce certo oggi la lotta per il possesso del liquido infiammabile oggi più importante per i cosiddetti "paesi civili", il petrolio. Chi lo possiede, e magari lo gestisce anche a vantaggio del popolo del suo paese, è agli occhi dei paesi occidentali, ovvero delle loro multinazionali petrolifere, un pericoloso dittatore che va eliminato. Lo si fa e lo si farà col pretesto di "aiuti umanitari" e con l'esportazione di tanta "democrazia", ma il conto di tanto aiuto lo si farà pagare con barili di oro nero. Oggi alla Libia, domani probabilmente a Iran e Venezuela. Anche in quei paesi "canaglia", si sa, governano despoti e dittatori...Anche qui, ci scommettiamo fin da adesso, assisteremo al sostegno unanime e trasversale di TUTTI i partiti parlamentari (ma anche ex-parlamentari, come ha già dimostrato Vendola con la sua SEL...) per "armarsi e partire". La "politica" estera, soprattutto quando la dettano gli USa, non ammette defezioni. La "politica" interna, invece, si può benissimo fare anche solo con mignotte, nani e ballerine...Chi ci guadagna? Già la domanda è schifosa nella sua brutale formulazione, tanto è distante da una sia pur minima etica. A nostro avviso, infatti, è già orribile ipotizzare una guerra "per guadagno" ma noi, come sempre, non facciamo testo poichè "utopisti". E allora la facciamo: chi ci guadagna da questa (o anche dalle altre) guerra? Chi di voi, tra chi ci legge, pensa sinceramente di poter trarre qualche profitto da tutto ciò? Noi siamo sicuri solo di pochissime cose, una tra tutte è la convinzione che la guerra fa bene ai padroni, ma la pagano i lavoratori. In denaro ed in sangue. Facciamo sentire la voce di noi lavoratori, nell'esigere contratti dignitosi per salario, diritti e dignità. Per una società dove sia il lavoro ed il benessere di tutti il bene più prezioso. NO alla guerra dei padroni! Ripetiamolo in ogni occasione, in ogni manifestazione, in ogni sciopero a venire! ...e guardiamoci da politicanti e pacifinti. Il loro interesse coincide con la nostra disgrazia. By Proletaria VoxA seguire, sul blog http://blog.libero.it/VoceProletaria
Appuntamenti all'insegna della solidarietà.
Con i lavoratori della Verlicchi. Di VAG 61 - Bologna.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10059022.html
Solidarietà di Ascanio Celestino e Un Ponte Per... Di Un ponte Per...
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056339.htmll

Sindacato e sindacalismo.
Marciare uniti o marcire sul posto? Di Lavoratori Autoconvocati.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056151.html
Piaggio: ora viene il bello! Di Comunisti Uniti - Pisa.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056249.html

Università.
Decleva in minoranza nel suo Senato. Dal Senato Accademico - Università Statale di Milano.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056267.html

La guerra. Di ieri e di oggi, mai passata da ogni presente.
No alla guerra nel mediterraneo. Di "La FLC che Vogliamo".
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056168.html
Iscritti CGIL contro la guerra. Di iscritti CGIL.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10059011.htmll
12^ anniversario dei bombardamenti sulla Yugoslavia. Di Alessandro Di Meo.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10041980.html
La guerra in Libia e la fabbrica del falso. Di Marisa...
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10041955.html
La Libia, la sinistra e la guerra imperialista. Di Domenico Moro.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10042008.html
La sconfitta dell'Italia in Libia. Di Pietro Ancona.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056301.htm

Le tragedie per mano umana.
Giappone e Libia: due disastri umanitari. Di Kiyul Chung.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10042022.html

La satira.
Il giustiziere della notte. Di Alessandra Daniele.
http://blog.libero.it/VoceProletaria/10056348.htm

sabato 19 marzo 2011

Uomini precari

Precari. L'umanità ed il mondo. Precaria. La condizione umana nel mondo. Incertezza, insicurezza, instabilità. Il peculiare contenuto dell'esistenza collettiva. Il termine, “precario”, deriva dal latino precarìu(m), a significare propriamente “ottenuto con preghiere”, da prex, precis, appunto, “preghiera”. Nel diritto romano, ci riferisce alla concessione di un bene, gratuitamente o con un canone simbolico, con patto di restituzione, in qualsiasi momento e senza necessità di preavviso; ora, indica un comodato del quale non è stato stabilito il termine di scadenza e che prevede, quindi, che il bene dato in godimento, possa essere richiesto in restituzione in qualsiasi momento. Nella legislazione italiana [http://www.camera.it/parlam/leggi/03030l.htm], con provvedimenti ad hoc in materia di occupazione e mercato del lavoro, trasla definendo la condizione della forza-lavoro: una situazione lavorativa temporanea, provvisoria, un rapporto di lavoro senza garanzie di continuità o stabilità, legato solamente a contratti a termine. Avventizio è l'uomo-lavoratore, barcollante nell'incedere nella vita, fragile nella progettazione del futuro, incerto nelle relazioni che instaura con i simili e con il mondo, pericolante l'ambiente nel quale trascorre il suo tempo – perché non gli appartiene e non può decidere -, vacillante la sua pretesa di un mondo migliore, transitorie le conoscenze delle cose, tipiche delle società post-industriali che le rendono a loro volta parziali, a tempo determinato, utili solo a sostenere il PIL. Le conseguenze dell'apocalittico terremoto nipponico non sono affatto ancora da valutare. Sono negli occhi di tutti. Le radiazioni nucleari indotte dalla precarietà dell'ingegneria incorporata nelle centrali, certo misurabili, ma non più arginabili nelle dimensioni effettive del danno, non sono una minaccia, non sono un rischio; sono la verità della vita disegnata dall'espansione planetaria del capitalismo globale. I contraccolpi economici, sono l'unica preoccupazione di chi quel disastro antropologico ed ambientale non ha mai sottoposto a prevenzione. I sacerdoti del PIL si agitano un poco osservando l'indice della Borsa di Tokio mentre subisce un tracollo, trascinandosi dietro i mercati azionari del resto del mondo. Pronti a ripartire, salvi insieme al loro potere. Si ragiona in termini di seconda o terza (dopo il recente sorpasso cinese; Cina “nucleare”, dimentica del terremoto dello Shaanxi nel 1556, di magnitudine 8,3, a causa del quale morirono 830.000 persone) economia del mondo devastata dalle conseguenze del sisma e delle ripercussioni che sta già subendo. Si giunge a considerare il settore economico vitale, quello dell'energia. Un quarto di secolo dopo la tragedia di Chernobyl, la corsa generale alle centrali nucleari pare subire una battuta d'arresto, rappresentazione di un'ipocrita momentanea costernazione, risposta emotiva al montare delle rivolte popolari nel mondo piuttosto che una reale occasione di revisione strutturale del “modello di sviluppo”; ci si chiede: il Giappone è certo più “visibile” mediaticamente del Cile, considerato che già il terremoto di Valdivia, nel 1960, raggiunse magnitudine 9,5, ma perché da allora non è stato preso in considerazione dalla comunità internazionale un altro “modello di sviluppo” che non fosse basato su idrocarburi e nucleare ? Le onde P fanno oscillare la roccia avanti ed indietro, nella stessa direzione di propagazione dell'onda; esse generano “compressioni” e ”rarefazioni” successive nel materiale in cui si propagano. La velocità di propagazione dipende dalle caratteristiche elastiche del materiale e della sua densità; nella crosta terrestre tali onde viaggiano ad una velocità che può raggiungere anche i dieci km al secondo; queste onde sismiche attraversano longitudinalmente tutti i materiali.

Le onde S, onde “secondarie”, muovono la roccia perpendicolarmente alla loro direzione di propagazione; sono “onde di taglio”. Le onde “superficiali” sono generate dal combinarsi delle onde P e delle onde S; sono quelle che provocano i maggiori danni. Nei terremoti, le onde di Rayleigh muovono le particelle secondo orbite ellittiche in un piano verticale lungo la direzione di propagazione, come avviene per le onde in acqua. Led onde di Love, muovono invece le particelle trasversalmente alla direzione di propagazione, ma solo sul piano orizzontale. Onde terrificanti che rendono precaria la vita. Tutto ciò è noto da tempo. In queste ore, Germania e Svizzera bloccano i programmi atomici; gli USA, presi in controtendenza rispetto alle intenzioni di un potenziamento del piano energetico da uranio per emancipare il paese dalla dipendenza da petrolio, pensano ad una revisione del piano originario. Durevoli o meno questi ripensamenti politici non saranno forieri di un'economia che metta al centro le tematiche della diseguale distribuzione planetaria del reddito e dello “sviluppo umano” in grado di rompere radicalmente con la concezione tradizionale dello sviluppo come “crescita economica”, proponendo un paradigma di sviluppo che riguarda non tanto la crescita della ricchezza di una nazione, bensì l'ambiente nel quale le persone possono esprimere in pieno il loro potenziale. Il concetto di ”sviluppo umano” è stato ideato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq insieme a Sir Richard Jolly. Compare per la prima volta nel 1990 all'interno del primo Rapporto sullo Sviluppo Umano dell'Undp, il quale afferma da subito: "questo rapporto si occupa della gente e del modo in cui lo sviluppo ne amplia le scelte. Si occupa di questioni che vanno al di là di concetti quali crescita del PNL, reddito e ricchezza, produzione di beni e accumulazione di capitale. La facoltà di una persona di avere accesso a un reddito rappresenta una di queste possibilità di scelta, ma non la somma totale delle aspirazioni umane" (Human Development Report, 1990). Un processo che si fonda su quattro pilastri specifici: eguaglianza (lo sviluppo umano consiste in un ampliamento delle opportunità a beneficio di ogni essere umano); sostenibilità (il processo di sviluppo deve essere capace di garantire la riproduzione del capitale fisico, umano e ambientale utilizzato); partecipazione (i processi economici, sociali e culturali attivati per promuovere lo sviluppo devono osservare la partecipazione dei beneficiari stessi); produttività (all'interno del processo economico di sviluppo ognuno deve avere la possibilità di partecipare alla di produzione dei redditi e di incrementare la propria produttività). Poiché il concetto consiste nell'ampliamento delle scelte, il fondamento stesso del processo è la libertà. Se non vi è libertà, infatti, non è possibile disporre di scelte. Per questo Amartya Sen afferma: "lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali di cui la gente può godere". L'Indice di Sviluppo umano (HDI, Human Development Index) non è la panacea, ma un discreto inizio, un efficace contrasto alla precarietà, mentre si continua a blaterare di localizzazione dei siti per impianti nucleari di “ultima generazione” e di come trattare le scorie radioattive, poiché le priorità apprezzate dai sacerdoti del PIL continuano ad essere legate al momento particolarmente difficile per il mercato delle fonti d'energia, non per l'umanità, evidentemente. Le reali preoccupazioni dei governanti sono solo l'incremento dei prezzi del petrolio e l'allungamento di ombre oscure sulla sicurezza e sulla continuità di indispensabili prossimi approvvigionamenti, vedendo nei processi di destabilizzazione politica in atto dal Nord Africa al Golfo persico un micidiale bivio fra costi del barile in crescita e gravi pericoli connessi all'alternativa nucleare. A meno che non si apra una prospettiva di conveniente business delle energie rinnovabili. Accogliendo l'invito di Jeremy Rifkin, si potrebbe creare una rete diffusa di piccoli impianti la cui resa sarebbe superiore e i cui costi sarebbero inferiori ad una gran quantità di centrali nucleari. L'incombente pensiero economico incentrato sul PIL, ritarderà le decisioni dei Governi occidentali nel compiere scelte di rinuncia al controllo centralizzato della produzione di energia; banco di prova d'una ipotetica “nuova sensibilità” potrebbe essere il Consiglio europeo del 24 e 25 Marzo prossimi, nel quale Capi di Stato e di Governo dovrebbero formalizzare un'intesa sulla riforma della governance economica, sulla revisione del patto UE di stabilità e crescita e sulla stretta sui debiti pubblici con l'adozione di sanzioni. È prevedibile assistere ad una passerella di smemorati, all'indecoroso spettacolo di tagli a tutela dei margini di profitto, all'indiscussa liturgia del PIL e della precarietà delle genti. Forse si discuterà di guerra ONU - NATO, di quei "giorni difficili" evocati dal Presidente Napolitano Una politica che mai prende decisioni a favore dei popoli è una politica da rottamare. Per evitare la precarietà eterna.


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giovedì 17 marzo 2011

A scuola di rivolta - Franco "Bifo" Berardi all'Accademia di Brera, Milano

A scuola di rivolta - Franco Berardi Bifo | Through Europe from Through Europe on Vimeo.


A scuola di rivolta - Franco "Bifo" Berardi all'Accademia di Brera . . .
"Vorrei parlare di una cosa che tutti sappiamo ma che nessuno sembra avere la spudoratezza di dire: e cioè che il tempo dell'indignazione è passato e chi si indigna già comincia ad annoiarci, comincia a parerci ogni giorno di più l’ultimo difensore di un sistema marcio, di un sistema privo di dignità, privo di sostenibilità, privo di credibilità. Noi non ci dobbiamo più indignare, noi dobbiamo insorgere - I would like to talk about something that everybody knows, but that, so it seems, no one has the boldness to say. That is, that the time for indignation is over. Those who get indignant are already starting to bore us. Increasingly, they seem to us like the last guardians of a rotten system, a system without dignity, sustainability or credibility. We don't have to get indignant anymore, we have to revolt" by Franco "Bifo" Berardi
Giovanni Dursi: "Sinceramente, dubito che l'insurrezione vada "spiegata" ... Non bisogna essere considerati "prezzolati", per affermare che esiste un'analogia di struttura tra l'accumulazione indefinita di ricchezza (materiale ed immateriale), socialmente prodotta, in poche mani e il monadismo intellettuale, per quanto suggestivo, visionario e sollecitatore di trasformazione sociale esso sia ...A proposito di Franco Fortini, è stato detto: "Non stupisce al riguardo la sua opinione sulle neoavanguardie letterarie italiane, che tacciò di estremismo neosurrealista per via del loro uso strumentale (questo sì, cinico) e parodistico del linguaggio, non riconoscendo in loro quella funzione demiurgica che intendevano avere sulla società, e rintracciandovi piuttosto una manifestazione dell’irrazionalismo borghese" ... Non so se la questione meriti attenzione; altresì penso, convintamente, a quanto Fortini ci ha donato a proposito del bistrattato "comunismo": “Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna.” Questo io "so". Tutto il resto è noia. http://www.bolognacittalibera.org/profiles/blogs/antagonismo-di-classe
Ho 53 anni e da 53 anni non strumentalizzo nessuno. In tutte le cose, ci metto la faccia. ne prendo, tante; a volte, mi riesce di darle. Il mio intervento + contenuti link - a leggerlo bene - entra nel merito. Poichè NON parlo di "nomadismo", bensì di "monadismo intellettuale" (improprio riferimento a G. W. Leibniz, lo ammetto), le riflessioni "contro" sono ... e poi non parlo di (ridicoli) complotti, ma di interiorizzazione di ruoli, di pratiche omologate dannose alla "causa", di pervasiva modalità di "intelligere" come fan tutti. Pur apprezzando tanto il "pensiero ribelle", in quanto tale, non concordo affatto sul "come" questo dispendio di energia segnica si traduce in "rivoluzione" ... Insomma, un altro discorso, un altro codice. Una bella citazione da un articolo uscito su L'Espresso del 20 febbraio 1983 di Leonardo Sciascia dice: "Ogni intellettuale è una monade. E c’è la monade con porte e finestre, e c’è la monade chiusa. E nessuno dovrebbe azzardarsi a giudicare che la monade chiusa merita ostracismo e disprezzo mentre da coltivare, da preferire e da privilegiare è la monade aperta. Ci sono monadi spalancate che sono del tutto cieche, e monadi chiuse che vedono tutto”; belle parole, non c'è nulla da eccepire, grazie. Sciascia non è mai stato un "ribelle". “Dateci una organizzazione e capovolgeremo la Russia”.La frase naturalmente è di Lenin, e sta ad indicare quel legame indissolubile che in un marxista dovrebbe sempre esser chiaro, ma anche il contesto profondamente e temporalmente configurato ove si trova ad operare ... Senza la teoria della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive, l'eredità di Marx che ci resta da attualizzare non sarà mai produttiva degli effetti desiderati ... Anche nel '77, ci è sembrata possibile l'utopia (ciò che ancora è possibile realizzare), ma questo è un altro discorso".

lunedì 14 marzo 2011

Antagonismo di classe, questione irrisolta - Lottare per l'esistenza

Nel 1789, la borghesia europea trovò, con la “rivoluzione francese”, la sua forma-Stato. Si organizzò per sottrarsi in modo permanente dal vassallaggio del clero e della nobiltà, ormai oziosa, improduttiva, retriva e violentemente orientata a difendere il “potere”. Sul piano storico, restava la “questione” del “quarto stato”, del “proletariato”: a molti sembrò che la “rivoluzione russa” (bolscevica, sovietica) del 1917 fosse la soluzione tanto attesa. È così è stato, almeno fino al 1924. Con buona pace dei detrattori contemporanei, sempre con il culo al caldo. Va affermato che qualsiasi tipo d'antagonismo sociale la storia abbia prodotto nei decenni successivi, qualsiasi sia stata la modalità conflittuale entro la quale la contraddizione capitale-lavoro (anche quello prodotto dal “cognitariato”) si andava determinando (dalle rivolte novecentesche “occidentali” del '68 e del '77 alle rivolte “euromediterranee”, ancora in cronaca, del secondo decennio del XXI secolo), ancora oggi sono debitori nei confronti di quei sette anni che “sconvolsero il mondo”. La rottura rivoluzionaria leninista e la problematica edificazione del primo Stato socialista in Russia, non significa affatto che il problema dell'orientamento delle lotte di resistenza all'incedere dell'attuale “crisi capitalistica multinazionale” e della prospettiva autenticamente antagonistico-duale alla quale lavorare e dedicarsi, siano efficaci solo se si prendono le distanze da quelle esperienze. A giudicare da alcuni ragionamenti e dalle prassi adottate da certo “antagonismo laboratoriale e/o seminariale", da cenacoli leonardeschi, da certo iperattivo “estremismo” manieristico-intellettuale, la “questione” della contrapposizione materiale e coscienziale delle classi, la "questione" del contropotere proletario, del programma e dell'organizzazione popolare territoriale pare siano da aborrire, da evitare, da ripudiare. La “questione”, viceversa continua a sussistere in tutta la sua portata, laddove ogni “dominio” economico-statuale non sia realmente scardinato opponendo ad esso non “auspici”, “analisi” raffinate sulla composizione di classe, addirittura previsioni catastrofiche sull'esito dell'estensione delle lotte in corso nell'economia-mondo, bensì attualizzando integralmente l'esperienza leninista, sovietica in quelle realizzazioni concrete che, nel sociomorfismo globale che minaccia di negligere l'epoca contemporanea, possono innestarsi per aprire davvero la trasformazione sociale a destini innovativi. C'è chi, cambiando farmaci, ritiene di contrastare meglio la malattia; non è così che si procede sul terreno dell'antagonismo; la malattia era ed è vera; è, infatti, inconcepibile che nel “mondo” cosiddetto dalle “radici cristiane” e nel periodo storico nel quale l'automazione sembra ridurre la qualità del contributo dei singoli uomini alla costruzione delle ricchezza comune, le differenze retributive – spia rivelatrice dell'ingiustizia sociale strutturale – tra i “primi” e gli “ultimi” della comunità globalizzata tendano ad aumentare nell'indifferenza generale o, peggio, nell'ulteriore stratificazione di forme di sfruttamento e di gerarchizzazione – all'interno della stessa area sociale oppressa – tra chi ha un reddito di sopravvivenza e chi non ce l'ha, tra chi è istrutio e chi è considerato "in corpore vili", tra tra maschio e femmina.Molto schematicamente si potrebbe dire che l'antagonismo operai-padroni e la contraddizione capitale-lavoro, siano stati affrontati e “risolti” in tre diversi modi: in U.R.S.S., eliminando l'appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, ma – nel prosieguo dell'esperienza leninista - a discapito delle libertà personali riproducendo dal 1924 in poi atroci disuguaglianze; in Germania, con la sperimentazione del “modello renano” capace di socialdemocratizzare la conflittualità sociale (“gradualismo”, “riformismo”, istituzionalizzazione del movimento operaio) rendendo eterno il dominio di classe e generando una “mediazione politica” (ceto politico-partitico-sindacale) per spegnere l'autonomia politica dei soggetti sociali subalterni; negli U.S.A., con la “partecipazione” degli operai agli utili dell'impresa abdicando ad ogni “diritto” e lasciando “governare” il proletariato dalla “mano” ben visibile del “mercato”. In Italia è stato valorizzato un modello conflittuale (delega negoziale e “rappresentanze”) che ha deresponsabilizzato tutti: lotta di classe permanente, ma permanentemente frustrata che ha visto solo la leadership politico-sindacale di “sinistra”, fino all'attualità, sistemarsi nei “valori” ufficialmente contestati e rivendicare, non più ambiguamente, ricette di fuoriuscita dalla “crisi” condivise con le controparti confidustriali e governative (“promuovere” la produttività del lavoro operaio, tagli alle spese sociali, sostegno all'impresa per sostenere la “domanda”). Questo modello – tendenzialmente affermatosi come aconflittuale – ha prodotto immorali rendite di posizione dei rappresentanti delle classe operaia, lasciando ai margini del “potere” la stessa classe che avrebbero dovuto difendere e valorizzare. I lavoratori non hanno ereditato né “i mezzi di produzione” come nell'organizzazione sociale della produzione comunista, né sono stati responsabilizzati e coinvolti nella gestione “riformista” dell'economia nazionale, come previsto dal “modello renano”, e neanche hanno potuto beneficiare di alcuna “partecipazione” agli utili dell'impresa, anzi il caso FIAT Pomigliano, Mirafiori e SEVEL dimostrano sfregio di “diritti acquisiti” e introduzione del neoschiavismo. Questo “modello” ideologico” fondato sul potenziale antagonistico deglla classe operaia svilito, depresso e disperso (depotenziamento iniziato con l'applicazione della cosidetta “democrazia progessiva” di divittoriana, togliattiana memoria), non ha dato agli operai né più potere contrattuale e/o decisionale dentro l'impresa, né semplicemente dignitosi salari, né ha ridotto le differenze tra management aziendale e condizione materiale d'esistenza dei lavoratori, tantomeno ha portato pezzi di “capitalismo azionario” nelle loro tasche come da “sinistra” alcuni auspicano da tempo desiderando continuare a frapporsi tra capitalisti e lavoratori, tra Stato e lavoratori. Era ed è difficile, per il proletariato, sentirsi sulla “stessa barca”. C'è solo una sorta di spoil system – dal P. C. I. gramsciano-togliattiano a S. E. L. di Vendola -, questo scandaloso meccanismo che privilegia i più servili di ogni schieramento, lasciando fuori i meno capaci di stare con il cappello in mano, quelle compagne e compagni in grado di aggredire alla radice la questione dell'antagonismo: l'irriducibilità degli interessi di parte proletaria con quelli del capitalismo multinazionale. Irriducibilità che si esercita anche sul versante sapere-potere: liberandosi di quell'angosciante rappresentazione consistente nell'analogia di struttura tra accumulazione ed espropriazione di ricchezza da un lato ed incremento indefinito di "sapere" dall'altro, inevitabilmente introiettata anche nelle "nostre fila". Gli operai hanno da tempo constatato che nulla della propria condizione potrà migliorare anche nell'eventualità d'una mera vittoria elettorale del “centrosinistra” utile solo a mandare i tessereati di lungo corso, la propria incravattata lobby dirigente, a dirigere le Poste, le Ferrovie, ASL ed altri Enti propaggini del fiorente sottobosco governativo. È questa la risposta italiana alla “questione operaia” ? Di fatto, le “sinistre” lavorano per perpetuare questa situazione di stallo nella trasformazione possibile della società italiana, dando ragione all'ad FIAT Marchione quando richiede un nuovo “partto sociale” per rideterminare il comando capitalista sulla forza lavoro. Questo “patto” potrebbe servire anche per irrobustire la presenza della cooperazione nella società italiana (articolo 45 delle Costituzione); se invece deve servire solo per eliminare la “lotta” e consentire ai “padroni” di diventare sempre più ricchi e lasciare gli ultimi al loro “posto”, sarà difficile partecipare autolesionisticamente al massacro sociale perpetuato dall'impresa.
DOCUMENTO / PROPOSTA
Piattaforma per la costruzione dei Comitati popolari di resistenza per la cittadinanza attiva1. Se le responsabilità del massacro sociale, causato dall'irreversibile crisi economico-finanziaria del modo di produzione capitalista, sono chiare, altrettanto evidenti sono le colpevoli responsabilità del quadro politico dirigente delle istituzioni rappresentative del movimento operaio (partiti delle “sinistre” e sindacato) circa la difesa dell'autonomia politico-organizzativa dell'antagonismo sociale . In Italia, il “collaborazionismo” dei dirigenti delle “sinistre” politiche e sindacali (a diversi livelli di incarichi, locali e/o nazionali, svolti) con le strategie ristrutturative del “comando” capitalista – dalla disdetta della “scala mobile” alla Legge delega di revisione della Legge 146/'90 che introduce nuovi limiti al diritto di sciopero (diritto consacrato nell'art. 40 della Costituzione) e di libertà sindacali – è dimostrato dalla voluta liquidazione di ogni rappresentanza della conflittualità, ormai inesistente in Parlamento, per meglio imporre relazioni sociali e politiche consolidando il reciproco riconoscimento negoziale tra frazioni borghesi in lotta (autoritarismo affaristico-telecratico tout court o regime pseudo liberale-liberistico, queste le opzioni in campo) per il predominio statuale e l'oscuramento delle istanze collettive di difesa democratica nella ridistribuzione egualitaria del reddito . . . . .
Tutte le ipotesi e le pratiche politico-organizzative messe in cantiere (volendo limitarsi a considerare solo il periodo dalll'89 ad oggi), sono state fallimentari per gli interessi delle classi subalterne. Gli stessi sciagurati protagonisti ed interpreti degli ultimi decenni della devastazione progettuale e della stessa mobilitazione delle coscienze, si ripropongono ora come “salvatori” avanzando ricette avvelenate (tutti uniti al PD) ed inventandosi conduttori di reality politici sulla pelle delle masse lavoratrici, dei disoccupati, degli sfruttati. Nessuno di costoro può più permettersi – senza pagare dazio – di anteporre proprie concezioni teorico-politiche al reale movimento sociale di resistenza all'incedere della crisi, nessuno è più legittimato a rappresentare moltitudini non disposte a delegare ulteriormente. Pertanto, qualsiasi ripresa della lotta e della partecipazione politica deve individuare il massimo di contraddizione nell'assetto della “rappresentanza” e della “rappresentatività” operando una rottura teorico-politica e di prassi, liberando una soggettività politica da ogni “appartenenza” - anche se residuale - nel “noi sociale” in grado di comunicare nuove forme istituzionali della “domanda popolare” e contenuti propri, oggetti specifici delle “politiche sociali” che si vogliono perseguire. Il punto più alto delle contraddizioni economico-sociali del capitale è l'annientamento delle “socialità altre”, non “collaborazioniste”. Il punto più alto di risposta allo stato presente di cose è “fare comunità” - costruire il “noi sociale” - tramite capacità di autovalorizzazione (conoscenze, professionalità, autoimprenditorialità, sostenibilità, potere) di progetto e di comunicazione sociale . . . . .
La realtà non deve diventare la sua rappresentazione mediale, come anche significative esperienze recenti (neocivismo) hanno fatto. L'irruzione della realtà nella lotta politica dipende dalla volontà del “noi sociale” di distruggere il paradigma della rappresentazione partitico-mediale delle contraddizioni sociali. “Noi” dobbiamo rappresentare personalmente noi stessi, non un brand, un veicolo di comunicazione nel mercato della politica o della “cultura”. Rompere questo dispositivo di potere (“delega” e “rappresentanza”) evitando di essere ancora sudditi, vuol dire farsi carico in prima persona dell'agire politico e sviluppare non solo pensiero, ma anche pratiche di liberazione. La precondizione è costituire un “luogo politico” - Comitato popolare di resistenza per la cittadinanza attiva (CPRCA) – che nel territorio accolga, spogliati di ogni appartenenza partitica, sindacale, associativa, ogni individuo, ogni sincera compagna, ogni onesto compagno, disponibili tutte e tutti a proporre, organizzare e lavorare per un sistema neoistituzionale che dal basso possa affrontare e risolvere i problemi della “cittadinanza” conferendo autonomia e responsabilità amministrativa nuove ai territori sociali “partecipati”, imponendo socialmente l'agenda politica. I territori regionali, da provincia a provincia, sono lo scenario entro il quale muoverci a fronte d'una socialità atonomisticamente frammentata e zone specializzate per funzioni. Costruire i CPRCA per ogni provincia può significare costruire un proprio “frame” capace di ricomporre politicamente il territorio regionale aggredendone i santuari del potere che da questa parcellizzazione egolatrica ne trae beneficio al fine di rideterminare forme di dominio. Sottrarsi ad ogni gioco politico eterodiretto dai “soliti noti” (partiti e personale politico ben retribuito) e vivere politicamente ed esclusivamente nello spazio/tempo della comunità in cui si riesce a giocare la propria “sottrazione” ed estraneità. Costruire nuove istituzionalità che si sviluppino nel tempo divenendo egemoni nella dimensione popolare delle forme di vita, esigendo “beni comuni” in ogni città del territorio regionale . . . . [http://cprca2010.ning.com/]
SIETE TUTTI INVITATI AD AVVIARE UN DISCORSO PUBBLICO SU QUESTI TEMI
“... Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente ...” - Tratto da “Ho fatto un sogno: Vivere il socialismo dell'armonia” di Zygmunt Bauman
NB: Il testo può essere arricchito, emendato, integrato, sviluppato ...
Primi firmatari, a suo tempo proponenti: Giovanni Dursi, Oscar Marchisio